di Giulia Bianco
Al centro di un famoso libro della Bibbia c’è una donna, una vedova, affascinante già dal nome, Giuditta: un nome simbolico e allusivo, una trasposizione di “Giudea”; questa giovane poi viene dalla città di Betuha, anche qui emblematico (Betuha, ovvero Betel che significa città di Dio, dimora e vergine).
Giuditta è la donna contro il tiranno, una figura di esaltazione della Gerusalemme che verrà, la “soldatessa” che annienta il comandante dell’esercito del re Nabucodosor (VI sec. a.C.), il corpulento e libidinoso generale Oloferne.
Giuditta è madre della “patria”, figura di evocazione, donna ammantata di virtù che nel corso dei secoli si affaccia sempre nel mondo dell’arte e della cultura. La sua sensibilità femminile la accosta ad altre grandi figure muliebri veterotestamentarie, come Ester, Sara, Deborah, Ruth, ciascuna con un preciso ruolo, con un compito “divino” da portare a compimento.
Le sue virtù, quasi attributi regali, sembrano avere il potere taumaturgico di riportare tutto allo stato originario, di restituire a Dio ciò che era stato tolto.
Nel raccontare questa donna tanto valente, per le nostre “bambine reazionarie”, cercheremo di presentarla sotto i suoi numerosi aspetti, facendo cenno anche ai suoi mille volti che si sono succeduti nel corso delle epoche, rendendola una figura sempre attuale e interessantissima.
Citata dal Petrarca nei suoi “Trionfi” (in particolare in quello della pudicizia), Giuditta appare subito come prima inter pares, resistente e reazionaria.
Protagonista nel Rinascimento, epoca del trionfo della ferma bellezza, Giuditta viene raccontata poi, come emblema dell’humanitas, somma bellezza – somma umanità che attraverso le sue parole e le sue azioni riporta l’esempio della donna virile e prefigura la forza del gesto del Cristo e del fiat della Vergine.
Sapienza, giustizia, arguzia, ma soprattutto prudenza, prudenza in un certo senso “armata” che la porterà a tagliare la testa del lussurioso Oloferne e a liberare la sua città dalla schiavitù e dalla dominazione.
In Giuditta la carità è fortemente legata al coraggio e al fascino, che usa, ben protetta dalla preghiera, per irretire Oloferne, farlo ubriacare per poi ucciderlo nell’intimità dell’alcova, dove lui credeva di averla condotta.
Giuditta è donna sostenuta dall’incrollabile Fede, esempio citato anche da J. Luis Vives nel suo “De Istitutione feminae christianae”, trattato del 1524 ove l’autore esamina le donne esemplari della religione per donare il vero e santo esempio di pietà, sottomissione e rispetto della legge; Giuditta per l’autore è una speculum Christi, una prefigurazione della Vergine delle vergini, una donna che rifiutando la vanità tipica del suo sesso, prende la spada e nel silenzio riporta l’ordine.
Giuditta è l’esaltazione degli oppressi: attraverso la sua opera di fascino e di silenzio, di castità e fermezza, dona al suo popolo la libertà; Giuditta è anche vedova, e questo colpisce ancora di più, è priva della tutela del marito, è debole, senza sostentamento, eppure è lo strumento che Dio sceglie per ristabilire le cose, per fare grande quella futura Gerusalemme.
Armata di una spada ricurva, simile ad una falce, per nulla impaurita del lascivo contesto in cui si deve muovere, Giuditta è la donna che stende il braccio contro l’oppressore e trasforma la propria meditazione in azione.
Giuditta educa con un gesto, un gesto violento, quasi barbaro, taglia la testa dell’uomo che ne vuole abusare, ma che soprattutto abusa della sua città; sembra quasi si possa paragonare a David, sembra quasi complementare a quel ragazzo, futuro re, che giovanissimo uccide il gigante e anche lui, mezzo di Dio, riporta la pace alla sua gente.
Onore, dignità, coraggio, le virtù e le acclamazioni portate a Giuditta sono tantissime, ma la più bella e decisamente emblematica è tratta dal suo proprio libro, parole che andranno poi ad esaltare la madre del Cristo, Maria: “Tu sei la gloria di
Gerusalemme, tu sei il magnifico vanto di Israele, tu splendido onore della nostra gente” (Iud. 15,9)
Ecco, l’aureola gloriosa con cui Giuditta è passata alla storia, mulier virtuosa, giovane lontana dalle cortigianerie, egregia bellatrix che trionfa sull’orgoglio e sulla lussuria; ne parla così Tommaso Moro, che invita le donne a rimodellare la loro vita sociale e familiare sulle orme di Giuditta, ricercando le sue specifiche virtù, per contrastare le ruffianerie femminili che si stavano diffondendo al suo tempo.

Persino Michelangelo, dipingendola nella sua devastante cappella Sistina, aggiunge una chiave di lettura per l’operato di questa donna straordinaria; la pittura del grande artista, di certo influenzata dalla cultura umanista, restituisce Giuditta come la protagonista dell’azione, il “bene” incarnato, ben evidente nel corpo femminile morbido ed eretto, contro il suo Oloferne, figura deformata e relegata sullo sfondo; una fortezza di forme tutta derivante dalla Fede, feroce, robusta, con le carni dipinte che trasudano audacia.

Meno guerriera e più santa nell’immaginario del Botticelli, ritratta con i suoi attribuiti, la sciabola della decapitazione e il ramo di ulivo simbolo di pace, colta dal pittore, nel suo ritorno a Betuha, dopo l’avvenuta liberazione dal tiranno.
L’arte è stata forse la più foriera di opere volte ad esaltare le qualità virili di questa giovane vedova, l’arte è stata la disciplina che ha più manifestato l’eloquenza del raccontare una missione salvifica e meravigliosa: con fermezza di spada, con fascino di donna, riportare il trono al Dio dei viventi.
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