articolo di anonimo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso

È stato dimostrato che l’atto libero è la più complessa delle operazioni vitali che sono proprie dell’uomo. Reduci da secoli di vizi teorici quali il fatalismo, il naturalismo e lo storicismo, cui si devono i più clamorosi attentati alla nozione di libertà della persona umana, potremmo tentare un recupero delle soluzioni (assai più realistiche) proposte dalla Scolastica, filtrandole dal contributo che Gianfranco Basti ha dato nel suo saggio di antropologia filosofica, Filosofia dell’uomo.

Abbiamo chiamato le tre declinazioni del fatalismo, del naturalismo e dello storicismo “vizi”, poiché chi ne è affetto, come vedremo, arriverà a negare la possibilità stessa dell’atto libero, in nome di un Assoluto immanente indicato, a seconda delle varie formazioni, come “fato”, “destino”, “natura”, o “storia”. Il fatalismo è la metafisica soggiacente agli altri due, nonché l’esperienza più antica: è l’esperienza del paganesimo greco-latino. che solo in piena modernità ha assunto le forme specifiche del naturalismo, dello storicismo o, una volta radicalizzato, quella del nichilismo.

Più recentemente, il filosofo italiano E. Severino è pervenuto alla radice teoretica del fatalismo in salsa razionalista neo-parmenidea. Pertanto, se nell’antichità classica la negazione della libertà umana è legata alla diffusione della religione omerica, in sinergia con lo sviluppo della filosofia pre-socratica naturalista, più avanti al pensiero di Platone e a quello di Aristotele, fino al fatalismo degli stoici, degli epicurei e dei neoplatonici nel periodo tardo-ellenico, nel pensiero moderno un nuovo, radicale determinismo (si pensi, oltre al razionalismo di Cartesio, all’empirismo di Locke e Hume, al razionalismo di Kant, agli enciclopedisti francesi, alla filosofia di Spinoza, al materialismo di Hobbes, ai positivisti del secolo scorso, allo storicismo di Hegel e dei suoi eredi, sia da parte destra che da sinistra), si oppone al riconoscimento di una capacità essenziale che compete alla natura umana, cioè la capacità di autotrascendimento, capacità che noi intendiamo, appunto, come “libertà”; proprio in virtù di questa facoltà l’uomo è in grado di dominare i condizionamenti naturali e storici cui egli è comunque strutturalmente segnato.

Curiosamente, gli stessi minatori del realismo tomista hanno contribuito all’universalizzazione della nozione di libertà umana, attraverso continui
richiami. Non aveva torto Hegel quando ribadiva la nozione di libertà individuale facendone risalire l’introduzione alla filosofia cristiana. Un eccesso opposto è da rintracciarsi nell’ambito dell’esistenzialismo, nell’umanesimo ateo di Sartre, Adorno, Marcuse, i quali rivendicano l’evidenza della libertà individuale per assoluto, negando l’esistenza di un Assoluto trascendente, «visto erroneamente come un limite e non come il Fondamento della libertà individuale dell’uomo».

Tale errore «dipende dalla confusione tra i due Assoluti, quello immanente dei filosofi razionalisti pre-hegeliani e quello trascendente della religiosità biblica (ebrea, cristiana e mussulmana). Questi filosofi pre-hegeliani, non essendosi accorti di tale confusione, hanno continuato (con la sola eccezione di Spinoza) a pensare di poter essere religiosi e cristiani, sebbene l’Assoluto di cui le loro filosofie parlano non abbia nulla a che fare con la Trascendenza del dio biblico».

Come superare l’impasse? Lasciamoci guidare da Tommaso: «se la determinazione causale di un’azione dipendesse ultimamente dalla legge logica universale a essa soggiacente, sia essa di tipo naturale o storico come affermano le varie filosofie razionaliste, è chiaro che non ci sarebbe spazio per l’atto libero. Se l’effetto infatti derivasse dalla causa nell’ordine reale come una conseguenza deriva unicamente dalla sua premessa nell’ordine logico, è chiaro che tutto è pre-determinato fin dall’inizio e quindi la libertà dell’uomo diviene un’illusione. […]

Viceversa, se la necessità della legge logica deriva a posteriori dalla necessità del processo causale come può emergere solo al termine del
processo causale stesso, processo di cui allora la legge medesima diverrebbe una pura e semplice formalizzazione o rappresentazione logica di tipo induttivo e dal valore relativo, valida cioè per un insieme limitato di enti in certe condizioni, ma mai assoluta, valida cioè per tutti gli enti e sotto qualsiasi condizione, ecco che il determinismo causale (= ogni effetto ha una causa a sé proporzionata) diviene perfettamente armonizzabile alla libertà del singolo essere umano. […]

Quindi, mentre tutti gli altri enti fisici, in quanto cause fisiche contingenti
di altri enti o eventi possono essere spinti o impediti solo dal concorso di altre cause ad agire o ad agire in un dato modo e dunque a produrre un dato effetto, l’uomo è l’unico ente che», pur sotto mille condizionamenti, «può determinare se stesso ad agire.

Non è dunque solo una causa contingente, ma una causa contingente libera». La struttura dell’atto libero si articola in tre momenti: la deliberazione, il giudizio, la scelta.


La deliberazione consiste nella risposta data a una particolare sollecitazione esterna; è una “liberazione per” e insieme una “liberazione da”. Una liberazione dall’istintività della reazione per produrre una risposta morale consapevole, in vista del giudizio che ne consegue e di un’azione da compiere responsabilmente, È il momento in cui il soggetto opera una valutazione, detta “affettiva”, che fa rientrare l’oggetto conosciuto entro una gerarchia di valori, in funzione di determinati scopi. L’oggetto può essere così un bene da perseguire, un male da evitare o un mezzo per raggiungere un altro bene. Come “animale metafisico”, ogni uomo dà spontaneamente una valutazione istintiva, che dovrebbe produrre una reazione altrettanto istintiva.

Eppure la peculiarità dell’istintività umana consiste nella sua diretta dipendenza dall’intelletto, in virtù della possibilità di essere immediatamente consapevole del proprio comportamento.


«L’effettivo esercizio dell’atto libero è intrinsecamente legato alla forza della volontà. […] È ovvio che a questo primo livello della deliberazione possono avere un ruolo essenziale anche i diversi condizionamenti individuali e culturali, conservati nella memoria dell’uomo e dipendenti, sia dalle passate azioni dell’individuo (un individuo abituato a cedere a determinati istinti, più facilmente è portato a cedere in seguito), sia da un’eccessiva sollecitazione di determinati istinti (libido e aggressività) esercitata dall’ambiente (cf. p.es. nella nostra situazione socio-culturale l’eccessiva sollecitazione di questi istinti ad opera dei mezzi di comunicazione sociale).

L’azione della volontà nella deliberazione e nella scelta finale dell’azione da compiere può essere dunque più o meno fortemente condizionata da tutte queste componenti, presenti nella componente psicofisica dell’essere umano.

Per questo, per rendere possibile un’autentica deliberazione, è fondamentale il concorso dell’operazione dell’intelletto, perché la deliberazione divenga una vera e propria “liberazione da” questi condizionamenti nella valutazione dell’oggetto e/o dell’azione da compiere rispetto a questo oggetto, affinché la scelta dell’oggetto o dell’azione da compiere rispetto a questo oggetto divenga atto davvero umano».
Le molteplici valutazioni particolari preparano il momento del giudizio, seconda operazione dell’atto cognitivo: segue l’apprensione dell’essenza per astrazione del reale e, come la valutazione, procede di pari passo con la riflessione seconda (autocoscienza) e con la forza di volontà (cui dipende il concorso dell’intelletto a produrre quella riflessione razionale che la filosofia scolastica definiva consilium). Un difetto della volontà, quale è il difetto di chi cede più o meno facilmente all’istinto, può ridurre al minimo l’esercizio della libertà, rendere l’uomo incline al vizio e schiavo delle proprie passioni. Intelletto e volontà sono ancora legati al termine del giudizio pratico, affinché il soggetto scelga effettivamente l’azione da compiere che ritiene un bene per sé.

Come è ovvio, egli può scegliere di volere e agire, oppure, al contrario, può non volere e non agire in vista di qualcosa che considera un male per sé.

La seconda riflessione medita le premesse e le conseguenze che lo svolgersi di un certo atto produce, sia alla luce dei fini razionali, particolari, sia alla luce dei principi universali della legge morale (naturale e acquisita). L’interpretazione tomista della legge naturale niente ha a che vedere con il moderno, razionalistico legalismo della morale.

I giusnaturalisti avevano posto a fondamento del diritto la legge morale naturale come fosse un insieme di postulati innati e autoevidenti, alla stregua dei primi principi della logica e della geometria.

Noi, invece, sappiamo che la legge naturale corrisponde all’ordinamento delle relazioni (causa formale-finale) tra gli enti che trova il suo fondamento nella Causa prima, la Provvidenza.


«La legge morale naturale si presenta alla coscienza, insomma, non come un insieme di precetti, ma come una naturale inclinazione dell’uomo a comportarsi secondo un fine che conserva l’ordine naturale delle cose. I cosiddetti “dieci comandamenti”, p. es., che si ritrovano in culture completamente estranee alla rivelazione biblica (si pensi al famoso “codice di Hammurabi” sono in qualche modo una codifica o formalizzazione precettistica di queste inclinazioni naturali dell’uomo. […]

Teologicamente, la legge naturale è perciò il modo in cui la Provvidenza chiama l’uomo a collaborare consapevolmente alla cura dell’ordinamento delle relazioni fra le cose e le persone, come anche ricordava, e la segnaliamo con beneficio d’inventario, Veritatis splendor che a proposito citava Tommaso [S. Th. I-II, 91, 2c]: “Rispetto alle altre creature, la creatura razionale è soggetta in modo più eccellente alla divina provvidenza in quanto che essa diviene partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie alla quale ha una naturale inclinazione all’atto ed al fine dovuti: tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale è chiamata legge naturale”.

È ovvio che questa “ragione” e “legge eterna” divine di cui l’uomo partecipa e di cui parla qui Tommaso non sono pensabili, come se Dio ragionasse come noi formalizzando in schemi logici deduttivi del tipo “postulato-teorema”, così la partecipazione alla legge eterna da parte dell’uomo significhi partecipare agli stessi postulati che usa Dio nei propri pensieri. Dio “pensa” creando le cose ed ordinando le loro relazioni reali di causa ed effetto, e non come noi, che ci facciamo prima degli schemi logici e poi li applichiamo.

Cercare la legge naturale nei presunti schemi logici di comportamento
innati nella mente è dunque, rispetto all’uomo, una pura e semplice falsità: l’uomo non ha schematismo innati, altrimenti sarebbe un computer o un robot!

Ma, nei confronti di Dio, si tratta addirittura di un atto di orgoglio antropomorfico, mistificatorio e offensivo della sua Trascendenza, perché supporrebbe che l’uomo con la sua ragione naturale penetra lo stesso modo di pensare di Dio, ciò che, per il cristiano, può essere ottenuto solo mediante la grazia soprannaturale della partecipazione al pensiero di Cristo (Cf. S. Paolo, 1 Cor 2, 16).

Non per nulla, proprio perché falsamente interpretato nella modernità, il concetto di legge naturale è stato in seguito rifiutato tanto dalla filosofia morale come da quella del diritto contemporanee, con i guasti e le nefandezze di cui siamo continuamente testimoni».


Ulteriore esempio di legalismo è dato dalla filosofia kantiana, per cui l’ordine morale tra mezzi e fini è mediato anzitutto dalla legge (formalismo del “dovere per il dovere”, e non il dovere in vista di qualcosa), il che consiste nell’uniformare la condotta umana ai precetti formalmente definiti. La capacità di autodeterminarsi, in questi termini, non dipendono dal concorso dell’intelletto o dal fine inteso, bensì dall’obbligatorietà della norma morale, che a sua volta fonderebbe la bontà del fine da perseguire.

La “morale del sospetto” di stampo marxiano-nietzschiano-freudiana nasce proprio dal condizionamento storico della reazione al legalismo kantiano, vissuto come rifiuto dell’ordine formalistico tra mezzi e fini (in quanto “frustrazione del desiderio”) e non come rinnovamento dell’ordine suddetto in virtù di una teoria dell’intenzionalità, per cui ad una collezione di atti umani si dà uno scopo da raggiungere, per come esso viene presentato alla volontà da parte dell’intelletto.

In questa prospettiva, la causa finale (l’intelletto) e la causa efficiente (la volontà) si distinguono. Ovvero, solo nell’ambito dell’intenzionalità, differentemente dall’ordine fisico, è il fine a determinare l’atto.


Terzo e ultimo momento dell’atto libero è la scelta. Nella definizione del Basti, la scelta è «l’atto con cui l’uomo, desiderando mediante la volontà di conseguire effettivamente quello scopo che è stato valutato come buono dall’intelletto, e di conseguirlo mediante l’azione che il giudizio pratico dell’intelletto stesso ha definito come adeguata al raggiungimento dello scopo, sceglie di effettuare quell’azione attraverso il controllo che la volontà è in grado di avere sulle operazioni delle facoltà senso-motorie di quell’uomo».

La scelta consiste, insomma, nella forza morale di compiere una certa azione. Stabilito quale sia il bene da perseguire, occorre la facoltà di adottare effettivamente quel comportamento ritenuto “buono”.

Dice infatti il famoso proverbio: “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare!”.
In conclusione, apriamo una parentesi sul determinismo della fisica newtoniana e delle scienze cognitive. Il paradigma della fisica di Newton aveva il limite di concepire i fenomeni mentali come prodotti da una causalità che non dipende dal controllo del soggetto, mentre le neuroscienze si soffermavano principalmente sui processi automatici e inconsci della mente.
Così le possibilità della libertà di scelta e della contingenza dei fenomeni fisici e neurobiologici risultavano ignorate ed escluse. La soluzione a queste aporie non è da ricercarsi nell’alternativa processi deterministi/processi indeterministi, bensì nella complessità dell’essere umano e della sua organizzazione.

Grazie alle nuove scoperte sui sistemi dinamici che si sono susseguite in questi ultimi quarant’anni, comincia a chiarirsi il mistero di come i sistemi complessi e quelli caotici in particolare diano un fondamento oggettivo, reale, alla contingenza della realtà fisica e cognitiva, una contingenza compatibile col determinismo delle leggi perfettamente reversibili della meccanica classica, e insieme col principio di causalità.

Dunque, cosa intendono gli scienziati quando parlano di “caos deterministico”? L’espressione vuol connotare, appunto, un processo fisico deterministico, in cui il passo successivo dipende causalmente dallo stato precedente del sistema, ma la natura irriducibilmente non-lineare dell’equazione è all’origine dell’intrinseca impredicibilità delsistem a sul comportamento di lungo periodo. Insomma, conosciute le condizioni iniziali con una precisione incrementabile a piacere ma comunque finita, non si potrà mai prevedere con certezza lo stato finale del processo (cfr. Basti, 2002).

«Un notevole vantaggio che il caos può conferire al cervello è che i sistemi caotici producono continuamente nuovi tipi di attività. A nostro parere queste attività sono decisive per lo sviluppo di raggruppamenti di neuroni
diversi da quelli già stabiliti. Più in generale la capacità di creare nuovi tipi di attività puòessere alla base della capacità del cervello di formulare intuizioni e di risolvere i problemi per tentativi ed errori» (W. J. Freeman).