di Guido Ferro Canale

Una recente discussione in altra sede mi ha fatto scoprire l’esistenza del blogTraditio Marciana”, alle cui prese di posizione talvolta singolari mi sono ripromesso di dedicare uno studio sistematico, in corso di elaborazione; dato però l’interesse vivo e generale per il tema in titolo, ho scelto di anticipare la pubblicazione dell’articolo relativo, nella speranza che possa giovare a molti.
Ringrazio di cuore p. Gabriele Scardocci O.P. e i Dott. Claudio Menghini e Riccardo Zenobi per la revisione previa soprattutto sugli aspetti filosofici; di qualunque errore possa essere rimasto, ovviamente, la responsabilità è solo mia.

Comprensibilmente, “Traditio Marciana” ha dedicato un post al problema dell’impatto della pandemia da coronavirus sulla Liturgia e, in particolare, sulla Comunione sacramentale. Il testo si fa apprezzare – ed è giusto segnalarlo – per l’equilibrio con cui valuta le misure precauzionali imposte dalle autorità temporali e anche quelle prese dalle ecclesiastiche… ma purtroppo finisce per escludere a priori, come tanti altri meno equilibrati, che le Specie consacrate possano mai essere veicolo di malattie. Leggiamo infatti:

Nella mens tradizionale, la materia del pane e del vino, venendo consacrata, si trasforma completamente in qualcosa di divino, cioè nel Corpo e nel Sangue di Cristo. E il Corpo di Cristo, che non conobbe la corruzione del peccato, non può subire la legge della corruzione come ogni altra materia del mondo o, quanto meno, ne dev’essere particolarmente preservata. Se Cristo è realmente risorto dai morti, vincendo dunque la corruzione della sua materia corporea, perché il pane e vino eucaristici dovrebbero corrompersi come se non fossero stati consacrati? I miracoli eucaristici sono solo una delle molteplici testimonianze di questo: se i corpi dei santi, trasfigurati dalla grazia, sono sovente incorrotti, a maggior ragione lo dev’essere la Santa Eucaristia.
Pensare che il pane eucaristico possa essere vincolo di malattie significa negare la natura incorruttibile del Corpo di Cristo, oppure negare che esso sia realmente il Corpo di Cristo. Così come pensare che i celiaci debbano ricevere del pane a bassissimo contenuto di glutine: non si stanno comunicando a del pane, ma al Corpo di Cristo!”.

Che affermazioni del genere vengano postate su un blog liturgico che, nel 2017, ospitava post su Aristotele lascia notevolmente perplessi. Infatti, delle tre l’una: o si è dimenticato Aristotele, o non si ragiona più in termini di transustanziazione, o non si è fatto caso a quel che prescrive il Messale Romano.

Il termine italiano “sostanza” può rendere due termini aristotelici molto diversi: hypokéimenon, di cui il latino substantia è il calco e che corrisponde effettivamente alla materia; oppure ousia, l’essenza… che non è materiale, ma semmai si identifica con la forma (cfr. Met. V 8, 1017b).

Insegnando la dottrina della transustanziazione, la Chiesa riferisce il cambiamento all’essenza, non alla materia.[1] Essa non ha il minimo dubbio, anzi è la prima ad affermare, che ad un’analisi chimica o fisica dell’Ostia consacrata si rileverebbe pane con tutte le proprietà fisiche e chimiche del pane, quale d’altronde Essa si presenta al gusto; e chi ha scritto Visus, tactus, gustus in te fallitur non intendeva certo che Dio riduca il pane o il vino a una mera illusione, che lascerebbe sussistere perché non ci sconvolga ingoiare un corpo vivo e visibile, ma solo che i sensi non sono in grado di percepire la Sostanza soprasensibile.

Intendiamoci, l’esigenza di non sconvolgerci con una manducazione visibile tale qual è realmente sussiste senz’altro, ma Dio non è mai autore di inganni, neppure pietosi.

Invero, i nostri sensi, che percepiscono la materia ma non la forma o essenza,[2] non si ingannano affatto: del pane e del vino restano tutti gli accidenti, che sono un modo di essere al pari della sostanza; ciò che fa dell’Eucarestia un miracolo permanente è il prodigio, possibile a Dio solo, per cui questi accidenti non sono sorretti dalla sostanza loro propria, che è stata sostituita da un’altra, quella di Cristo vivo e vero, presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità.

Realtà e Potenza di questa trasformazione possono, a volte, essere confermate dai miracoli eucaristici, sia che l’Ostia assuma visibilmente la forma della carne che è secondo l’essenza, sia che si preservi incorrotta, a testimonianza della latens Deitas che contiene. Però i casi di incorruzione sono giudicati prodigiosi proprio perché non appartengono all’ordinarietà dell’Eucarestia: il pane, anche una volta consacrato, fa la muffa o diventa stantio; il vino inacidisce sebbene sia diventato Sangue vivo di Cristo vivo; e queste trasformazioni si spiegano proprio con il fatto che le Specie non sono – come il loro nome potrebbe far pensare – mera apparenza in senso assoluto, ma relativo, per quel loro essere accidenti senza la sostanza propria.[3] Si corrompono appunto in quanto accidenti, appunto perché l’accidente è un modo di essere. Le illusioni, casomai, svaniscono e basta!

Fatto ancor più importante, la Presenza Reale è legata alla concomitanza tra quella sostanza e quegli accidenti al punto che, venendo meno gli accidenti del pane o del vino, vene meno anche la sostanza divina: se il pane è totalmente muffito, o il vino del tutto inacidito, ormai lì non vi è più traccia della Presenza vera, reale e sostanziale, ma soltanto muffa e aceto, sia negli accidenti sia nella sostanza.

Il Magistero, per lo più, ha dovuto combattere con le varie eresie che riducevano e riducono l’Eucarestia a mero simbolo, quindi non si è preoccupato molto della realtà degli accidenti;[4] il Catechismo Romano, però, insegna chiaramente che essi sussistono senza la loro sostanza… e parla appunto di accidenti, non di specie (Pars II, Cap. IV, qu. 45), mentre il fatto che la Presenza Reale dura fintantoché durino gli accidenti stessi è stato affermato a più riprese (cfr., da ultimo, CCC 1377).

Ad ogni modo, la dottrina fin qui esposta si trova, in bell’ordine, nella Summa Theologiae, illustrata con tutta la precisione che contraddistingue il Dottore Angelico: cfr. III, qu. 75, a. 2 per la scomparsa delle sostanza del pane e del vino; a. 3 contro la tesi che le vorrebbe annichilite anziché trasformate, o compresenti e destinate a risolversi un po’ alla volta nella materia preesistente;  a. 4 per la loro integrale conversione; a. 5 per la permanenza degli accidenti e le ragioni di convenienza che la giustificano. La qu. 76 a. 6 parla della cessazione della Presenza al corrompersi delle Specie, l’a. 8 dei miracoli eucaristici, mentre la qu. 77, all’a. 2, insegna che i sensi non s’ingannano, all’a. 4 la corruttibilità della Specie, all’a. 5 che, con la loro corruzione, si genera qualche altra cosa, che non è più il Corpo o il Sangue.

In effetti, mi vien detto che pure gli Orientali separati, sebbene abbiano una diversa teologia eucaristica, di ispirazione (neo)platonica e dunque assai più propensa a vedere nelle Specie un semplice velame illusorio, quando di fatto ammuffiscono le trattano “all’occidentale”, smaltendole nel (l’equivalente del) sacrario, il che implica che non siano più il Corpo di Cristo. Non ho avuto modo di verificare l’informazione, che, se esatta, potrebbe addirittura equivalere ad un’attestazione di appartenenza della regola alla Tradizione Apostolica: dopotutto, i problemi di conservazione delle Specie si debbono esser posti già alla primissima generazione cristiana.

Ma, comunque stiano le cose nei riti orientali, è nota e certa la legislazione liturgica del rito romano. Che non solo afferma e traduce in pratica il venir meno della Presenza Reale, ma prevede anche regole specifiche per il rischio che il Corpo e il Sangue di Cristo rechino danno. Il che, evidentemente, smentisce la tesi di una radicale impossibilità che ciò avvenga.

Leggiamo, infatti, nel De defectibus in celebratione Missarum occurrentibus, X, 5-7:[5]

Qualora, prima della Consacrazione, cada dentro il Calice una mosca, o un ragno, o qualcos’altro, [il celebrante] getti il vino in un luogo decente e nel Calice ne ponga altro, aggiunga un po’ di acqua, offra come sopra, e prosegua la Messa; qualora la mosca o qualcosa di simile sia caduta dopo la Consacrazione e ciò provochi disgusto al Sacerdote, la estragga e la lavi con vino, finita la Messa la bruci e getti nel sacrario il residuo di siffatta combustione e di siffatto lavaggio. Laddove invece non provi disgusto e non tema alcun pericolo, la assuma insieme con il Sangue.

Qualora nel Calice cada qualcosa di velenoso, o che provochi il vomito, il vino consacrato deve essere travasato in un altro Calice e [in quello di prima] bisogna versare altro vino con acqua, per ripetere la Consacrazione; una volta finita la Messa, il Sangue messo da parte sia tenuto in un panno di lino o nella stoppa fintantoché le Specie del vino non si saranno completamente asciugate, e allora la stoppa si bruci e le ceneri si gettino nel sacrario.

Se qualcosa di avvelenato tocchi l’Ostia consacrata, allora ne consacri un’altra e La assuma nel modo che si è detto; e quella si conservi nel Tabernacolo in un luogo separato, finché si corrompano le Specie, e una volta che siano corrotte si gettino nel sacrario.

Come si vede, il De defectibus non esorta affatto il Sacerdote timoroso a comunicarsi “a prescindere”, quasi che ogni potenziale nocività della mosca o del ragno sia stata a priori neutralizzata dal contatto con il Corpo o con il Sangue, ma lo lascia libero di decidere sul da farsi; addirittura, nel caso del veleno lo obbliga a ripetere la Consacrazione già avvenuta (!) con vino non avvelenato, in sostanza vietandogli di bere quello che già è il Sangue di Cristo, e allo stesso modo si comporta con l’Ostia. Le regole per il trattamento delle Specie consacrate, ma potenzialmente nocive appunto in quanto Specie, esprimono con chiarezza anche il venir meno della Presenza al totale corrompersi degli accidenti.

Se si considera il microorganismo patogeno alla stregua dell’insetto “intruso”, ciascuno è libero di comportarsi come se continuasse a poter nuocere; se invece lo si assimila al veleno, il che mi sembrerebbe più corretto, si è addirittura tenuti a considerar nocivi il Corpo e il Sangue di Cristo. Di sicuro, quindi, predicarne una sorta di virtù sterile e/o sterilizzante è del tutto alieno alle leggi liturgiche plurisecolari del rito romano.

Ma qualcuno forse obietterà: Dio non proteggerà i Suoi fedeli?

Senza dubbio Dio è buono e si può pensare che intervenga in tal senso in molti casi; ma, per quanto detto finora, si tratta di un intervento straordinario, nient’affatto insito nella Presenza Reale in sé e per sé, quindi vale sempre la sacra regola per cui il Signore non si tenta e non ci si getta dal pinnacolo del Tempio contando sul soccorso degli Angeli. L’Onnipotente soccorrerà senz’altro, e in misura crescente a mano a mano che cresceranno la devozione, l’umiltà o anche solo l’ignoranza incolpevole sul tema… ma sarà più difficile che presti soccorso all’ignoranza colpevole, specialmente dei Sacerdoti, e meno ancora alla presunzione secondo cui Egli sarebbe “obbligato” a intervenire in automatico.

La teologia di S. Tommaso d’Aquino, che sviluppa il termine “transustanziazione” in tutte le sue rigorose conseguenze, è la sola che riesca, da un lato, a mostrare che il dogma della Presenza Reale non contraddice né i sensi né la ragione, preservando però, dall’altro, il suo carattere di miracolo, senza quindi sottometterlo alle pretese di un razionalismo che lo distruggerebbe. Scadere nel fideismo o nell’irrazionalismo, anche se motivati da una pietà soggettivamente profonda, non è la strada giusta per difendere la Realtà della Presenza contro le eresie dilaganti, meno ancora per assicurarLe la debita riverenza: contiene in sé, ben nascosto, un germe assassino, l’idea che Dio inganni o che possa, in quanto autore della Fede, contraddire Sé stesso come artefice dei sensi e della ragione. O anche soltanto comandare all’uomo di rischiare la vita in circostanze diverse da quelle che richiedono una pubblica professione di fede pur dinanzi alla persecuzione cruenta. Nulla di tutto ciò appartiene a quel Dio Sacramentato che è e resta il Logos. Ora e per sempre.


[1]    Il Dott. Menghini, in un ottimo post dedicato all’argomento, giustamente osserva che il senso filosofico di “materia” è diverso da quello oggi corrente e dall’uso scientifico; ai nostri fini, però, basta dire che tutto ciò che è empiricamente osservabile resta esattamente com’era. In effetti, S. Tommaso (Contra Gentiles IV, c. 63, n. 8) osserva che la frase “Questo è il Mio Corpo” – che subito compie ciò che significa, ma significa in pari tempo tutto ciò che compie – postula tanto la verità dell’“è”, quanto l’assenza di mutamento nel “Questo”.
[2]          L’essenza, infatti, è colta dall’intelletto; di solito, esso può procedere per via di astrazione dall’oggetto sensibile o concludere, fenomenologicamente, che ciò che sembra pane è pane; nel caso dell’Eucarestia, questo però condurrebbe appunto all’errore segnalato dall’Adoro Te devote.
[3]          In effetti, se species in latino può indicare sia l’aspetto sia la mera parvenza (donde l’uso italiano dell’aggettivo “specioso”), species impressa è la modificazione che un qualunque oggetto percepito produce sulla facoltà conoscitiva, species sensibilis o intentionalis l’analogo impatto sui cinque sensi; in genere l’intelletto umano può risalire dalla percezione all’oggetto così com’è, ma nel caso dell’Eucarestia le sue possibilità di conoscenza naturale non vanno oltre le Specie.
[4]             Numerosi teologi, tuttavia, come de Lugo e Suárez, hanno affermato che si tratta di una verità de Fide insita nell’uso dogmatico del termine “transustanziazione” (che altrimenti sarebbe meno adatto di transentitatio); per Piolanti, De Sacramentis, è Fidei proxima; ma qui mi contento di seguire il Compendio dell’Ott, che la definisce sententia certa.
[5]          Si tratta di una sezione del Messale tridentino che non è stata ripresa in quello riformato. Si può discutere, quindi, se conservi valore giuridico anche per il Novus Ordo (probabilmente no), ma di sicuro, data l’assenza di norme legislative diverse o contrarie, continua a far testo almeno come criterio orientativo sul piano morale.