di Giuliano Zoroddu
Emanuele Marongiu Nurra nacque a Bessude (Sassari) il 28 marzo 1794 da una famiglia di antica nobiltà. La sua istruzione fu curata dal gesuita Francesco Carboni, che “ebbe fama fra i migliori latinisti del suo tempo”. Conseguiti i gradi in Teologia e poi in utroque iure all’Università di Sassari, nel 1819 fu ordinato Sacerdote.
Nei primi anni Venti operò a Torino come bibliotecario dell’Accademia di Superga a Torino per volontà del re Carlo Felice. In questo periodo fu intimo di san Giuseppe Cafasso.
Nel 1825, tornato in patria, venne annoverato fra i Canonici del Capitolo Turritano. Rettore del Seminario Tridentino, dal 1830 al 1842 fu Vicario generale dell’Arcidiocesi di Sassari e Vicario capitolare. Durante il periodo sassarese diede prova del suo genio, interessandosi per la promozione delle cultura patria: si pensi alle Considerazioni filologiche intorno ai nuraghe poi date alle stampe nel 1861.
Nel 1842 Gregorio XVI, a seguito della presentazione di Carlo Alberto, Gregorio XVI lo elesse alla chiesa primaziale di Cagliari. Era il primo canonico turritano che ascendeva a quella Cattedra, evento ancor più pregno di significato se si pensa alla rivalità che contrapponeva le due principali città dell’antico Regno di Sardegna. Fu consacrato nella Primaziale Turritana dall’Arcivescovo Varesini il 28 agosto 1842.
L’inizio di un apostolato glorioso. Nelle lettere pastorali represse con zelo le idee gianseniste, protestanti e liberali che circolavano nel Regno, con pari ardore difese la superiorità del Sacerdozio sul Regno. Questi forti principi lo posero ad un certo punto in netta opposizione col liberalismo imperante. Nel 1848 si oppose fortemente alla cacciata della Compagnia di Gesù. Quei Padri, tanto benemerito verso la Sardegna, sperimentarono materialmente l’odio dei settari: a Sassari alcuni furono malmenati all’Università, donde poi furono espulsi (loro che ne erano stati i costruttori), fino all’assalto della Casa Professa; a Cagliari successero le stesse cose, più qualche bomba …
Un altro terreno di scontro fu la abolizione, da parte del governo di Torino, dei privilegi ecclesiastici: le decime, il privilegium foris, il Tribunale delle Appellazioni e dei Gravami e l’asse ecclesiastico.
La comminazione della scomunica maggiore a chiunque ardisse porre in essere i provvedimenti eversivi appropriandosi dei beni della Chiesa, e il divieto ai confessori di assolverli senza permesso se non in articulo mortis, non piacque ai liberali e al governo che gli impose il ritiro del monitorio. Il Morongiu Nurra emise il suo non possumus: “Sebbene Dio non mi abbia per i miei demeriti fatto degno di una reclusione – scriveva all’Arcivescovo di Torino mons. Fransonsi – tuttavia io non ho mai arrossito di confessarlo pubblicamente e difendere la libertà della Chiesa colle parole e cogli scritti, sempre disposto a morire anche sul patibolo per amore di Dio e della sua Chiesa”. Così il 21 settembre 1850 veniva bandito dai Regi Stati: il 23 successivo salpava alla volta di Civitavecchia.
Anche a Sassari i liberali avevano dato prova della loro idea di libertà: nel maggio dello stesso anno l’Arcivescovo Varesini, per aver protestato contro la soppressione del privilegium fori e proibito al suo clero di sottoporsi al tribunale secolare, patì un mese di arresti.
L’esilio romano del Marongiu Nurra non fu tuttavia infruttuoso: da un lato continuò, come poté, a governare l’Archidiocesi; dall’altro proseguì la sua opera di letterato, traducendo, fra le altre cose, primo in Italia, la Regula pastoralis di san Gregorio Magno. Un lavoro filologico che non si fermava allo studio e alla diffusione del Bello, ma si proponeva anche di veicolare il Vero attraverso la confutazione delle idee della rivoluzione.
Pio IX, grande estimatore del Prelato sardo, tentò varie volte di onorarlo con importanti cariche – Vicario Generale della Basilica di San Pietro, Patriarca di Costantinopoli, Arciprete di Santa Maria Maggiore -, ma ne ottenne sempre un fermo rifiuto. “Tetragono come un cavaliere crociato”, egli voleva restare quello che era: Arcivescovo metropolita di Cagliari.
E alla sua Cagliari fece alla fine ritorno il 1° marzo del 1866, per rimanervi però solo pochi mesi: il 12 settembre spirava la bell’anima.
Lo stesso zelo per la casa del Signore visse ancora per molti anni nel nipote, il canonico turritano don Diego Morongio Delrio, vicario capitorlare dopo la morte del Varesini (22 settembre 1864) e poi Arcivescovo di Sassari, che si spese in maniera insigne per la difesa della fede e della libertà ecclesiastica.
Riferimenti bibliografici : Damiano Filia, La Sardegna Cristiana, Sassari, 1995, vol. III (I ed. Sassari, 1929); Raimondo Turtas, La Storia della Chiesa in Sardegna, Roma, 1999.
Figure già trattate sul sito (sono escluse le innumerevoli figure trattate sulla pagina Facebook)
Monsignor Beniamino Socche
Don Juan de Ribera
Giuseppe II di Costantinopoli
Monsignor Florentino Asensio Barroso
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Monsignor Giuseppe Melas
Monsignor Alessandro Domenico Varesini
San Giosafat Vescovo e Martire
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