Il seguente testo è tratto dalla lettera che papa Leone XIII scrisse al suo Segretario di Stato, Cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, 15 giugno 1887.
[fonte vatican.va]


Ma vi ha un altro punto, che richiama a sé di continuo la Nostra attenzione, ed è per Noi e per la Nostra Apostolica autorità del più alto interesse; intendiamo dire dell’attuale Nostra condizione in Roma a cagione della funesta discordia tra l’Italia, qual è ora officialmente costituita, ed il romano Pontificato. Vogliamo in argomento sì grave aprirle pienamente il Nostro pensiero.
Più volte abbiamo espresso il desiderio di vedere finalmente composto il dissidio; ed anche recentemente, nell’Allocuzione Concistoriale del 23 Maggio decorso abbiamo attestato l’animo Nostro propenso ad estendere l’opera di pacificazione, come alle altre nazioni, così in modo speciale all’Italia per tanti titoli a Noi cara e strettamente congiunta. Qui però per giungere a stabilire la concordia non basta, come altrove, provvedere a qualche interesse religioso in particolare, modificare o abrogare leggi ostili, scongiurare disposizioni contrarie che si minaccino; ma si richiede inoltre e principalmente, che sia regolata come conviene la condizione del Capo supremo della Chiesa, da molti anni per violenze ed ingiurie addivenuta indegna di lui, ed incompatibile colla libertà dell’Apostolico officio. Per questo nella citata Allocuzione avemmo cura di mettere a base di questa pacificazione la giustizia e la dignità della Sede Apostolica, e di reclamare per Noi uno stato di cose, nel quale il romano Pontefice non debba essere soggetto a nessuno, ed abbia a godere di una piena e non illusoria libertà. Non v’era luogo a fraintendere le Nostre parole e molto meno a snaturarle, torcendole ad un significato del tutto contrario al Nostro pensiero. Da quelle usciva evidente il senso inteso da Noi, essere cioè condizione indispensabile alla pacificazione in Italia rendere al romano Pontefice una vera sovranità. Giacché nello stato presente di cose è chiaro che Noi siamo più che in potere Nostro in potere di altri, dal cui volere dipende di variare, quando e come piaccia, secondo il mutar degli uomini e delle circostanze, le condizioni stesse della Nostra esistenza. Verius in aliena potestate sumus, quam Nostra, come più volte abbiamo ripetuto. E perciò sempre, nel corso del Nostro Pontificato, secondo che era debito Nostro, abbiamo rivendicato pel romano Pontefice un’effettiva sovranità, non per ambizione, né a scopo di terrena grandezza, ma come vera ed efficace tutela della sua indipendenza e libertà.
Infatti l’autorità del sommo Pontificato istituita da Gesù Cristo e conferita a S. Pietro, e per esso ai suoi legittimi Successori, i romani Pontefici, destinata a continuare nel mondo, fino alla consumazione dei secoli, la missione riparatrice del Figlio di Dio, arricchita delle più nobili prerogative, dotata di poteri sublimi, propri e giuridici, quali si richiedono pel governo di una vera e perfettissima società, non può per la sua stessa natura e per espressa volontà del suo divin Fondatore sottostare a veruna potestà terrena, deve anzi godere della più piena libertà nell’esercizio delle sue eccelse funzioni. E poiché da questo supremo potere e dal libero esercizio di esso dipende il bene di tutta quanta la Chiesa, era della più alta importanza, che la nativa sua indipendenza e libertà fosse assicurata garantita difesa attraverso i secoli, nella persona di chi ne era investito, con quei mezzi, che la divina Provvidenza avesse riconosciuti acconci ed efficaci allo scopo. E così, uscita la Chiesa vittoriosa dalle lunghe ed acerbe persecuzioni dei primi secoli, quasi a manifesto suggello della sua divinità; passata l’età, che può dirsi d’infanzia, e giunto per essa il tempo di mostrarsi nel pieno sviluppo della sua vita, cominciò pei Pontefici di Roma una condizione speciale di cose, che a poco a poco, pel concorso di provvidenziali circostanze, finì collo stabilimento del loro Principato civile. Il quale con diversa forma ed estensione, si è conservato pur tra le infinite vicende di un lungo corso di secoli fino a’ dì nostri, recando all’Italia e a tutta l’Europa, anche nell’ordine politico e civile, i più segnalati vantaggi. Sono glorie dei Papi e del loro Principato i barbari respinti od inciviliti; il despotismo combattuto e frenato; le lettere, le arti, le scienze promosse; le libertà dei Comuni; le imprese contro i Musulmani, quando erano essi i più temuti nemici non solo della religione, ma della civiltà cristiana e della tranquillità dell’Europa. Una istituzione sorta per vie sì legittime e spontanee, che ha per sé un possesso pacifico ed incontestato di dodici secoli, che contribuì potentemente alla propagazione della fede e della civiltà, che si è acquistata tanti titoli alla riconoscenza dei popoli, ha più di ogni altra il diritto di essere rispettata e mantenuta: né perché una serie di violenze e d’ingiustizie è giunta ad opprimerla, possono dirsi cambiati, riguardo ad essa, i disegni della Provvidenza. Anzi, se si considera che la guerra mossa al Principato civile dei Papi fu opera sempre dei nemici della Chiesa e in quest’ultimo tempo opera principale delle sette, che, coll’abbattere il dominio temporale, intesero spianarsi la via ad assalire e combattere lo stesso spirituale potere dei Pontefici, questo stesso conferma chiaramente essere anche oggi, nei disegni della Provvidenza, la sovranità civile dei Papi ordinata, come mezzo al regolare esercizio del loro potere apostolico, come quella che ne tutela efficacemente la libertà e l’indipendenza.
Quanto si dice in generale del civil Principato dei Pontefici, vale a più forte ragione ed in modo speciale di Roma. I suoi destini si leggono chiaramente in tutta la sua storia; che, come nei consigli della Provvidenza tutti gli umani avvenimenti furono ordinati a Cristo e alla Chiesa, così la Roma antica e il suo impero furono stabiliti per la Roma cristiana; e non senza speciale disposizione a quella metropoli del mondo pagano, rivolse i passi il Principe degli Apostoli S. Pietro per divenirne il Pastore e trasmetterle in perpetuo l’autorità del supremo Apostolato. Per tal guisa le sorti di Roma furono legate, di una maniera sacra ed indissolubile, a quelle del Vicario di Gesù Cristo: e quando, allo spuntare di tempi migliori, Costantino il grande volse l’animo a trasferire in Oriente la sede del romano impero, con fondamento di verità può ritenersi che la mano della Provvidenza lo guidasse, perché meglio si compissero sulla Roma dei Papi i nuovi destini. Certo è che, dopo quell’epoca, col favore dei tempi e delle circostanze, spontaneamente, senza offesa e senza opposizione di alcuno, per le vie più legittime i Pontefici ne divennero anche civilmente signori, e come tali la tennero fino ai dì nostri. Non occorre qui ricordare gl’immensi benefici e le glorie procacciate dai Pontefici a questa loro prediletta città, glorie e benefici, che sono scritti del resto a cifre indelebili nei monumenti e nella storia di tutti i secoli. È pur superfluo notare che questa Roma porta in ogni sua parte profondamente scolpita l’impronta Papale; e che essa appartiene ai Pontefici per tali e tanti titoli, quali nessun Principe ha mai avuto su qualsivoglia città del suo regno. Importa però grandemente osservare che la ragione della indipendenza e della libertà Pontificia nell’esercizio dell’apostolico ministero, piglia una forza maggiore e tutta propria quando si applica a Roma, sede naturale dei Sommi Pontefici, centro della vita della Chiesa, capitale del mondo cattolico. Qui, dove il Pontefice ordinariamente dimora, dirige, ammaestra, comanda, affinché i fedeli di tutto il mondo possano con piena fiducia e sicurtà prestargli l’ossequio, la fede, l’obbedienza che in coscienza gli debbono, qui, a preferenza, è necessario che Egli sia posto in tale condizione d’indipendenza, nella quale non solo non sia menomamente impedita da chicchessia la sua libertà, ma sia pure evidente a tutti che non lo è; e ciò non per una condizione transitoria e mutabile ad ogni evento, ma di natura sua stabile e duratura. Qui, più che altrove, deve essere possibile e senza timore d’impedimenti, il pieno esplicamento della vita cattolica, la solennità del culto, il rispetto e la pubblica osservanza delle leggi della Chiesa, l’esistenza tranquilla e legale di tutte le istituzioni cattoliche.
Da tutto ciò è agevole comprendere, come s’imponga ai romani Pontefici, e quanto sia sacro per essi il dovere di difendere e mantenere la civile sovranità e le sue ragioni; dovere reso anche più sacro dalla religione del giuramento. Sarebbe follia pretendere che essi stessi consentissero a sacrificare, colla sovranità civile, ciò che hanno di più caro e prezioso; vogliam dire la propria libertà nel governo della Chiesa, per la quale i loro Predecessori hanno in ogni occasione sì gloriosamente combattuto.
Noi certo col divino aiuto non falliremo al Nostro dovere, e fuori del ritorno ad una vera ed effettiva sovranità, qual si richiede dalla Nostra indipendenza e dalla dignità del Seggio Apostolico, non veggiamo altro adito aperto agli accordi e alla pace. La stessa cattolicità tutta quanta, sommamente gelosa della libertà del suo Capo, non si acquieterà giammai finché non vegga farsi ragione ai giusti reclami di Lui.
Sappiamo che uomini politici, dall’evidenza delle cose costretti a riconoscere che la condizione presente non è quale si converrebbe al romano Pontificato, vanno escogitando altri progetti ed espedienti per migliorarla. Ma sono questi vani ed inutili tentativi; e tali saranno tutti quelli di simil natura, che sotto speciose apparenze lasciano di fatto il Pontefice in istato di vera e reale dipendenza. Il difetto sta nella natura stessa delle cose, quali sono ora costituite, e nessun estrinseco temperamento o riguardo che si usi può mai valere a rimuoverlo. È ovvio invece prevedere dei casi, in cui la condizione del Pontefice diventi anche peggiore, sia per la prevalenza di elementi sovversivi e di uomini che non dissimulano i loro propositi contro la persona e l’autorità del Vicario di Cristo; sia per avvenimenti guerreschi e per le molteplici complicazioni, che da questi potrebbero nascere a suo danno. Fino ad ora l’unico mezzo, di cui si è servita la Provvidenza per tutelare, come si conveniva, la libertà dei Papi, è stata la loro temporale sovranità; e quando questo mezzo mancò, i Pontefici furono sempre o perseguitati, o prigioni, o esuli, o certo in condizione di dipendenza ed in continuo pericolo di vedersi respinti sopra l’una o l’altra di queste vie. È la storia di tutta la Chiesa che lo attesta.
Si spera pure e si fa assegnamento sul tempo, quasi che, col prolungarsi, possa divenire accettabile la condizione presente. Ma la causa della loro libertà è pei Pontefici, e per la cattolicità tutta quanta, interesse primo e vitale; e quindi si può esser certi che essi la vorranno garantita sempre e nel modo più sicuro. Quei che la sentono diversamente, non conoscono o fingono di non conoscere di quale natura sia la Chiesa, quale e quanta la sua potenza religiosa morale e sociale, cui né le ingiurie del tempo, né la prepotenza degli uomini varranno mai a fiaccare. Se di ciò si rendessero conto ed avessero senno veramente politico, essi non penserebbero solo al presente, né si affiderebbero a fallaci speranze per l’avvenire; ma col dare essi stessi al Pontefice romano quello che Egli a buon diritto reclama, toglierebbero una condizione di cose piena d’incertezze e di pericoli, assicurando per tal guisa i grandi interessi e le sorti stesse dell’Italia.
Non è da sperare, che questa Nostra parola sia intesa da quegli uomini che sono cresciuti nell’odio contro la Chiesa ed il Pontificato: costoro, a dir vero, come odiano la religione, così non vogliono il vero bene della loro terra natale. Ma coloro che, non imbevuti da vieti pregiudizi, né animati da spirito irreligioso, giustamente apprezzano gl’insegnamenti della storia e le tradizioni italiane, e non disgiungono l’amore della Chiesa dall’amore della patria, debbono riconoscere con Noi che nella concordia col Papato sta appunto per l’Italia il principio più fecondo della sua prosperità e grandezza.
Di che è conferma il presente stato di cose. Ormai è fuori di dubbio, e gli stessi uomini politici italiani lo confessano, che la discordia con la Santa Sede non giova ma nuoce all’Italia, creandole non poche né lievi difficoltà interne ed esterne. All’interno, disgusto dei cattolici, al vedere tenute in niun conto e spregiate le ragioni del Vicario di Gesù Cristo; turbamento delle coscienze; aumento d’irreligione e d’immoralità, elementi grandemente nocivi al pubblico bene. All’estero, malcontento de’ cattolici, che sentono compromessi insieme colla libertà del Pontefice i più vitali interessi della cristianità; difficoltà e pericoli, che anche nell’ordine politico possono da ciò derivare all’Italia, dai quali desideriamo con tutto l’animo sia preservata la patria nostra. Si faccia cessare da chi può e deve il conflitto, ridonando al Papa il posto che Gli conviene, e tutte quelle difficoltà cesseranno d’un tratto. Anzi l’Italia se ne avvantaggerebbe grandemente in tutto ciò che forma la vera gloria e felicità di un popolo, o che merita il nome di civiltà; giacché com’ebbe dalla Provvidenza in sorte di essere la nazione più vicina al Papato, così è destinata a riceverne più copiosamente, se non lo combatte o vi si oppone, le benefiche influenze.
Si suole opporre, che per ristabilire la sovranità pontificia si dovrebbe rinunziare a grandi vantaggi già ottenuti, non tenere alcun conto dei progressi moderni, tornare indietro fino al medio evo. Ma non sono questi motivi che valgono.
A qual bene infatti che sia vero e reale, si opporrebbe la sovranità pontificia? È indubitato che le città e le regioni già soggette al principato civile dei Pontefici furono, per ciò stesso, preservate più volte dal cadere sotto dominio straniero, e conservarono sempre indole e costumi schiettamente italiani. Né potrebbe anche oggi essere diversamente; giacché il Pontificato se per l’alta sua missione, universale e perpetua, appartiene a tutte le genti, per ragione della Sede, qui assegnatagli dalla Provvidenza, è specialmente gloria italiana. Ché se verrebbe così a mancare l’unità di Stato, Noi, senza entrare in considerazioni che tocchino il merito intrinseco della cosa, e solo collocandoci per poco sul terreno stesso degli oppositori, domandiamo, se quella condizione di unità costituisca per le nazioni un bene così assoluto che senza di esso non vi sia per loro né prosperità né grandezza; o così superiore, che debba prevalere a qualunque altro. Risponde per noi il fatto di nazioni floridissime, potenti e gloriose, che pur non ebbero, né hanno quella specie di unità che qui si vuole: e risponde altresì la ragion naturale che, nel conflitto, riconosce dover prevalere il bene della giustizia, primo fondamento della felicità e stabilità degli Stati; e ciò specialmente quando esso sia collegato, come qui avviene, con l’interesse altissimo della religione e di tutta quanta la Chiesa. Dinanzi al quale non è punto da esitare; ché se da parte della Provvidenza divina fu tratto di speciale predilezione verso l’Italia averle posto nel seno la grande istituzione del Pontificato, di cui qualunque nazione si sentirebbe altamente onorata, è giusto e doveroso che gli italiani non guardino a difficoltà per tenerlo nella condizione che gli conviene. Tanto più che senza escludere in fatto altri utili ed opportuni temperamenti, senza parlare di altri beni preziosi, l’Italia dal vivere in pace col Pontificato vedrebbe potentemente cementata l’unità religiosa, fondamento di qualunque altra, e fonte d’immensi vantaggi anche sociali.
I nemici della Sovranità Pontificia fanno appello anche alla civiltà e al progresso. Ma a bene intendersi fin sulle prime, solamente ciò che mena al perfezionamento intellettuale e morale o almeno ad esso non si oppone, può costituire per l’uomo vero progresso: e di questo genere di civiltà non v’ha sorgente più feconda della Chiesa, la quale ha la missione di promuovere sempre l’uomo alla verità e al retto vivere. Ogni altro genere di progresso, posto fuori di questa cerchia, non è in verità che regresso, e non può che degradare l’uomo e respingerlo verso la barbarie: e di questo né la Chiesa, né i Pontefici, sia come Papi, sia come Principi civili, potrebbero, per buona sorte dell’umanità, farsi mai i fautori. Ma tutto ciò che le scienze, le arti e l’industria umana hanno trovato o possono trovar di nuovo per l’utilità e le comodità della vita; tutto ciò che favorisce l’onesto commercio e la prosperità delle pubbliche e private fortune; tutto ciò che è, non licenza, ma libertà vera e degna dell’uomo, tutto è benedetto dalla Chiesa e può avere larghissima parte nel principato civile dei Papi. E i Papi, quando ne fossero di nuovo in possesso, non lascerebbero di arricchirlo di tutti i perfezionamenti di cui è capace, facendo ragione alle esigenze dei tempi, e ai nuovi bisogni della società. La stessa paterna sollecitudine, da cui furono sempre animati verso i loro sudditi, li consiglierebbe anche al presente a rendere miti le pubbliche gravezze; a favorire colla più larga generosità le opere caritatevoli e gl’istituti di beneficenza; a prendere cura speciale delle classi bisognose ed operaie migliorandone le sorti; a fare, in una parola, del loro civil principato, anche adesso, una delle istituzioni meglio acconce a formare la prosperità dei sudditi.
Contro la quale sarebbe vano accampare l’accusa di essere parto del medio evo. Giacché avrebbe, come si è detto, i sani ed utili miglioramenti voluti dai tempi nuovi: e, se nella sua sostanza, sarebbe quello che fu nell’età di mezzo, cioè una sovranità ordinata a tutelare la libertà e l’indipendenza dei Romani Pontefici nell’esercizio della loro suprema autorità, che perciò? Il fine importantissimo, a cui essa serve, i vantaggi molteplici che ne ridondano per la tranquillità del mondo cattolico e la quiete degli Stati; la maniera mite con cui si esercita; l’impulso potente, che sempre ha dato ad ogni genere di sapere e di civile cultura, sono elementi, che convengono mirabilmente a tutti i tempi, siano essi gentili e tranquilli, o siano barbari e fortunosi. Sarebbe stoltezza voler sopprimerla per ciò solo che fiorì nei secoli di mezzo. I quali, per altro, se come tutte le epoche ebbero vizi e costumanze biasimevoli, ebbero pure pregi così singolari, che sarebbe vera ingiustizia disconoscerli. E più di ogni altro dovrebbe sapere apprezzarli l’Italia, che appunto nel corso di quei secoli nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, nelle imprese militari e navali, nel commercio, negli ordinamenti cittadini raggiunse tanta altezza e celebrità che non potrà esser mai distrutta né oscurata.
Vorremmo, Signor Cardinale, che queste idee, derivate da considerazioni sì alte e che tengono conto di tutti gl’interessi legittimi, penetrassero sempre più nelle menti di tutti; e che quanti sono veri cattolici non solo, ma anche quanti amano di verace amore l’Italia, entrassero apertamente in queste Nostre viste e le secondassero. Ad ogni modo, col promuovere la riconciliazione col Pontificato e coll’averne indicato le condizioni fondamentali, sentiamo di aver soddisfatto ad un Nostro dovere innanzi a Dio e agli uomini, qualunque siano gli avvenimenti che seguiranno.


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