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di Isacco Tacconi
Ci sono dei momenti, degli attimi, istanti nella vita di un uomo, di un ragazzo e financo di un bambino in cui ci è concesso uno spiraglio fugace ma così profondo sull’abisso. Un tocco leggero che ci sfiora bruciandoci. Una fiamma dolce che cauterizza le nostre ferite più intime. In quei momenti ci rendiamo conto che nulla ha valore, tutto passa. In quegli attimi di grazia improvvisa, dirompente, tutto perde d’importanza. Tutte le lotte, tutti gli affanni, tutte le voglie di rivincita, tutti i progetti svaniscono nella vanità. Vapore. Soffio inconsistente. E insieme al desiderio del cielo possiamo cadere a terra e giocare con i bambini tra lacrime d’intimo stupore. Donare la nostra giacca ad un barbone che prova a scaldarsi solitario nell’angolo di un parcheggio. Correre sotto la pioggia incuranti della veste perché l’“anima vale più del corpo”, unendo la preghiera al pianto sollevato da una gioia che non è di questo mondo. Certi istanti non vanno sprecati, è il Signore che passa.
Non di rado predilige, Dio, l’esperienza della bellezza per attirare a sé l’anima assetata di Lui anche se inconsapevole. Un volto, un dipinto, un paesaggio, una musica, una poesia, un libro, un film. E il regista americano Terrence Malick ha dimostrato ancora una volta di essere un autentico “cantore della bellezza”. Un “Omero del cinema” la cui musa non ha cessato ancora d’ispirargli verità e splendore. Con il suo A Hidden Life (Una vita nascosta) uscito nel 2019 ha segnato un nuovo punto di non ritorno. Il cinema non sarà più lo stesso.
La pellicola racconta la vicenda di un padre, di un marito, di un patriota, di un cristiano come noi, come tanti. Ma santo, come pochi. Franz Jägerstätter, sposato con Frankiska (nel film Fani) l’angelo che lo riportò alla fede dopo una giovinezza dissoluta. Padre di tre meravigliose figliole Rosalia, Maria e Aloisia. Ghigliottinato dai nazisti il 9 agosto del 1943 a soli 36 anni per essersi rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al Reich e al suo Führer. Unico nel suo villaggio (Sankt Radegund) ad aver votato nel 1938 contro l’Anschluss (l’annessione) dell’Austria alla Germania nazista. Ma voglio sorvolare sui dettagli agiografici ampiamente disponibili per fermarmi a contemplare alcuni punti salienti di questa storia così come l’ha magnificamente rappresentata Malick: la vera obbedienza, la fede, l’amore.
Abbiamo il dovere di obbedire alla legittima autorità quando essa stessa si corrompe e devia verso l’errore? Come possiamo obbedire a coloro che ci impongono di fare il male? L’obbedienza è forse cieca dinanzi all’ingiustizia e al male? A chi obbedisce? Quale la norma? Quale il fine? Questa è la prima prova angosciante che deve superare questo semplice contadino, padre di famiglia, piccolo e indifeso ma con una fede così smisurata nel bene e nella giustizia da riuscire a spostare le montagne tra le quali si era forgiato il suo spirito. Quelle alte vette che indicano il Cielo e spingono l’uomo ad alzare lo sguardo per vedere la luce lo seguiranno fin nell’oscurità del carcere.
Il suo vescovo lo mette dinanzi all’obbligo morale di obbedire all’empio e al malvagio. Lo chiama “patria” ma solo per non dover confessare il proprio peccato, non lo vede forse, è acciecato. Una pugnalata che va dritta al suo cuore di uomo semplice. Conformarsi, obbedire come fanno tutti gli altri perché, in fondo, non ci si può opporre al male, non ha senso. Questa è la triste conclusione di chi viene a patti con la propria coscienza: perdere il senso del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso. Tradire la verità infatti è sempre un tradire sé stessi. Ecco i veri traditori. Perché chi è disposto a sacrificare la verità per salvare sé stesso per un singolare paradosso, presto o tardi, giungerà ad odiare e sacrificare sé stesso per salvare la menzogna. “Perché chi ama la propria vita in questo mondo la perderà” (Gv 12,25).
La spiegazione più compiuta dell’ipocrisia di noi gretti “cristiani adulti” la fornisce, nel film, il vecchio pittore che abbellisce la piccola chiesa di Sankt Radegund: “Dipingo le tombe dei profeti – confessa con una vena di disincanto a Franz che lo assiste – aiuto la gente a guardare in alto…guardano e immaginano che se fossero vissuti ai tempi di Cristo non si sarebbero comportati come gli altri. Avrebbero ucciso coloro che adesso adorano”. Il vecchio artista si riferisce ovviamente ad Hitler e, in lui, a tutti gli empi persecutori dei giusti. Una citazione quasi pedissequa del Vangelo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti” (Mt 23,29-30).
“Tutto quello che facciamo – continua il pittore – è creare ammiratori, non seguaci. La vita di Cristo è un appello. Non vogliamo che qualcuno ce lo ricordi. Per non dover vedere cosa accade alla verità”. E cosa accadrebbe alla Verità e al Giusto, se mai ce ne fosse uno? Risponde il profeta Platone: “Il giusto, proprio in virtù degli atti che compie, sarà flagellato, torturato, gettato in catene, gli saranno bruciati gli occhi e infine, dopo aver patito tutti questi mali, appeso ad una croce” (Repubblica, II, 361 e-362a).
Ma continua il vecchio pittore: “Arriverà un’epoca oscura e gli uomini saranno più intelligenti. Non si opporranno alla verità, la ignoreranno e basta”. E’ chiaro che Malick come un astuto oracolo utilizza gli accadimenti del nazismo per raccontare il proprio tempo, il nostro tempo. “Io dipingo il loro Cristo rassicurante con un’aureola sopra la testa – e chiosa – come posso mostrare quello che non ho conosciuto?”. L’ascia dell’accusa cade rovinosa sui falsi discepoli, sui cattivi maestri. Poiché se abbiamo veramente conosciuto Cristo e il suo amore, se abbiamo davvero bevuto il suo calice “non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). Malick ci sta dicendo che è la verità stessa ad accusare coloro che la tradiscono, ieri, oggi e sempre. E il sangue del giusto Franz Jägerstätter testimonia contro noi tutti poveri ed avari d’amore.
Ma non c’è solo la solitudine del giusto in questa storia. L’amore è la seconda prova che egli deve superare. Tutti i suoi familiari, parenti ed amici ad eccezione della devota moglie Fani gli suggeriranno di non seguire la propria coscienza e di adeguarsi alle leggi comuni, anche se ingiuste, per amore delle figlie. Persino il suo parroco don Josef Karobath vedendo un così alto senso di giustizia radicato nel cuore di questo uomo, semplice come una colomba, tenta di fare leva sui suoi affetti: “Pensa alla tua famiglia – gli dice – il tuo sacrificio non gioverebbe a nessuno”. Formidabile tentazione, la stessa che subì san Tommaso Moro da parte della moglie e della figlia. È la tentazione di santa Perpetua alla quale il padre venne a mostrare il suo stesso figliuolo per farle rinnegare Cristo. È la stessa tentazione della madre di quei sette fratelli “costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite. Uno di essi, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi di indagare o sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri»” (2Mac 7,1-2). È in fondo la tentazione di tutti i martiri, anzi di tutti i cristiani: salvare la propria vita e quella dei propri cari o perseverare nella verità fino alla fine?
“A Dio non importa cosa dici ma solo cos’hai nel cuore. Pronuncia il giuramento e pensa quello che vuoi”. Con quest’ultima stilettata che il padre Joseph affonda in un cuore ormai allo stremo Malick cita espressamente il dialogo tra san Tommaso Moro e la figlia Margaret in “Un uomo per tutte le stagioni” (1966). Ma è nella risposta a questa tentazione che l’altro capolavoro (mancato) “Silenzio” di Martin Scorsese (2017) viene mandato in frantumi dalla Vita nascosta di Malick. Chi ha visto e meditato il film di Scorsese sa a cosa mi riferisco (qui un mio commento che scrissi all’epoca: https://www.radiospada.org/2017/01/cinespada-silence-il-martirio-dei-giapponesi-e-il-paradiso-degli-apostati/).
Scorsese infatti facendosi eco del pensiero dello scrittore giapponese Shusaku Endo rappresenta un cristianesimo rovesciato in cui “vince” chi dinanzi al martirio rinuncia alla confessione della fede per salvare la vita propria e quella degli altri. Una scelta senz’altro “umana” ma, per l’appunto, non cristiana poiché priva della fede nella promessa riservata a coloro che avranno perseverato fino alla fine, disprezzando questo mondo. Un “cristianesimo agnostico” dunque che finisce per fare a meno di Dio per salvare le creature. In altre parole l’esaltazione del peccato di apostasia sintetizzato nel noto adagio di sant’Agostino: «aversio a Deo et conversio ad creaturas».
In effetti ci sono alcune scene di A Hidden Life che potrebbero essere perfettamente sovrapposte a Silence. In entrambi i film viene ben rappresentata la dinamica della tentazione ma l’abisso incolmabile che li separa è la risposta agnostica di Scorsese e la risposta cristiana di Malick. Scorsese ha rappresentato la codardia come atto quasi ineluttabile e il tradimento come un valore che lo stesso Cristo esigerebbe in maniera del tutto contraddittoria dai propri discepoli. In questo modo viene vanificato senza pietà il sacrificio dei martiri giapponesi e con essi quelli di tutti i giusti da Abele fino a Franz Jägerstätter. Riappare perciò serpeggiando l’insinuazione demoniaca: “Cui prodest?”. A chi gioverà questo sacrificio? Chi mai lo verrà a sapere fuori da queste mura? Che senso ha soffrire? La sofferenza e la morte sono inutili, come la vita in fondo. Tanto vale eliminarne un po’. Eppure, a tanto di sofferenza amputata per disgusto corrisponderà altrettanta vita gettata per dissennatezza. Vita e dolore infatti non si possono scindere. Pretendendo di eliminare l’uno fatalmente si distruggerà anche l’altra.
Questa è la catechesi del “mondo nuovo” spazzata via insieme al vuoto silenzio di Scorsese da un umile contadino austriaco. Il regista italo-americano ha rappresentato lo scandalo della sofferenza dei giusti privandola della luce che trasfigura le umane vicissitudini: la morte di Cristo che ha vinto il mondo.
Diversamente dagli apostati gesuiti Ferreira e Rodrigues Franz Jägerstätter non solo non tenterà sopraffatto da falsa compassione di mettere sua moglie e le sue figlie al riparo dal dolore e dal marchio infamante del tradimento ma anzi chiederà loro di compartecipare al suo sacrificio e alle sue sofferenze. “Cara moglie e cara madre – scriverà nell’ultima lettera – non mi è stato possibile liberarvi dai dolori che avete sofferto per me e adesso, mie care, ricordatemi nelle vostre preghiere. Prego per voi dall’aldilà”.
Così ha fatto Cristo con ciascuno di noi. Non ci ha promesso il benessere, la salute, la felicità in questa vita bensì la persecuzione, l’umiliazione e la morte. “Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io – cioè sulla Croce – là sarà anche il mio servo” (Gv 12,26).
Un’ultima luce perciò si accende per noi in mezzo alle tenebre del momento presente. In un tempo in cui l’umanità instupidita si aggrappa alla vita come un disperato ad un relitto in balia della tempesta una lezione giunge a noi come un segreto di pace sussurrato all’orecchio: “Quando rinunci – scrive Franz dalla prigionia – all’idea di dover sopravvivere ad ogni costo, vieni inondato da nuova luce”.
Tale è la condizione del credente, il figlio del Padre. Il cristiano infatti non lotta per la sopravvivenza, ma per la vita eterna. Non si preoccupa del cibo e del vestito ma cerca il cibo che non perisce. Non vacilla dinanzi agli aguzzini. Non dispera difronte ai marosi dell’esistenza terrena perché anche se il Maestro dorme e la tempesta sembra travolgerci Egli solo è il padrone dei flutti. Non fugge la morte ma le corre incontro, come a una sorella che da lungo tempo si attendeva: sorella nostra morte corporale.
L’inno che dovremmo cantare non è dunque un inno scanzonato e leggero ma un inno sereno e pur sempre grave che ci accompagna verso la fine di tutte le cose. “Cavalcate ora, cavalcate per la rovina e per la fine del mondo! Morte!”. Questo è il grido di guerra del cristiano. Grido di guerra e preghiera che dà pace. Apriamo gli occhi alla verità, non scegliamo la via larga e spaziosa ma la porta stretta ed angusta: la nostra vita è un cavalcare verso la morte. I nostri padri cantavano Ad mortem festinamus peccare desistamus (“corriamo verso la morte, cessiamo di peccare”). Una morte vittoriosa certo ma pur sempre morte. Una croce gloriosa sapendo che questa vita non ci appartiene ma è Sua, come è lo è sempre stata.
“Un tempo avevi fretta…eri sempre a corto di tempo”, medita nelle catene il santo contadino che sfidò il Terzo Reich. Perché? Per andare dietro a cosa? Dove era rivolta la tua vita? Dove vai, o uomo? Qual è la tua destinazione?
“Verrà un tempo – prega Fani – in cui capiremo che senso ha tutto questo…E non ci saranno misteri. Capiremo perché viviamo. Ci ritroveremo. Coltiveremo frutteti, campi. Ricostruiremo la terra. Franz…ci vedremo là…sulle montagne”. Questa frase che Malick fa dire alla moglie Franziska, la dolce e fedele Fani, martire quanto l’amato Franz giacché non è possibile separare l’amata dall’amato né in vita né in morte, in realtà è come se la dicesse lui stesso. E’ questa la parola di speranza che è mancata al silenzio di Scorsese, vuoto di senso e di parole.
Un giorno ho sentito dire ad un vecchio monaco malato che laddove le tenebre sono grandi anche una piccola e debole candela sembra una luce molto grande.
E come possiamo raccontare la luce che abbiamo visto? Chi ci crederebbe se gli dicessimo che abbiamo visto Colui che era annoverato tra i morti? In realtà, a tutti noi Egli ha parlato. E ci parla ogni volta che sperimentiamo lo splendore della verità. Questo è lo scopo dell’arte. La bellezza che è nascosta tra le pieghe del dolore della vita umana per trasfigurarla in una nuova luce e restituirla al suo vero destino, l’Amore increato. Colui che abita in una luce inaccessibile. Senonché essa si è mostrata una volta per tutte, è venuta nel mondo. Cercatela ora, o uomini, finché si fa trovare. Camminate nella luce finché avete la luce. Una luce che a volte irrompe nella nostra vita, afferrandoci e trasportandoci immediatamente in un regno che non è di questo mondo. E’ quando ci ritroviamo miseramente in questo mondo che la tristezza ci assale. L’unica autentica tristezza comune a tutti gli uomini, come scrisse Leon Bloy, “la tristezza di non essere santi”.
Con il suo A Hidden Life Terrence Malick ce l’ha raccontata, è riuscito a farci intravedere la quieta luce che splende nelle tenebre. Sedetevi comodi dunque. Gustate e vedete. E senza accorgervene sarà come prendere in mano una corona del Rosario. Non stupitevene. Quello di Malick non è un semplice film, è preghiera.