di Luca Fumagalli

«Cinque suore tedesche, i cui corpi ora sono qui nell’obitorio, si presero per mano e annegarono insieme; la superiora, una donna magra, alta due metri, continuò a gridare “O Cristo, vieni presto” finché non giunse la fine».

Così recitava l’articolo apparso sul «Times» l’11 dicembre 1875 a commento del terribile naufragio del Deutschland – una nave a vapore salpata da Brema verso New York – avvenuto pochi giorni prima, il 7, vicino alla costa inglese. Come mai delle religiose francescane fossero sull’imbarcazione è presto detto: speravano di trovare maggior fortuna in America dopo essere state scacciate dalla Germania bismarckiana a causa delle famigerate leggi Falk. Il Deutschland, in balìa della notte e della tempesta, si era incagliato in un banco di sabbia. Per circa una trentina d’ore, prima dell’arrivo dei soccorsi provenienti da Harwich, i passeggeri e l’equipaggio dovettero lottare contro le condizioni avverse, e furono in molti a morire assiderati o a venire trascinati via dal mare. Stando alle cronache, qualcuno, al colmo della disperazione, arrivò addirittura a suicidarsi.

Spinto dal superiore del seminario di St. Beuno, desideroso che qualcuno commemorasse la tragedia con dei versi, Gerard Manley Hopkins riprese la penna in mano dopo tanto tempo, rompendo quel silenzio a cui si era costretto da quando era entrato a far parte della Compagnia di Gesù. Del resto l’accaduto offriva una buona occasione al sacerdote poeta: non solo il naufragio è tradizionalmente interpretabile in chiave di dramma didattico, messo in scena dalla Provvidenza a edificazione del popolo incerto, ma a naufragare era stata pure una nave moderna, fiduciosa nella storia profana del mondo (tra l’altro a poche miglia dalla protestante costa britannica). A giudicare dalle testimonianze, si direbbe che a colpire Hopkins – che nel frattempo si era documentato il più possibile – fu poi, ancor più della sorte delle cinque suore, il grido della “tall nun” invocante Cristo, con quel sospetto di ingiustizia che sempre segue alla morte di una persona retta.

Il gesuita si mise alacremente al lavoro e qualche mese dopo fu pronto un poema in ottave, di trentacinque stanze, da pubblicare sul «Month», la rivista del suo ordine. In una lettera del 1878 fu lui stesso a raccontare al canonico anglicano R. W. Dixon – un nuovo amico che sarebbe presto diventato un suo fervente ammiratore – lo sgomento dell’editore davanti a quelle rime modernissime, oscure, intricate, attraversate da suggestioni liriche greche e gallesi, e a quegli accenti ossessivamente segnati su ogni parola. Come prevedibile l’opera venne rigettata e finì nel dimenticatoio. Il naufragio del Deutschland (The Wreck of the Deutschland) vide così la luce soltanto nel 1918, quando Hopkins era morto già da quasi trent’anni.

Eppure la letteratura inglese può vantare pochissimi testi che, come il suo, sono la testimonianza di un’autentica esperienza religiosa, sebbene questa non sia di certo di immediata comprensione a causa delle continue allusioni colte alla Scrittura, a Duns Scoto e ai padri della Chiesa, e a causa degli aspetti idiosincratici del lessico e della sintassi (croce e delizia dei numerosi critici che da allora hanno versato fiumi di inchiostro a commento del capolavoro del gesuita). Come scrive Nanni Cagnone, la parola di Hopkins «vorrebbe vedere l’invisibile di ciò che appare allo sguardo, vedere ma concepire di vedere, dire il senso necessario della forma. […] Non è strano che egli abbia aperto il lessico a prestiti e neologismi, e che abbia molto insistito sull’etimologia, la quale promette […] un’origine, quasi un fondamento, e forse fa sperare che ritorni la sacralità della nominazione».

Se nella prima parte del poema (stanze 1-10) l’autore si sofferma a meditare sulla sofferenza e sul suo significato, nella seconda parte (stanze 11-35) la narrazione si concentra sul naufragio e in particolare sulla suora che invoca Dio, una scena perennemente illuminata da una luce mistica.

L’incipit – «Tu che me domini / Dio! Donatore del soffio e del pane; / Aréna del mondo, impulso del mare; / Dei vivi e dei morti Signore»» – sta a sottolineare sin da subito la presenza del divino che si cela dietro quel disastro di cui il lettore sarà a breve testimone, da Lui permesso per un misterioso fine. Dopo un’allusione al Libro di Giobbe, nella seconda stanza Hopkins professa poi la propria volontà di accettare il dolore come parte integrante della vita e della sua vocazione: «Sì, io dissi sì / Oh a fulmine e vibrata frusta». Per il cristiano la scelta è infatti solamente tra una sofferenza purgatoriale e una sofferenza infernale; tertium non datur. Allo stesso modo il tema della fragilità dell’essere umano torna costantemente nelle stanze successive – «Cosa fine io sono, cedevole / In una clessidra» – accompagnato dalla constatazione di come il mistero della sofferenza non sia legato solo al Paradiso, in cui non ve ne sarà più, ma al mistero stesso dell’Incarnazione. Ad esempio, nella settima stanza: «A partire dal giorno / Del suo passaggio in Galilea; / Tomba tenuta calda di una vita d’utero grigia; / Mangiatoia, ginocchio di vergine / La fitta sospinta Passione, e atroce sudore». Ancora, nella nona: «Adorato sii tra gli uomini, / Dio, trinumere forma; / Torci il tuo ribelle, cocciuto nella tana, / l’umana malignità, con naufragio e tempesta». La prima parte del poema si chiude quindi con un’invocazione alla misericordia di Cristo e un’allusione al suo regno (proprio come nel finale vero e proprio): «Esercita pietà su noi tutti, su noi tutti / Dominio, ma sii adorato, Sovrano sii, adorato».

Nella seconda parte, che si apre con la voce della «Morte sul tamburo», in mezzo alla tempesta l’uomo, prima orgoglioso, si riscopre fragile: «E noi, che ci sogniamo radicati nella terra – Polvere!». Il Deutschland salpa dunque dal porto con a bordo circa duecento passeggeri, diretti, in tutti sensi, verso il “Nuovo mondo”. La nave, però, presto si incaglia, e stanza dopo stanza viene descritto l’orrore della morte in una confusione di sentimenti contrastanti che ricorda un quadro di Turner: la corrente trascina via molte persone, mentre il cadavere di un marinaio eroico, calatosi da un albero per soccorrere una donna con il suo bambino, oscilla penzoloni, impigliato in una corda, senza più la testa. E’ a questo punto che la “tall nun” fa il suo ingresso in scena: «Finché una leonessa si levò contro il balbettìo, / Una profetessa torreggiò sul tumulto, risuonò una vergine lingua». Secondo un linguaggio mistico, carico di valenze numerologiche, le cinque suore francescane sono associate alle cinque piaghe di Cristo e alle stigmate di San Francesco, tutti uniti nella sofferenza: «Ella gridava “O Cristo, Cristo, vieni fa’ presto”: / La croce a sé, chiama a sé Cristo, il suo tempestoso-peggio battezzandolo Meglio». Ancora, poco prima dell’epilogo, la “tall nun” accoglie in sé il Signore e confessa la sua Fede in lui: «Jesu, luce del cuore / Jesu, di vergine figlio, / Quale festa seguitò la notte / Che da questa suora avesti gloria?». La voce della religiosa diviene un conforto per quei poveri peccatori che stanno condividendo con lei un destino fatale. A loro, che urlano angosciati, dona la certezza del Paradiso, unico scoglio sicuro, ciò che può offrire un senso a una vita altrimenti misera: «Fondamento e granito dell’essere: / inafferrabile / Dio, troneggiante dietro la morte». Ecco che allora, per miracolo della Provvidenza, la tragedia si trasforma in una straordinaria possibilità di redenzione, un’occasione che non può non passare attraverso le strette maglie dell’espiazione e dell’afflizione. Nell’ultima stanza – dopo il naufragio fisico della nave, quello morale della Germania di cui porta il nome e quello spirituale che rischia il peccatore – la manifestazione della gloria divina spinge Hopkins a invocare la conversione dell’Inghilterra, il ritorno di essa alla Fede dei padri, una speranza che allora albergava nel cuore di tutti i cattolici dell’Impero: «Signora, alle nostre porte / Annegata, e tra le nostre secche / Ricordati di noi nella rada, nel cielo-porto della ricompensa: / Ritorni il nostro Re, Oh sulle anime inglesi!».