di Luca Fumagalli
Dopo il cardinale Newman, Gilbert Keith Chesterton è probabilmente l’inglese che più ha influenzato il pensiero cattolico contemporaneo. Giornalista, poeta, romanziere, drammaturgo, saggista e polemista di prim’ordine, ancora oggi i suoi libri sono letti e apprezzati in tutto il mondo. In particolare negli ultimi anni si è assistito a un vero e proprio revival degli scritti chestertoniani – anche in Italia, con nuove traduzioni e pubblicazioni di inediti – e un po’ ovunque sono germogliate branche nazionali della Chesterton Society, un’associazione nata con lo scopo di riaccendere l’interesse per i capolavori di un autore per troppo tempo colpevolmente dimenticato. Vi è in atto pure una causa di canonizzazione che, sebbene sia stata recentemente interrotta per colpa, tra l’altro, di un’insensata accusa di antisemitismo, potrebbe essere ancora riaperta (come si suol dire, la speranza è l’ultima a morire).
Al di là della vivacità linguistica, dell’arguzia e dei paradossi che caratterizzano le sue opere migliori, Chesterton ha affascinato e continua ad affascinare i lettori per la radicalità – in senso etimologico – della sua filosofia, che si insinua tra le ferite di un mondo devastato dello scetticismo con lo scopo di restituire un po’ di quel buon senso che dà spessore alla vita. Una volta scrisse che «l’uomo moderno è come un viaggiatore che ha dimenticato il nome della propria destinazione, e deve tornare indietro da dove è venuto per scoprire verso dove sta andando». Mons. Ronald Knox, nella predica tenuta durante la Messa da Requiem dell’amico, lo definì «un profeta in un tempo di falsi profeti». Ciononostante Chesterton non fu nemmeno lontanamente uno spirito freddo e austero, anzi, come pochi prima e dopo di lui seppe affiancare alla profondità intellettuale una rumorosa giovialità fatta di risate e bevute con gli amici. Il risultato fu che grazie ai suoi sforzi furono in molti, come C. S. Lewis e l’attore Alec Guinness, a lasciarsi vincere dal messaggio cristiano.
Chesterton era nato a Londra il 29 maggio 1874 in una famiglia borghese formalmente anglicana; in verità, il padre Edward, un agente immobiliare, e la madre, Marie-Louise Grosjean, erano più che altro dei “liberi pensatori” in perfetto stile vittoriano. Le fiabe, con il racconto dello scontro eterno tra il Bene e il Male, furono la sua introduzione alla morale, mentre un teatro giocattolo ricevuto in regalo gli suggerì per la prima volta l’ipotesi di un cosmo ordinato e di un Creatore. Gilbert aveva una sorella maggiore, Beatrice, che morì purtroppo a otto anni. Comunque non rimase solo a lungo dato che nel 1879 venne alla luce Cecil Edward, quello che senza troppi complimenti definì il suo «pubblico» a lungo atteso. Cecil, che sarebbe diventato un giornalista d’inchiesta, morì tragicamente in Francia nel 1918, pochi giorni dopo la fine della guerra.
A scuola Chesterton non fu proprio uno studente modello: i voti erano mediocri e nelle attività sportive quel fisico robusto che, anni dopo, avrebbe fatto la gioia dei caricaturisti, di certo non lo aiutava. Sin da subito si mostrò però dotato di un vivace spirito critico, tanto che con gli amici fondò un club di dibattito con relativa rivista. Fu proprio in questi anni che iniziò a dare prova del suo talento anticonformista, scrivendo articoli, poesie e racconti (nel 1892 una sua lirica dedicata a San Francesco Saverio vinse pure un premio).
Se dal punto di vista politico Chesterton subì una fascinazione, quantunque passeggera, per il socialismo, in ambito religioso seguitava a vagare in un grigiume indistinto: era un’anima assetata di verità ma le sue domande non ricevevano una risposta soddisfacente. Fu così che dopo aver tentato le strade più varie, compreso lo spiritismo, finì per non credere più in Dio. Era talmente depresso e sfiduciato che arrivò persino a meditare il suicidio. A infondergli nuova speranza, oltre alla naturale avversione per il clima decadente che si respirava alla Slade School of Art – a cui nel frattempo si era iscritto dopo aver lasciato l’University College di Londra – contribuì la lettura delle opere di tre scrittori che da allora rimasero per sempre nel suo cuore: Charles Dickens, Robert Louis Stevenson e Walt Whitman. Ciò che allontanò definitivamente da lui l’ombra della disperazione fu l’intuizione, tutta cristiana, che la strada che porta alla salvezza passa attraverso l’innocenza del bambino, la più alta forma di saggezza: «Ciò che è meraviglioso nella fanciullezza», scrisse, «è che in essa tutto è meraviglia. Non è semplicemente un mondo pieno di miracoli, ma un mondo miracoloso».
Abbandonata a scuola d’arte senza aver ottenuto il diploma, nel 1895 Chesterton cominciò a lavorare per la casa editrice di T. Fisher Uwin, un posto che mantenne per una manciata d’anni, almeno fino a quando la sua crescente fama gli permise di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e all’incessante attività di conferenziere (sia in patria e che all’estero).
Nel 1896, durante una serata letteraria, ebbe occasione di incontrare Frances Blogg, una ragazza minuta e riservata, di poco più anziana di lui. Quello tra loro fu amore a prima vista: i due si fidanzarono e quindi si sposarono nel 1901. Le nozze furono benedette dal comune amico Conrad Noel, un reverendo anglo-cattolico piuttosto bizzarro, di idee politiche radicali (divenne famoso per aver issato la bandiera rossa sulla sua chiesa parrocchiale).
Il matrimonio con una fervente anglicana accrebbe la simpatia di Chesterton per la religione istituzionale. Inoltre Frances si dimostrò una moglie fedele e un prezioso sostegno nei momenti difficili. Dorothy Collins, che iniziò a lavorare per Chesterton come segretaria e che poi divenne, nei fatti, una figlia adottiva, scrisse che Frances «gli dava la sicurezza di cui aveva bisogno» e che «la sua felicità dipendeva totalmente da lei». L’unica nota dolente della loro unione fu l’assenza di figli. Per quanto desiderassero più di ogni altra cosa al mondo avere dei bambini, i coniugi Chesterton dovettero accontentarsi di accogliere a Top Meadow – la loro casa di Beaconsfield – quelli dei vicini per cui preparavano delle feste meravigliose. Addirittura, secondo quanto ebbe a confidare la cognata Ada Jones, i due sposi non riuscirono mai a consumare il matrimonio a causa di problemi fisici e probabilmente anche psicologici di Frances. Quel che è certo è che quest’ultima si sottopose pure a un intervento chirurgico ma non ottenne alcun risultato.
Nel 1900, in un bar di Soho, Chesterton incontrò Hilaire Belloc, quello che sarebbe diventato il fedele compagno di mille battaglie (celebre è il nomignolo “Chesterbelloc” che G. B. Shaw – uno dei loro più valenti avversari – affibbiò con ironica irriverenza alla coppia). Belloc, di padre francese, era uno scrittore di provata Fede cattolica, uno spirito focoso, combattivo, particolarmente versato negli studi storici. Animati dal medesimo amore per l’Inghilterra medievale, la “Little England” dei santi e dei cavalieri, e dal desiderio di denunciare le follie della modernità – a partire dalla guerra anglo-boera allora in corso, simbolo di un imperialismo ottuso e sanguinario – i due non smisero mai di combattere fianco a fianco e di influenzarsi vicendevolmente: se Chesterton disegnò le illustrazioni per alcuni romanzi di Belloc e sollecitò nell’amico una maggiore profondità filosofica, questi donò al sodale una prospettiva più ampia sulla storia europea e una più chiara consapevolezza dei problemi legati all’economia. Il loro legame, privo di rivalità e gelosie, finì col marcare un’epoca.
Dopo aver dato alle stampe due raccolte poetiche a aver iniziato a collaborare con diversi giornali, nel 1901 venne pubblicato L’imputato (The Defendant), il primo di una serie di saggi che lanciarono Chesterton sulla scena pubblica come uno dei più effervescenti intellettuali in circolazione. Le sue tesi assunsero una distinta colorazione cristiana solamente a partire dal 1905, quando con Eretici (Heretics) – a cui seguì nel 1908 Ortodossia (Orthodoxy), una sorta di volume complementare – diede forma matura alle idee che stava covando da tempo e che si compendiavano in un’esaltazione della tradizione e della gioia di vivere.
Nel 1903 un suo libro su Robert Browning rivelò invece quel particolarissimo stile biografico che avrebbe caratterizzato anche altri lavori analoghi quali, ad esempio, Charles Dickens (1906), George Bernard Shaw (1909), William Blake (1910), Robert Louis Stevenson (1927), nonché le monografie dedicate a San Francesco d’Assisi (1923) e a San Tommaso d’Aquino (1933): poco attento ai dettagli cronologici e spesso inaccurato nelle citazioni – fatte a memoria – Chesterton era mosso innanzitutto dall’urgenza di rivelare al lettore l’anima dell’uomo che stava ritraendo con la sua penna; il resto contava poco o nulla. Perciò a chi lo accusava di scarsa precisione, si limitava a rispondere: «Prima non ci sono i fatti ma la verità».
In ambito narrativo l’esordio avvenne nel 1904 con il romanzo Il Napoleone di Notting Hill (The Napoleon of Notting Hill), un’appassionante difesa delle piccole comunità condotta in un clima surreale, tra umorismo e commozione, un libro che venne letto e apprezzato pure dal nazionalista irlandese Michael Collins (su un tema simile, un paio d’anni più tardi, Chesterton scrisse un articolo che ebbe un effetto duraturo sul giovane Gandhi, all’epoca studente a Londra). Nel 1908 uscì forse il suo lavoro più oscuro e difficile, L’uomo che fu Giovedì (The Man Who was Thursday), un classico poliziesco che si trasforma poco alla volta in un incubo kafkiano dai risvolti a dir poco inquietanti. Negli anni successivi scrisse altri interessanti romanzi tra cui La sfera e la croce (The Ball and the Cross, 1909) – in cui è narrato con i consueti toni paradossali lo scontro tra l’agnosticismo nichilista e il cristianesimo – Uomovivo (Manalive, 1912) – una storia filosofica incentrata sull’eccentrico personaggio di Innocent Smith – e L’osteria volante (The Flying Inn, 1914), la picaresca avventura di una brigata in lotta contro una classe politica corrotta, in combutta con il conquistatore islamico.
Sul versante poetico il capolavoro chestertoniano è forse La ballata del cavallo bianco (The Ballad of the White Horse, del 1910), il racconto della miracolosa vittoria dell’esercito inglese guidato dal re Alfredo il Grande contro gli invasori danesi. Molto bello è anche il poema Lepanto (1912), dedicato, come da titolo, alla famosa battaglia tra la flotta cristiana e quella turca.
Gran parte della fama mondiale di cui Chesterton gode ancora gli venne tuttavia dai racconti investigativi che iniziò a pubblicare a partire dal 1911 e che avevano per protagonista il buffo sacerdote cattolico Padre Brown, capace di risolvere i più intricati misteri grazie alla sua vasta conoscenza dell’animo umano: «Io non cerco di mettermi fuori dall’uomo. Io cerco di mettermi dentro l’assassino…». In totale videro la luce cinque raccolte, l’ultima delle quali pubblicata nel 1935, da cui nei decenni successivi furono tratte pure diverse riduzioni cinematografiche e svariati sceneggiati per la televisione. Padre Brown, uno dei personaggi letterari preferiti da Antonio Gramsci e da Alfred Hitchcock, aveva una precisa fonte d’ispirazione: un sacerdote di origine irlandese, John O’Connor, che lo scrittore aveva conosciuto nel 1903 e con in quale era subito nata una profonda amicizia, «forse la più intima della vita di Gilbert» (così Maisie Ward). Dopo un primo abboccamento con mons. Ronald Knox, fu proprio John O’Connor ad assistere Chesterton nel suo lungo percorso di avvicinamento alla Chiesa di Roma.
Al tempo del loro primo incontro, infatti, la Fede cristiana di Chesterton era ancora imprecisa. Per amore della moglie aveva iniziato ad accompagnarla alle funzioni anglicane, ma avvertiva che il protestantesimo non era la sua casa. Fu soprattutto la paura di recare un dolore a Frances se per quasi vent’anni Gilbert posticipò la conversione a quel cattolicesimo che aveva imparato ad amare, prima che nei suoi contenuti dottrinali, per quelle qualità di umiltà, semplicità e intelligenza che aveva posto nel personaggio di Padre Brown. Ricevette finalmente il battesimo nel 1922 nella piccola sala da ballo di un hotel di Beaconsfield, riadattata a cappella per l’occasione. Quel giorno alla madre scrisse una lettera commovente: «Credo che la lotta per la famiglia, per la libertà del cittadino e per ogni cosa degna deve essere ora ingaggiata dall’unica forma militante della cristianità». Nella sua Autobiografia (Autobiography), datata 1936, fu ancora più esplicito: «“Perché ti sei convertito alla Chiesa di Roma?” la risposta […] è “Per liberarmi dai miei peccati”. Infatti non c’è altro sistema religioso che professi realmente di liberare l’uomo dai propri peccati». Per la somma gioia del marito, anche Frances si fece cattolica quattro anni dopo.
Nel 1925 Chesterton decise di rialzare dalla polvere la vecchia bandiera del giornalismo coraggioso che era stata levata in alto da suo fratello Cecil, e insieme a Belloc, al domenicano Vincent McNabb, a Maurice Baring e ad altri amici fondò un nuovo settimanale, il «G. K.’s Weekly», seguito un anno dopo da un movimento politico, la Distributist League (la Lega distributista), il cui motto, ideato dallo stesso Chesterton, era «La libertà attraverso la distribuzione della proprietà». Propugnando la teoria economica del “piccolo e bello”, sulla falsariga della dottrina sociale cattolica riassunta da Leone XIII nell’enciclica Rerum Rovarum, il distributismo non solo era antimperialista e localista, ma riprendeva anche i temi della difesa della terra e del ritorno ad essa. Chesterton affidò le sue riflessioni in materia a un volume, Il profilo della ragionevolezza (The Outline of Sanity), del 1926. Per quanto animata da nobili ideali, la Lega fu pesantemente condizionata sin da subito da diversi limiti che la portarono a sfaldarsi nel giro di un tempo relativamente breve. Secondo Joseph Pearce, «presto sorsero dei dissensi interni a proposito delle macchine e del loro ruolo; c’era tensione tra i cattolici e i non cattolici sull’importanza, o meno, da dare alla religione; sarebbe poi seguito un atteggiamento di diffuso pessimismo a causa dei pochi consensi raccolti».
Nel 1934, dopo aver pubblicato altri ragguardevoli saggi – tra cui Una breve storia dell’Inghilterra (A Short History of England, 1917), Eugenetica e altri malanni (Eugenics and Other Evils, 1922), L’uomo eterno (The Everlasting Man, 1925) e La risurrezione di Roma (The Resurrection of Rome, 1931) – e aver ricevuto lauree honoris causa dalle Università di Edimburgo, Dublino e di Notre Dame (Indiana), a Chesterton venne conferito da Pio XI il titolo di cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno, una delle più importanti onorificenze vaticane, «in riconoscimento dei servigi letterari resi alla Chiesa».
Due anni più tardi la sua salute, minata dall’estenuante attività e dai vari problemi derivanti dal fisico trascurato, si aggravò rapidamente. Morì il 14 giugno, non prima di essersi congedato con parole affettuose dall’amata moglie e dalla segretaria. Fu sepolto nel cimitero di Beaconsfield e circa un mese più tardi una Messa da Requiem venne celebrata in suo onore nella cattedrale di Westminster. Appresa la notizia della scomparsa dello scrittore, per mezzo del Segretario di Stato, il cardinale Eugenio Pacelli, il Papa mandò un telegramma di cordoglio in cui si piangeva la perdita di «un devoto figlio della Santa Chiesa, difensore ricco di doni della Fede cattolica».
Tra gli appassionati illustri delle opere del polemista inglese – Emilio Cecchi, Dorothy L. Sayers, J. R. R. Tolkien, Graham Greene, Christopher Dawson, Maisie Ward, Giovanni Battista Montini (Paolo VI), Albino Luciani (Giovanni Paolo I) e tanti altri ancora – figura pure Jorge Luis Borges, le cui parole descrivono perfettamente la meravigliosa sensazione che avvolge chi apre uno qualsiasi dei volumi di Chesterton: «La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come lui».
Fonti: P. GULISANO, Chesterton e Belloc. Apologia e profezia, Ancora, Milano, 2002; J. PEARCE, Wisdom and Innocence. A Life of G. K. Chesterton, Ignatius Press, San Francisco, 2015.