articolo di anonimo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e ‘l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti guidi?
Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra:
Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
(Canto III Purgatorio, vv. 16-39)
Il turbamento di Dante, alla vista della terra spoglia, priva dell’ombra della sua guida, a giudizio di molti si presterebbe ad una convenzione poetica. Per quanto i personaggi dell’opera siano visibili, ovvero si mostrino con delle fattezze precise, ciò non impedisce ai raggi del sole di passare loro attraverso. Si tratta di un mistero che, se fosse penetrabile alla nostra ragione, non ci sarebbe stato bisogno che Maria partorisse.
Cristo, infatti, si è incarnato a motivo del peccato originale, cui risulta la perdita dello stato di onniscienza da Adamo precedentemente goduto. Non c’è da meravigliarsi, sostiene Gilson, «non più del fatto che le sfere celesti lasciano passare liberamente i raggi luminosi. Infatti le sfere sono corpi solidi, ma lasciano passare i raggi luminosi perché sono anche corpi diafani».
L’interpretazione del saggista è di grande interesse: come le sfere celesti, anche i defunti sono fatti di corpi diafani; non dunque meri spiriti sprovvisti di corpo, ma enti provvisti di un corpo composto da aria condensata e di anima.
Per questo motivo essi possono avvertire delle sensazioni fisiche, ma non ci è dato di sapere come. Un simile esito, ammesso o meno che risponda ad una finzione letteraria, si deve alla combinazione tra genio poetico e un interesse di natura squisitamente scientifica. Nel canto XXIV Purgatorio, Dante si accorge che i corpi dei golosi hanno un aspetto scarno, e quasi sgomentato dagli sguardi spenti dei loro occhi cavi, conclude che coloro i quali non si nutrirono nella giusta misura in vita, vengono sottoposti ad una rigidissima dieta dopo la morte. Ma nel canto XXV il poeta si chiede: «Come si può far magro / là dove l’uopo di nodrir non tocca?» (vv. 20-21).
Le spiegazioni addotte sono due e di diversa natura: una mitica, l’altra dialettica. La prima fa riferimento all’episodio di Meleagro, condannato dalle Parche a vivere per la durata di un tizzone gettato nelle fiamme. Il corpo diafano dimagrisce per motivi che non sono in alcun modo imputabili alla mancanza di cibo, così come Meleagro si era dissolto per via di un tizzone che si consumava.
Segue il secondo esempio: «e se pensassi come, al vostro guizzo, / guizza dentro a lo specchio la vostra image, ciò che par duro ti parrebbe vizzo» (vv. 25-27): se l’anima digiuna in spirito, l’ombra riflette gli effetti dell’astinenza col dimagrimento.
A questo punto, Stazio interviene con una lectio sulla formazione del corpo umano, ma se lo fa, è solo per fornire gli elementi utili a chiarire la natura e l’origine dell’ombra. «Il sangue perfetto non è mai completamente assorbito dalle vene in cui circola: quando ne hanno assorbito il necessario per nutrire il corpo, ne avanza ancora un po’, come un alimento che si prenda dalla tavola.
Nel cuore questo sangue acquisisce una virtù plastica (Dante dice informativa, o formativa)». Nel linguaggio scientifico aristotelico la virtus, sinonimo della moderna forza, è una grandezza che misura l’intensità di un’azione. «Ritroviamo quella virtus formativa che secondo il Convivio è conferita dall’anima del genitore. Se è legittimo sommare i dati forniti dalle due opere (fatto probabile, ma non certo), diremo dunque che, nel cuore del padre, il sangue residuo riceve dall’anima quella virtù formativa in grado di trasformarlo nella sostanza di tutte le membra umane, per formarle, come il sangue venoso va a formare la vena. […]
Secondo la Divina Commedia, quel sangue è sottoposto a nuova digestione in organi che è meglio non nominare (i testicoli): diventa allora sperma. Di lì gocciola sul sangue femminile nella matrice, ricettacolo naturale dove entrambi i sangui vengono raccolti insieme, uno naturalmente attivo, l’altro naturalmente passivo, secondo le disposizioni conferite loro dall’organo perfetto che li produce: il cuore.
Appena unito al sangue femminile, lo sperma comincia a esercitare la sua virtù plastica. Innanzitutto coagula il sangue (coagulando prima), poi lo vivifica (avviva). […]
Ecco dunque che la virtù formativa si fa anima, è divenuta anima: anima fatta». Dante precisa che ci troviamo a livello dell’anima vegetativa, secondo la comune tripartizione dell’anima escogitata da Aristotele e ripresa dalla Scolastica. «Come dice Dante stesso, nell’uomo l’anima vegetativa è ancora in cammino, mentre nella pianta è già arrivata a destinazione: quest’è in via, e quell’è già a riva (Purg. XXI, 54).
La virtù che viene dal cuore del padre continua a operare fintanto che l’anima di muove e dà segno di qualche sensibilità, come un fungo marino: già si move e sente / come fungo marino (vv. 55-56). Siamo dunque arrivati allo stadio dell’anima sensitiva: anche questa virtù formativa comincia a dare organi alle facoltà sensitive di cui è incinta; è quello che Dante chiama «organar le posse on’è semente» (Purg. XXV, 57).
Tale virtù plastica, o formativa, comincia allora a dispiegarsi, a dilatarsi, a estendersi a tutte le membra su cui vigila la natura, ma questo non ci dice ancora come, da animale, si diventi bambino, ossia uomo. Su questo punto, dice Stazio a Dante, si sono smarrite persone più sapienti di te».
Secondo gli anti-averroisti, quali San Tommaso d’Aquino ed Alberto Magno, Dio crea ogni singola anima razionale quando la struttura del cervello è compiuta: «lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant’arte di natura, e spira / spirto novo, di vertù repleto, / che ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un’alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira» (Purg. XXV, vv. 70-75).
Dante si colloca tra questi, e la contraddizione tra l’embriologia dantesca e quella di Tommaso, in cui la virtù formativa non ricompare nelle successive trasformazioni del feto, è per certi versi solo apparente, per il semplice motivo che quest’ultimo non si era proposto di spiegare la formazione delle ombre.
Il rapporto tra l’anima è il corpo vivo è analogo a quello che intercorre tra l’anima e il corpo diafano. Tuttavia, secondo l’Aquinate, il patire dei dannati a cagione del fuoco eterno non rende indispensabile che essi siano dotati di corpo. Il suo rigore su questo punto è tale da minacciare direttamente il progetto di Dante: «Le lacrime e gli stridori di denti non possono essere intesi che metaforicamente nelle sostanze spirituali. Si può nondimeno intendere quei tormenti in senso corporeo dopo la risurrezione, ma anche allora non bisognerà intendere i pianti come si trattasse di lacrime versate, poiché i corpi di quel tipo non possono decomporsi; ci sarà solo dolore di cuore, turbamento degli occhi e della testa come quelli che accompagnano di solito i pianti» (C. G., IV, 90); così il passo sul “tarlo roditore” di Isaia (66: 24) ha da essere interpretato in senso spirituale.
«Questo ci lascia assai distanti dall’Inferno di Dante, con i suoi dannati divorati, congelati, fatti a pezzi, annegati nei fiumi di fuoco o spaccati in due a colpi di spada. Tutto ciò vi accade letteralmente, non metaforicamente. Il corpo laggiù è la prima vittima e il valore plastico dei supplizi da esso subiti passa in primo piano nelle intenzioni del poeta. […] Le anime dannate di Tommaso d’Aquino non sono le ombre dannate di Dante.
Qui lo statuto ontologico dell’ombra dantesca si rivela ancora irriducibile a quello di qualunque anima conosciuta dai teologi». Ma che cos’è allora? «La reciproca contaminazione dei due universi, pagano e cristiano, di cui portano il segno tante opere di quell’epoca (fin dagli inizi della speculazione cristiana, e specialmente a partire dalla riforma scolastica carolingia), ne rende talvolta difficile l’interpretazione.
Il lettore moderno si chiede in che misura gli autori cristiani prestassero credito a quanto attingevano, almeno sotto il profilo letterario, da una tradizione pagana che non poteva essere la loro».
Come è ovvio fu proprio Virgilio, che nel canto VI dell’Eneide «offriva una discesa agli inferi fatta apposta per sedurre l’immaginazione» a ispirare il nostro poeta. Virgilio infatti faceva parte della tradizione romana della grammatica che veniva insegnata nelle scuole monastiche, e lui per primo, per bocca di Enea, si pose il problema di cui parla Lattanzio: «Se l’anima è immortale, com’è possibile che subisca supplizi?», contento di aver trovato l’obiezione di Anchise.
Virgilio ha spesso fatto ricorso ai termini «anima» e «umbra», a quanto pare indifferentemente. Ricordiamo l’incontro di Enea con il padre: «Lascia che ti stringa la mano, padre, e non sottrarti al mio braccio. Mentre diceva queste parole, grosse lacrime gli solcavano il volto. Tre volte tentò di stringere le braccia al collo del padre; tre volte, afferrata invano, l’immagine gli scivolò tra le mani, come i soffi leggeri del vento o un sogno che sfugge» (VI, 700-702).
Viene da pensare a Stazio nell’atto di abbracciare l’ombra vana di Virgilio per tre volte, e per tre volte le braccia sul petto richiudere.
La prima parte del saggio a questo link: https://www.radiospada.org/2020/08/etienne-gilson-su-dante-e-beatrice/
Fonte immagine:
Musée d’Orsay , CC BY 3.0, via Wikimedia Commons