di Luca Fumagalli
«Il giorno è come la notte / senza la luce»
(Eric Stenbock, “Song IX”)
Nella sua antologia The Oxford Book of Modern Verses, 1892-1935, W. B. Yeats lo definì «erudito, connoisseur, beone, poeta, invertito, tra gli uomini più affascinanti», mentre Francis King, storico della magia e autore del volume The Magical World of Aleister Crowley (1977) scrisse di lui che «tentò di comprendere la sua omosessualità nei termini dell’occultismo tradizionale, arrivando infine a considerare la propria condizione come un aspetto del vampirismo e della licantropia; […] lacerato tra cattolicesimo e satanismo […], morì illudendosi che una grande bambola fosse suo figlio ed erede».
Come sovente accade per i tipi stravaganti che bazzicarono ai margini del milieu decadente, la verità e le leggende sul loro conto si confondo a tal punto da renderle quasi indistinguibili. È il caso, ad esempio, di Baron Corvo e del reverendo Montague Summers, ma un analogo discorso sembra valere pure per il conte Eric Stenbock, i cui eccessi, oltre ad averne minato la creatività, sono diventati col tempo più popolari delle sue stesse opere (numericamente poche e liquidate la maggior parte delle volte con parole squalificanti).
Allo stesso tempo le monografie più interessanti su di lui, Stenbock, Yeats and the Nineties (1969), a cura di John Adlard, e A Hundred Years of Disappearance: Count Eric Stenbock (1995), a firma di Jeremy Reed, pur rimanendo lavori imprescindibili, contengono svariate imprecisioni che hanno indirettamente contribuito ad alimentare un mito che ha poco o nulla a che fare con la realtà dei fatti.
Stenbock, il cui nome completo era Eric Magnus Andreas Harry, era nato il 12 marzo 1860, ultimo esponente di una famiglia aristocratica russo-scandinava la cui dimora principale era la bellissima magione di Kolga, in Estonia. Il padre, Erik, morì alcolizzato quando lui aveva solo un anno, e la madre, che nel frattempo si era trasferita alla Withdeane Hall di Brighton, ne approfittò per risposarsi con un funzionario del Tesoro, tale Frank Mowatt, dal quale avrebbe avuto altri sei figli e con cui Eric non andò mai d’accordo.
Nel 1877, dopo aver completato gli studi ginnasiali a Wiesbaden, in Germania, data la salute cagionevole del ragazzo e la sua scarsa predisposizione per la carriera militare, i genitori preferirono iscriverlo al Balliol College di Oxford nella speranza di fare di lui almeno un possidente capace e responsabile.
L’esperienza universitaria, però, fu breve e fallimentare. Amante delle raffinatezze, Eric collezionò debiti su debiti e iniziò anche a darsi all’oppio. Decise poi di farsi cattolico aggiungendo al proprio nome quello di Stanislaus, in onore di San Stanislao Kostka, un gesuita polacco del XVI secolo. Il sommo orrore del patrigno, una volta appresa la notizia, è espresso chiaramente in una lettera datata 8 maggio 1880: «Eric, come sai, è diventato un cattolico romano. È un grande dolore sia per sua madre che per me, e sono sicuro che sarà causa di dispiacere per tutta la famiglia. Comunque è ancora giovane e magari a Kolga, dove ci sono pochissimi preti, potrà crescere, diventare più saggio e magari aderire a una religione meno sciocca».
Sulle ragioni della conversione, non avendo documenti di prima mano al riguardo, è possibile solamente avanzare delle ipotesi. Se è vero che l’amicizia di Eric con i gesuiti e, in particolare, con padre Edward Ignatius Purbrick, fu così solida da far preoccupare persino una sua zia – «Il poveretto si è convertito al cattolicesimo e sembrava credere davvero a tutte quelle cose di cui una volta si prendeva gioco» – e che Arthur Symons lo descrisse nel mezzo di una processione mentre «portava con sincera riverenza dei rami di palma», tuttavia la sensazione è che Stenbock abbia sempre vissuto la propria Fede con eccessiva leggerezza, non facendosi troppi scrupoli a contaminarla con elementi pagani e orientali. Stando alla testimonianza di Ernest Rhys, nella sua abitazione conservava un altare colmo di immagini sacre, candele e piume di pavone. Su di esso vi era pure un busto di Shelley e una piccola scultura di legno raffigurante Budda. Si narra che Oscar Wilde abbia acceso una sigaretta a questo altare, e che un simile atto blasfemo abbia provocato lo svenimento del padrone di casa. Del resto, al di là della condotta non proprio esemplare, anche nei suoi scritti il cristianesimo convive senza soluzione di continuità con un eccessivo compiacimento per il macabro e per gli amori omoerotici (a onor del vero perlopiù platonici). Al pari di altri artisti fin de siècle, ciò che spinse Stenbock verso la Chiesa di Roma fu con molta probabilità la semplice voglia di atteggiarsi ad anticonformista, unita a un’attrazione per i fasti della liturgia. Di sicuro intravedeva nella religione una qualche verità, altrimenti nei suoi scritti non sarebbe tornato così insistentemente sul tema, a volte con intuizioni per nulla disprezzabili, ma questa non fu forte a sufficienza da allontanarlo dal mondo e dalle sue tentazioni.
Nel 1881, appena ventunenne, pubblicò a sue spese Love, Sleep, & Dreams, una breve raccolta poetica segnata dalla malinconia e dalla sofferenza. Due anni più tardi fu la volta di Myrtle, Rue and Cypress, un antologia di versi più cupa rispetto alla precedente, di nuovo incentrata sui temi dell’amore per un giovane, della morte e del sogno. I dedicatari erano tre: il pittore preraffaelita Simeon Solomon, arrestato dieci anni prima per attività omosessuale in un bagno pubblico, il cugino Arvid Stenbock – la famiglia vide sempre con sospetto la loro amicizia, giudicata troppo intima – e Charles Bertram Fowler, figlio di un ministro anglicano di Oxford, morto di tisi a sedici anni nel 1880.
Tra il 1884 e il 1885 Stenbock viaggiò in lungo e in largo, visitando la Germania, la Russia e il Belgio, forse, più che per velleità turistiche, per sfuggire a quei creditori che gli stavano col fiato sul collo. I problemi economici furono comunque per sempre risolti quando, con la morte del nonno paterno, in aggiunta al titolo di conte ereditò il palazzo di Kolga e una discreta fortuna. Rimase in Estonia per due anni, ricordato da amici e parenti non solo per la gentilezza e la generosità – amava soprattutto la compagnia dei bambini, che intratteneva con musiche, danze e travestimenti – ma anche per gli abiti di foggia orientale, dai colori sgargianti, che era solito indossare, per i capelli tenuti lunghi fino alle spalle e per l’abitudine di circondarsi di scimmie, serpenti e altri animali maleodoranti.
Tornato a Londra, non impiegò molto a intrufolarsi nell’ambiente decadente, sebbene persino lì venisse considerato un po’ troppo eccentrico. Nell’articolo “A Study in the Fantastic” Symons lo descrisse come «una di quelle straordinarie creature slave che vivono in un mondo fantasioso, bizzarro, febbrile, peculiare, stravagante, morboso e perverso, sulla scorta del proprio estro, desiderio o capriccio del momento; egocentrico e abbastanza folle da essere consapevole della strana pazzia che era in lui, sopra di lui e intorno a lui, come la venefica esalazione che s’innalza da una valle nebbiosa nella quale si nascondono degli assassini pronti a squartarti». Nonostante il giudizio severo, Symons rimase uno dei pochi a riconoscere del talento nei versi del conte.
Nel frattempo Stenbock aveva comprato da Aubrey Beardsley vari disegni – alcuni dei quali poi regalati al giovane compositore Norman O’Neill – e si era speso molto per aiutare economicamente Solomon, ormai caduto in disgrazia e incapace di staccarsi dalla bottiglia. Dal canto suo il conte era riprecipitato nell’oppio e nel 1884 un suo sodale, il reverendo anglicano William Pomery Ogle, morì a causa di un’overdose dopo aver trascorso la notte con lui. In questi anni fondò inoltre l’Idiot Club, un’associazione goliardica finalizzata alla «soppressione della dignità e della decenza», di cui avrebbe creato un’appendice anche a Kolga.
Sul fronte della letteratura, per il volume Shorter Stories from Balzac (1890) tradusse due racconti dello scrittore francese, di cui era grande ammiratore, e nel 1893 venne dato alle stampe il suo terzo e ultimo volume di poesie, The Shadow of Death. La raccolta conteneva un commovente sonetto dedicato a San Stanislao Kostka, ma l’atmosfera generale era sorprendentemente cupa e triste. L’unica recensione del libro, apparsa sulle colonne della «Pall Mall Gazette», lo definì «una parodia elaborata» dello stile fin de siècle, «un ridicolo miscuglio di neopaganesimo e cattolicesimo, di Verlaine e della Vulgata».
Nell’estate di quello stesso anno Stenbock riuscì a veder pubblicato un suo racconto L’altra sponda (The Other Side) sulle pagine dello «Spirit Lamp», una rivista universitaria di Oxford diretta da Lord Alfred Douglas, il celeberrimo amante di Wilde. La storia, tipicamente stenbockiana nel gusto per la descrizione preziosa e per il sensazionale – con tanto di miracolo eucaristico che libera lo sventurato protagonista dalle forze demoniache che lo controllano – venne lodata dal poeta Lionel Johnson: «Una vicenda potente che parla di licantropi, streghe, fiamme blu e del chiaro di luna».
L’altra sponda compare con altri sette brevi racconti nel volume Studi sulla morte (Studies on Death), del 1894, l’unica opera in prosa a vedere la luce mentre il conte era ancora in vita. Questi provò a sottoporre un’altra delle sue novelle ad Henry Harland, direttore dello «Yellow Book», ma non venne accettata. Fu davvero un peccato, anche perché, come nota Paolo Orlandelli, traduttore italiano di Stenbock, «se le [sue] liriche non svettarono tra i fiumi di versi scritti da studenti oxfordiani sedicenti poeti e non si cimentò mai in opere di largo respiro, i suoi racconti sembrano degni di plauso. Benché tutti incentrati su temi morbosi e con finale tragico, ciascuno di essi tratta soggetti diversi e convince per lo svolgimento, i dialoghi, la descrizione degli ambienti e dei personaggi. La causa meticolosa dei dettagli, l’uso efficace ella suspense, l’arguzia verbale, la forza delle immagini e la pregnanza degli stati emotivi, coinvolgono il lettore fornendogli non poche occasioni di puro godimento».
Nei racconti, più che nei versi, è anche possibile cogliere le migliori suggestioni religiose di Stenbock. In Studi sulla morte, ad esempio, accanto a narrazioni inquietanti vi sono storie straordinariamente delicate come Narciso (Narcissus) e La morte di una vocazione (The Death of a Vocation). La prima, che fa il verso a Il ritratto di Dorian Gray, narra di un uomo ricco e affascinante che viene sfigurato dall’ultima delle sue amanti, come le altre sedotta e abbandonata subito dopo. Ha così inizio per lui un lungo cammino di redenzione che lo porta a scoprire, tramite l’incontro con un trovatello cieco, come la vera bellezza sia quella dell’anima. La morte di una vocazione è invece dedicata a una coppia di sposi che, pur costretti al matrimonio dalle rispettive famiglie – che non hanno alcuna intenzione di assecondare la loro vocazione religiosa – finiscono per innamorarsi.
Alcune delle novelle inedite del conte sono state raccolte da Orlandelli ne La Girandola e altri racconti (2015), mentre il musicista David Tibet, tra i massimi esperti di Stenbock, ha curato la pubblicazione del volume Of Kings and Things (2018), che contiene, oltre a una manciata di interventi critici davvero preziosi, le opere in prosa dello strambo scrittore e una selezione delle sue migliori poesie (tutti i libri di Stenbock sono stati comunque ristampati in anni recenti).
Nel mucchio degli inediti, più che A Modern St. Venantius – il racconto, alla Frederick Rolfe, di un giovane martire barbaramente ucciso – svetta per sostanza cristiana Faust, una rivisitazione del classico patto col diavolo in cui un Satana in vena di confidenze rivela di aver inventato «quella ridicola Fede chiamata protestantesimo» per sviare le coscienze. Interessante è pure The Story of a Scapular, la vicenda di due amici dediti al sesso e alle droghe, uno dei quali assume una dose letale di stricnina ritrovandosi così nell’aldilà. Poiché indossa uno scapolare, la Madonna del Carmelo gli risparmia la vita e i due si fanno frati.
Negli ultimi anni di vita Stenbock tornò a visitare l’Europa, perennemente turbato da un sinistro presagio. Durante una cena, secondo la testimonianza di Yeats – che si ispirò a lui per uno dei personaggi che popolano il romanzo postumo L’uccello maculato (The Speckled Bird) – il conte ammise di sentirsi vicino alla morte e perciò di essere ancora più rigoroso nell’assolvere ai propri doveri religiosi. Aveva iniziato a consumare pasti frugali a base di pane e latte, seguitava a bere champagne a non finire: «Sembrava un ragazzo intelligente, gioioso e gentile, che trovava in mezzo alla morte e alla decadenza una squisita innocenza, il tutto condito con i petulanti attacchi di rabbia di un bambino».
A questo periodo è associato anche uno degli aneddoti più curiosi sul suo conto. Si dice che prese l’abitudine di viaggiare in compagnia di una bambola di legno a grandezza naturale che chiamava “le petit comte” e che trattava come se fosse veramente suo figlio. Aveva assunto pure dei tutori per prendersi cura della sua educazione, e quando le circostanze lo costringevano ad assentarsi da casa per un periodo prolungato non mancava mai di chiederne notizie. La storia, al pari di quella che vuole che dopo la morte il cuore di Stenbock sia stato mandato in una chiesa di Kusal, in Estonia, non è suffragata da altre prove. Qualcuno ha persino provato ad avanzare l’ipotesi che il conte fosse un vero vampiro, ma in questo caso siamo nel campo della pura fantasia.
Rhys fu uno degli ultimi a incontrare lo sfortunato scrittore: «Quanto è cambiato dal giovane e eccitabile conte Stenbock che conoscevo una volta! I suoi riccioli sono scomparsi, le sue labbra sono anemiche, e nei suoi profondi occhi blu non sopravvive più nessuna scintilla». Durante una cena al Cheshire Cheese, un locale di moda tra i bohémien, «parlò di un libro che aveva intenzione di pubblicare […] e poi cambiò soggetto virando sul tema inappropriato della morte. “La morte”, disse, “è il sudicio ingresso che porta a una regione meravigliosa dove non ci sarà più la nebbia di Londra e nessuna traccia di quel male che tormenta i poeti e gli artisti”».
Stenbock morì trentacinquenne, il 16 aprile 1895, nella sua casa di Brighton, devastato dall’oppio e dagli incubi. In una delle ricostruzioni più suggestive si narra che cadde nel camino acceso mentre stava minacciando qualcuno con l’attizzatoio, forse la domestica, preda di un attacco d’ira fomentato dall’alcol. La sua dipartita, anticlimatica e farsesca, fu l’inevitabile epilogo di un’esistenza condotta nello stordimento, tutta eccessi e voli pindarici, provocazioni e ambiguità. Dovunque sia adesso la sua anima, si spera e si prega che possa aver finalmente trovato quella pace che mai ebbe in vita.
Fonti: E. STENBOCK, Of Kings and Things, a cura di D. TIBET, Strange Attractor Press, Londra, 2019; E. STENBOCK, La girandola e altri racconti, a cura di P. ORLANDELLI, Stampa Alternativa, Viterbo, 2018; E. STENBOCK, Studi sulla morte, a cura di P. ORLANDELLI, Stampa Alternativa, Viterbo, 2015;