Józef Simmler, Martirio di S. Giosafat, 1861, Muzeum Narodowe w Warszawie, Varsavia
[foto da scuolaecclesiamater.org]
Dalla Vita di S. Giosafat, arcivescovo e martire Ruteno dell’ordine di S. Basilio il Grande scritta dal monaco basiliano di Grottaferrata nel 1867 in occasione della canonizzazione da parte di Pio IX del Prelato massacrato dagli scismatici orientali in odio alla Fede Romana il 12 Novembre 1623.

Reliquie di san Giosafat conservate nella Basilica Vaticana
[foto da newliturgicalmovement.org]
Erano due settimane che il santo Arcivescovo dimorava in Witepsk e grazie alla prudenza, mansuetudine e paziente longanimità che egli con l’esempio e con la parola imponeva a tutta la famiglia, le cose procedevano pacificamente non ostante le mille quotidiane provocazioni degli Scismatici e gli sforzi di costoro per far nascere qualche tumulto. Perché ad essi ormai veniva meno la speranza di veder adempiuti i loro perfidi disegni e di fare apparire la morte che essi macchinata e fermata avevano del Pastore essere avvenuta per colpa di lui medesimo. Veggendo per altro che ormai la plebaglia era bene indettata e pronta al sacrilego parricidio essi non vollero lasciarsi sfuggire l’occasione sì propizia all’adempimento dei loro voti quale era la presenza del Santo in Witepsk. Che però tenuto uno straordinario congresso al quale presero parte oltre agli Scismatici di Witepsk, altri ancora di Wilna e di Polotsk, fu convenuto e fissato che la domenica futura (12 Novembre) il popolo si sarebbe mosso a tumulto ed assalito il Pastore avrebbelo senz’altro trucidato.
E fatto il piano di battaglia, furono distribuite ed assegnate a ciascun capo-popolo le sue parti perché quella rivolta raggiungesse infallibilmente lo scellerato scopo. Ordinate così e disposte le cose quei primarî cittadini che erano gli autori della trama, assicurati per le disposizioni dei loro satelliti che tutto sarebbe per procedere prosperamente sul cadere del Sabato 11 Novembre, partirono di Witepsk altri per la campagna altri per la loro città per allontanare da sé qualunque sospetto e per isfuggire alla giusta punizione del meditato misfatto. Peraltro essi lasciavano in città chi per audacia ed astuzia potesse degnamente sostenere le loro veci e condurre francamente l’opera al suo fine.
Allora uno dei Consoli della città Pietro Ivanowicz, fervoroso Cattolico e devotissimo quanto altri mai al suo Pastore, corse da Giosafat e affannosamente rivelandogli tutta la serie della congiura ordita nel palazzo stesso di Città dai suoi colleghi nelle municipali funzioni e significando come il dimani senza fallo scoppierebbe il concertato tumulto, diessi a scongiurare il Santo perché con la fuga volesse e porre in salvo se medesimo e allontanare dalla patria la somma sventura di macchiarsi del sangue del suo Padre e Pastore.
Ma il Santo, fermo sempre nel proposito di non abbandonare il posto assegnatogli dal Signore e di non accrescere la baldanza dei nemici col fuggire dalla loro presenza, punto non si lasciò piegare dalle esortazioni del Console, al quale facea pure notare come una fuga notturna sarebbe stata vituperevole e indegna d un Vescovo Poi egli aveva i cavalli necessari per sé e per la famiglia alla campagna, né poteva in quell’ora tarda essendo già inoltrata la sera, farli ricondurre in città. Quindi si dichiarava di vivere tranquillo e volentieri affidarsi alla protezione e nelle mani della Divina Bontà, disposto e pronto a tutto soffrire quanto a Lei fosse piaciuto disporre di sé.
Vedendo pertanto quell’affettuoso e zelante Signore vano essere lo sperare che Giosafat provvedesse alla sua salute e vita, non già con la fuga ma pur coll’uso di alcun altro particolar mezzo di salvezza o di difesa, volle egli stesso prendersi il pensiero di difendere la vita del suo amato Pastore anche malgrado di Lui e non ostante le opposizioni del Santo, fatti venire alcuni suoi servi con armi e con buona copia di polvere da fuoco, volle rimaner quella notte nel palazzo vescovile, pronto a respinger anche con la forza qualunque assalto.
Ben altre però da quelle del Console erano le aspirazioni e le brame del santo Arcivescovo, egli che da lungo tempo sospirava la sorte di dare il sangue per le mani dei nemici della Chiesa Cattolica in attestato della sua costante fedeltà e soggezione alla medesima, ora esultava vagheggiando prossimo ed eminente l’adempimento di quel suo desiderio. E tutta quella sera i suoi discorsi non si aggiravano che sul soggetto tanto caro al suo cuore, la felicità di chi col sacrifizio della vita può attestare il suo amore a Cristo ed alla Chiesa. Del che proseguendo egli a parlare durante la cena, l’Arcidiacono non seppe ritenersi dal pregarlo che non volesse in quel tempo ravvivare i loro timori con tali discorsi. Al che il Santo: “oh, disse, perché avrete voi a male che io brami morir per Cristo e per la S Fede“.
Ritirato poi nella sua stanza non fu vero che egli concedesse riposo alle sue membra o sonno alle sue palpebre ché in quella notte solenne la quale precedeva il sacrifizio, del quale per lume superiore egli era certissimo, egli volle unicamente attendere a disporsi a quel grande atto. Che però quasi tutta la notte passò prosteso dinanzi alla maestà Dio col volto sul suolo e con le braccia stese a croce e con gemiti e sospiri e con grande profluvio di lagrime pregava per la santa Unione, pregava per la Chiesa Cattolica, pel suo popolo e per i suoi nemici e per tutti offeriva al trono delle divine misericordie il sacrifizio della sua vita piccola, offerta per la grandezza dell’affetto e di quel cuore bramoso di mille vite per poterle tutte sacrificare.
Indi quasi a sfogo dell’ardente brama di patire, di tratto in tratto levavasi su a martirizzarsi da sé stesso con asprissime flagellazioni. Così come già il divin Redentore nella notte antecedente alla sua acerbissima passione, Giosafat volle, vegliando e pregando ed offerendosi all’adempimento dei divini voleri, fornirsi di nuove e più temperate armi per il prossimo combattimento. Ed in quella notte, dice l’antico biografo del Santo, fin da tre leghe da Witepsk venivan notate sul palazzo episcopale nere nubi foscamente listate di rosso e molti anche vi osservarono una croce rossastra e quasi sanguinolenta.
Pria dello spuntar dell’alba Giosafat, secondo il suo costume, già era in Chiesa pel canto del Mattutino, l’ultimo che offrir doveva all’Altissimo dopo trent’anni, dacché fanciullino impreso avea a recitarlo, continuandolo poi senza interruzione. Ma in quel frattempo avvenne tale incidente che affrettò forse di qualche ora la sommossa e sembrò presentare ai congiurati l’occasione che essi invano fino allora cercato aveano.
Era in Witepsk un miserabile e sciagurato sacerdote per nome Elia, il quale già Unito e Cattolico, per molto tempo erasi dimostrato devoto suddito del santo Arcivescovo, ma finalmente vinto dalla seduzione o dalla propria malizia avea pubblicamente abbracciato le parti dello Scisma ed univasi senza ritegno a congiurare contro il suo Pastore. Ritiratosi del tutto dal servizio della chiesa mai più non interveniva alle sacre funzioni della cattedrale ed in quella vece assiduamente e con singolare fervore accorreva a quelle chiese posticce che i refrattarî Scismatici eransi costruite a dispetto delle inibizioni del Vescovo e vi accorreva sfacciatamente passando dinanzi al palazzo e sotto le finestre del Santo e provocando i familiari con insulti villani. Per le quali cose l’Arcidiacono Doroteo avea rappresentato al santo Vescovo la necessità di porre freno e termine a quelle insolenze per cessare quel vero scandalo che crescerebbe con la tolleranza, giacché trattandosi di persona ecclesiastica soggetta alla giurisdizione episcopale quella tolleranza anziché a mansuetudine e longanimità sarebbesi attribuita a debolezza e timore. Ed il Santo convenendone avea autorizzato l’Arcidiacono a procurare con cautela e prudenza l’arresto di quel perverso, come prima tornato fosse alle sue insolenti provocazioni. Mentre pertanto l Arcivescovo assisteva quella mattina in chiesa alla sacra salmodia ecco che quel ribaldo, forse facendo a fidanza per l’assenza del Prelato di cui non ignorava il pio costume, fè ritorno alle prese passando in compagnia d’un congiurato e con la solita arroganza e con villani insulti dinanzi al palazzo alla volta della sua chiesa. Perché l’Arcidiacono cui l’oscurità non ancora diradata della notte e la mancanza di spettatori in quell’ora facevano sicurtà sufficiente diè ordine ai famigli di casa di fermare quello sciagurato e sostenerlo nella cucina del palazzo fino al ritorno del Prelato e così fu fatto. Ma tanto bastò perché il compagno dell’indegno Sacerdote, datosi a correr per le strade della città, mettessela tutta a romore schiamazzando e gridando alla violenza.
A queste grida disperate il popolo destossi, i congiurati crederono di aver buono in mano per dar principio alla meditata sacrilega impresa e in un momento il convenuto suono a martello delle campane avvisava essere giunta l’ora d’insorgere contro il Santo Pastore.
Allora fu per ogni dove uno schiamazzare, un urlare imprecando, un eccitarsi a vendetta e da tutte parti a torme e a furia accorrevano uomini, donne, fanciulli con bastoni, sassi, coltelli ed ogni sorta d armi all’assalto della casa del Vescovo, la quale investita a colpi di pietre e di fucili e di scure per atterrare le porte, rimase per qualche tempo esposta agli sforzi violenti di quella marmaglia che chiedeva di penetrarvi. Allora il Santo Vescovo avvisato in Chiesa del pretesto della sollevazione, diè ordine che si rilasciasse incontanente il prete in libertà. Il che fatto sembrò che desse giù il popolare furore e già la gente sbandavasi o fermavasi in capannelle in animati discorsi.
Sembra che appunto in questo tempo di passeggiera calma il Santo, compiuta la recita del Mattutino, fece ritorno alla sua abitazione passando tranquillamente di mezzo a quei crocchi, inosservato e senza riportarne alcun insulto.
Se non che sembrando ormai che anche questo nuovo tumulto potesse riuscire come i precedenti e che non più si ottenesse il frutto delle lunghe trame, i capi della sollevazione scorrendo qua e là, rimproverando gli uni, eccitando gli altri, rammentando a tutti gl’impegni presi e dichiarandosi esser necessario del tutto il finirla una volta, verso le otto del mattino trascinarono nuovamente quella aizzata ciurmaglia all’assalto, più che mai risoluti di sfogare il loro mal talento e di non cessare dall’opera pria che il Santo Vescovo fosse morto.
A questo novello e in nessuna maniera provocato attacco Giosafat, conoscendo oramai esser venuta l’ora sua di passare da questo mondo al Padre e Creatore suo, raccomandò vivamente ai suoi di non offendere alcuno e di non voler resistere alla violenza con la violenza e solo s’indusse ad accordare che per intimorire e ritenere, se fosse possibile, quegli assalitori, si potessero trarre dei colpi con arme da fuoco cariche solo di polvere e carta. E quei buoni familiari usi ad ubbidire puntualmente al loro Santo Padrone, non osarono trasgredire i suoi ordini anche in quel grave ed ultimo pericolo e mentre essendo rinchiusi in casa avrebbero potuto molto facilmente recar gravi danni a quella affollata moltitudine, niuno fu tuttavia di tanta gente che ne riportasse offesa di sorta.
Dati poi questi ordini il Santo Arcivescovo ritirossi nella sua camera e steso bocconi sul suolo anche una volta tornò ad offerire il sacrifizio di tutto sé all’Altissimo e ad implorare pietà per i suoi persecutori e forza e grazia nel combattimento. Intanto gli assalitori, trovando chiusi tutti gli aditi per penetrare nel palazzo, dapprima tentarono appiccarvi il fuoco, ma dissuasi pel timore che l’incendio si estendesse alla città dopo alcun tempo, accortisi di poter liberamente e senza pericolo avvicinarsi al palazzo, a colpi di scure ne atterrarono le porte e in un istante qual furioso torrente a centinaia irruppero in quella sacra abitazione, urlando quali fiere e mostrando negli occhi e nel volto la gioia feroce di poter ormai pascere largamente l’insaziabile avidità di sangue e di strage.
Spargendosi per tutta l’abitazione, quanti incontrarono dei familiari con bastoni ed altre armi percossero e ferirono crudelmente. Giunti alla sala prossima alla camera del Santo vi rinvennero l’arcidiacono Doroteo col primicerio Emmanuele Cantacuzeno e l’economo Gregorio Uszacki, ecclesiastici intemerati e santi, e contro di loro perciò si rivolse tutto il furore di quelle tigri ché all’Arcidiacono toccarono ben 18 ferite alla testa e il Cantacuzeno ne rilevò 13, per nulla dire delle percosse innumerevoli con bastoni e con calci onde quei venerandi ministri di Dio rimasero quasi morti sul suolo.
Ed allora uno di quegli assassini diceva all’Uszacki: “Non tel predissi io che continuando ad essere dei familiari di Colui avresti terminato miseramente i tuoi giorni?“.
Allo strepito di quell’orda selvaggia sempre crescente, al fracasso che menavano, alle strida ed ai gemiti dei feriti Giosafat si scosse dalla sua orazione e, memore di colui che da sé medesimo si fece incontro a suoi persecutori e si diè loro nelle mani pieno di coraggiosa rassegnazione, aprì la porta della sua camera presentandosi nel mezzo della sala dinanzi agli assassini che infierivano contro quegli innocenti e come il Figliuolo di Dio non isdegnò di dare con cuore sincero e pietoso il bacio di pace e il nome di amico a chi lo tradiva, il primo atto che fece il santo Pastore dinanzi ai suoi assassini fu d’invocare sopra di loro la divina Pietà e levati gli occhi e le mani al cielo li benedisse.
E chiamandoli figli in tuono mansueto, rivolse loro poche parole che quelle ricordano sì pietose del medesimo Redentore, in pro dei suoi discepoli e figliuoli disse: “Perchè cosi percuotete i miei familiari? Se avete alcuna cosa contro di me, eccomi sono nelle vostre mani“. E sì dicendo piegò le braccia a forma di croce e, vittima volontaria disposta al sacrifizio, in atteggiamento si pose di attendere ed accogliere i colpi. A quegli atti e a quelle parole ristettero attoniti e indecisi quei manigoldi, né si sapevano indurre a spingersi innanzi. Ma in quel mentre, correndo furiosamente, sopraggiungevano dalle vicine camere due altri assassini che gridando a piena gola “Ammazzatelo“, “Uccidetelo“, aggredirono il Servo di Dio immobile e raccolto come uom che ora e l’un di essi gli scaricò un fierissimo colpo di bastone sul capo venerando, l’altro con una scure, o bipenne polacca, gli aperse un’orrida e larga ferita sulla sacra fronte.
A quei colpi il Santo cadde tramortito a terra ed allora fu che non ebbe più ritegno il bestiale furore di quei sacrileghi, che tutti insultando e come menando trionfo furono addosso al santo Arcivescovo e urtandolo, percuotendolo con bastoni e con calci e pestandolo coi piedi facevano a gara a recargli dolore e scherno. Ma fra questi crudeli tormenti il santo Martire, che quasi estinto giaceva, alzò la destra e gemendo, “O mio Dio” esclamò. Perchè quegli avvedutisi lui essere ancor vivo, eccitandosi scambievolmente a finirlo, gli scaricarono alla testa un archibuso a due palle con che il Martire di Gesù Cristo esalò l’anima benedetta, crudelmente trafitto come il divin Redentore per mano di coloro che egli avea tanto amato, al cui bene consecrata avea tutta la vita di coloro che egli avea voluto congregare come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali ed essi non vollero.
A questo ultimo colpo urli di gioia infernale risuonarono d’ogni intorno e quegli scellerati, facendo festa e tripudiando e pur vogliosi di sfogare ancora il lor furore, non trovando più persone a straziare, s’avventarono alle cose, ed invasa l’abitazione, la sconvolsero e devastarono fracassando mobili, porte e finestre, derubando danaro robe e suppellettili, distruggendo libri e scritture e soprattutto, penetrati nella dispensa ed in cantina, si abbandonarono a gozzovigliare e bevazzare insultando al nome dell’ucciso Pastore. In breve tutta quanta l’abitazione fu posta a sacco e a ruba, recandovi un danno che nella sentenza poscia emanata contro questi assassini fu calcolato ascendere a 3079 fiorini polacchi.
[…] Non sazî ancora quegli scellerati delle commesse enormità, né soddisfatto abbastanza il loro odio infernale con la morte del santo Arcivescovo, ormai non trovando altro a devastare e depredare nel palazzo, tornarono ad insolentire contro il sacro cadavere del Martire e legatolo con fune, il trascinarono nel sottoposto cortile, ove era radunata la rimanente marmaglia che, non arditasi di ascendere al palazzo, attendeva lì strepitando e schiamazzando l’esito dell’assalto. Come furono a vista del popolo, levarono in alto il sacro corpo per mostrarlo e nel medesimo tempo insultando ripetevano: “Monsignore oggi è Domenica predicate predicate! Ecco il popolo che vi ascolta“. E si dicendo il lasciarono cadere di peso a terra Allora tutta quella plebaglia si fece addosso alla veneranda spoglia e nella maniera più barbara ed inumana la fecero segno d insulti e scherni che la penna rifugge dal descrivere minutamente e che appena trovano qualche raro riscontro nelle storie dei popoli più selvaggi.
Ultimi commenti