Nota di Radio Spada: dopo il secondo intervento della gentilissima Isabella Spanò ospitiamo una nuova risposta di cordiale critica, “Confutazione” in tedesco, di Attilio Sodi Russotto. In Radio Spada amiamo i dibattiti e le dispute, è notorio, e questo ulteriore intervento conferma che è possibile un confronto appassionato, rispettoso ma fermo, nonchè intonato alla difficoltà dell’ora che stiamo vivendo. Con questo intervento consideriamo concluso il dibattito da noi auspicato. Buona lettura!
Cordiale replica ad un bonario richiamo
di Attilio Sodi Russotto
Quale prosecuzione d’uno spinoso dibattito circa le più stringenti attualità sanitarie, ho avuto quest’oggi modo di leggere, con costernato interesse, la replica della signora Isabella Spanò alla mia “confutazione” del precedente suo intervento, pubblicato su questi stessi spazi poche settimane or sono. Il primo impulso è stato senz’altro quello di tralasciare, e rivolgere altrove la mia attenzione, ma a tal punto le risposte che mi son trovato a scorrere apparivano vergate in maniera deliberatamente capziosa e, mi si consenta, saccente, che ho ritenuto oltremodo necessario ritornare, per l’ultima volta, sul controverso argomento. Necessità, si badi bene, non finalizzata a convincere la signora, giacchè i panni del predicatore o del retore non mi si addicono affatto, bensì a chiarir meglio, agli occhi dei lettori di Radio Spada, una serie di punti da me precedentemente espressi, e che ritrovo adesso del tutto mischiati, confusi, distorti.
Determinata a non “lasciar andare minimizzatori e negatori per la loro strada”, la mia gentile interlocutrice, nell’intento di ammonire il sottoscritto, brandisce ancora una volta come una clava il presunto consenso “al 99%” dei sanitari italiani, relativamente ad un’assoluta pericolosità, o “cruenza”, come da lei scritto nel primo articolo, del Covid-19, a tale affermazione assommando un importante carico sentimentale, quello sul supposto eroismo di medici ed infermieri, impegnati ogni giorno a combattere il vile morbo fra gli sciagurati sollazzi di milioni di italiani goderecci ed inconsapevoli. Mi si perdoni la schiettezza, ma entrambe le retoriche lasciano veramente, ormai, il tempo che trovano.
Nessuno nega la gravità di quanto l’Italia ha attraversato nella scorsa primavera, né ho inteso farlo io nel mio intervento; tuttavia, semplicemente, non corrisponde a verità lo sbandierato consenso addirittura unanime della scienza riguardo alla pericolosità assoluta del virus. Già ho avuto modo, in questo dibattito, di menzionare Manzoni, e mi ripeterò: non ci troviamo dinanzi alla peste nera, che indistintamente colpisce, con la medesima mortalità, l’anziano, il bambino, Don Rodrigo ed il Griso, la madre e la sua piccola. Chi contraeva quel morbo, risvegliandosi al mattino con un “sozzo bubbone d’un livido paonazzo”, andava incontro a morte quasi certa, indipendentemente dalla sua età, dal suo stato di salute, dal suo ceto sociale; niente di tutto ciò si può, al contrario, riferire al presente Coronavirus.
Si muore di Covid-19, senza dubbio, ma chi muore, o chi riporta i sintomi più gravi della malattia, differentemente dalla realtà quotidiana della Milano secentesca è quasi sempre una persona anziana, o il cui fisico giace gravemente debilitato da ragioni compresenti. Se io dovessi risultare affetto da Coronavirus, se mia madre dovesse risultare affetta da Coronavirus, se la stessa signora Spanò dovesse risultare affetta da Coronavirus, verosimilmente il comune decorso sarebbe quello d’un raffreddore, o d’una brutta influenza, o al massimo d’una polmonite, o magari ancora finiremmo annoverati nel gruppo dei tantissimi asintomatici, che ad oggi costituiscono la stragrande maggioranza dei positivi. Se anche una quantità di italiani ben superiore all’attuale venisse lambita da un virus ormai non di poco indebolito, le percentuali non varierebbero, ed a morire sarebbero sempre anziani e pazienti con situazioni fisiche fragili o compromesse. Voglio, in tutta fede, rassicurare chi legge: l’Italia non morirebbe di Coronavirus, neppure se, mi fido sulla parola, la sua morbilità fosse “20 volte superiore” al tasso di contagio della normale influenza stagionale.
Chi scrive, ha una nonna a cui vuole moltissimo bene, e che lo scorso 27 novembre ha felicemente compiuto 88 anni. Di tutto cuore, auguro a colei che per me è stata letteralmente una seconda madre di viver con noi altri vent’anni, e di viverli in buona salute, ma se, Dio non voglia, ella dovesse esalare l’ultimo respiro dei suoi giorni, non potrei certo accusar la sua morte d’esser sopraggiunta furtiva e prematura.
Mia nonna ha vissuto una lunga vita, colma di esperienze e soddisfazioni. All’età di venticinque anni, era infatti già sposata con mio nonno, dal quale, purtroppo, quest’anno s’impongono a separarla quindici anni di vedovanza, aveva già dato alla luce due dei tre figli, si era trasferita in Toscana dal natio Veneto, e godeva d’una completa stabilità economica (lei, insegnante elementare di ruolo, il marito, militare di carriera). Sì, in gioventù dovette attraversar la guerra, e non le son mancati, qua e là, incerti, dispiaceri, problemi di varia natura, ma tutto sommato le è stato dato di percorrere un cammino piacevole, che non l’ha veduta navigar nell’oro, ma neanche soffrire della fragilità d’una precaria contingenza. Se anche non dovesse contrarre il Covid-19, mia nonna potrebbe morire per una delle tantissime cause che concorrono solitamente nel decesso d’un vecchio: un femore rotto, un colpo di caldo in estate, un ictus. Tutti lo sappiamo, e senz’altro dobbiamo accettarlo.
Se la morte, volenti o nolenti, è un aspetto caratteristico della senescenza, è la vividezza d’una vita piena ad esserlo invece della gioventù. “Jugend ist Trunkenheit ohne Wein”, scriveva Goethe nei suoi Gedichte, la gioventù è ebbrezza senza vino. La gioventù è viver l’istante pensando al futuro, e viverlo con i propri simili, intorno ai propri simili, abbracciati ai propri simili. La gioventù è un brindisi al pub, un braccio teso a reggere il compagno durante un’arrampicata in montagna, un’esultanza in compagnia allo stadio, un viaggio con gli amici, uno sdraiarsi ad ammirare il cielo stellato, mano nella mano con la donna amata. Parlo spesso con mia nonna, e sovente mi narra come perfino sotto le bombe i ragazzi del suo villaggio trovassero il modo di vivere in compagnia, sognando un domani fulgido ed umanamente ricco. A me, purtroppo, tutto questo è impedito, e sono la signora Spanò, e chi si posiziona sulla sua medesima linea, ad impedirmelo ottusamente.
La mia gentile interlocutrice cita “Far From the Madding Crowd”, romanzo di Thomas Hardy da cui Thomas Vinterberg ha tratto uno dei suoi film più celebri; lo cita per quella “pazza folla” del titolo, tralasciando che di ben altro trattano quelle pagine. Al fine di rendere l’immagine d’una folla indistinta ed omologante, ben più adeguato sarebbe il racconto “The Man of the Crowd”, di Edgar Allan Poe. A chi è assimilabile quell’uomo terrorizzato, solo fin nel midollo eppure perennemente in mezzo al niente multiforme, “who is alone and yet never alone”? Al giovane che vuole viver la sua vita – e non mi si racconti che Woodstock rappresenta l’unica via per un giovane di dispiegare la propria gioventù – oppure al giovane già vecchio, di cui questo presente asettico ha completato la creazione?
Contrariamente a ciò di cui sembra esser persuasa la signora Spanò, il Coronavirus non è che l’ultima coda d’un processo in corso già da lungo tempo, volto a creare legioni di giovani “soli ma mai soli”, giovani dipendenti ed insicuri, capaci di passare con facilità dalla folla informe e becera alla piazza virtuale e rimanervi, entrambi gli ambienti accomunati dalla medesima, rassicurante indeterminatezza. Dovrebbe sapere, la signora, che proprio questi giovani, privi d’ideali, di volontà, di forza, sono coloro che meglio si sono adattati alle nuove regolamentazioni, terrorizzati dal contagio e più che disposti a trasferire il loro nulla sul proprio divano, e da lì su internet, sui siti pornografici (i cui accessi hanno subito un’impennata epocale), su Amazon (i cui affari vanno a gonfie vele), nella dispensa colma di cibo spazzatura, nell’armadietto del bagno, strapieno di psicofarmaci, antidepressivi ed ansiolitici. Per questi giovani, svuotati d’ogni fuoco da un sistema che li odia, un anno, due anni, vent’anni nelle presenti condizioni non costituiscono alcuna differenza; per i giovani che, invece, alla propria gioventù son decisi a rendere onore, anche un solo mese costretti a vegetare senza motivo costituisce un affronto ingiusto, malvagio ed intollerabile.
Sbaglierò, ma ritengo che, in fondo, la mia gentile interlocutrice odi la gioventù come condizione umana. Non ne so il motivo, come non conosco le sue abitudini quotidiane, ma leggendo questa sua seconda risposta sono ancor più convinto che nei confronti dei giovani ella provi un’antipatia inconfessabile ma evidente, che si dispiega in quello che soltanto all’apparenza comparirebbe quale mero snobismo. Ne sono convinto: quello della mia gentile interlocutrice, e dei tanti che sul suo pensiero si attestano, è un sicuro astio, provato da chi forse non è riuscito, nel corso della propria vita, a sperimentare quell’”ebbrezza senza vino” di cui parlava Goethe, e vorrebbe sottrarla, per ripicca, a chi viene dopo, cercato da chi magari non ha saputo costruirsi quella giovane, fatidica serenità incediaria, che adesso, con il pretesto del Coronavirus, vorrebbe vedersi spegnere nell’altrui età verde, laddove la propria già appare irrimediabilmente trascorsa da un po’.
Non me ne voglia la signora Spanò, ma non finirà come lei descrive, o più probabilmente, come lei spera. Io non mi lascerò sottomettere dal terrore del contagio, non mi lascerò sopraffare dall’idolatria del sopravvivere, non mi farò soggiogare dal perbenismo di una generazione passata che, per viltà, insipiscenza, opportunismo o malavoglia, ha trasformato molti rappresentanti della mia in zombie tremebondi. Combatterò: per la donna che un giorno sarà la madre dei miei figli, e che vorrò amare del più dolce, gioioso, ed iridescente degli amori, per i miei bambini, che cresceranno sani, lontani dall’illusorio schermo di un computer, ed ignari di cosa sia un disinfettante, per la mia stessa gioventù, donatami da Dio, dalla natura, dal fato, e che retta coscienza mi impone inderogabilmente di far brillare.
Non so se la mia gentile interlocutrice abbia mai osservato un branco di lupi. In testa, a scandire il ritmo della marcia, ed in coda, a vegliare su ogni pericolo, i maschi alfa, gli esemplari più giovani e forti; nell’esatto mezzo, gli anziani e i deboli, protetti, accuditi, sorvegliati, ma interdetti a rovesciare e far pesare la propria debolezza sull’altrui vigore. Così ha sempre funzionato l’umana Gemeinschaft, e non sarà certo un virus a stravolger per sempre le imperiture leggi di natura. Io non mi arrendo, non mi fermo, non mi chiudo in casa; io procedo, verso la luce che prima o dopo si manifesterà in fondo a questo tunnel creato da altri, forte d’una gioventù “con buone gambe, e con tanta voglia di camminare”.
Fonte immagine: Leo2014 pixabay
Che bel testo, che piacere è stato leggerlo, ringrazio l’autore.
Perfettamente d’accordo!
Grazie Attilio! Da “isolato Covid” causa “tampone positivo” (?) mi fai capire meglio come mai vado a scuola sempre più felice, ormai prossimo ai 60 anni… perché SO PER CERTO che su quei banchi ammiccherà al futuro buono che vuoi qualche ragazzo come te, qualche ragazza con gli occhi ancora luminosi e la cui anima guiderà al Bene altri come te …come noi
Bravo Attilio! Sperando che sboccino ragazzi come te vado ancora in classe a quasi 60 anni, pieno di allegria