Nota di Radio Spada: Cominciamo oggi, con animo grato, la pubblicazione di un saggio dell’ottimo e carissimo studioso Guido Ferro Canale, amico di Radio Spada, sul contenzioso in atto riguardo le recenti elezioni presidenziali americane. Il saggio si snoderà in cinque puntate che saranno pubblicate nei prossimi giorni sempre alle ore 21. Inutile dire che la competenza e l’acribia del nostro scrittore (lui sì un vero competente dal sapere non raccogliticcio) rendono la fruizione di questo saggio godibile ed impegnativa al contempo. A tutti voi buona lettura! (Piergiorgio Seveso, Presidente SQE di Radio Spada)

THE most complicated bit of governmental machinery which

                                                            the modern world has to exhibit is that which is employed

                                                            in the selection of the chief executive officer and his possible

                                                            substitute for the United States.

[J.W. Burgess, The Law of the Electoral Count, incipit][1]

Le controversie intorno alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti hanno suscitato, presso il pubblico italiano, una notevole perplessità, sia quanto a metodi di voto completamente alieni dalla nostra esperienza (Spedire le schede per posta?! Timbrarle con le macchine?! Farle leggere ai computer?!), sia per la notevole difficoltà di comprendere, o anche solo di inquadrare, i termini giuridici del problema, o dei problemi. I mezzi di informazione, purtroppo, non si può dire che siano stati di molto aiuto… e così, dopo essermi fatto un’idea per conto mio (soprattutto rispetto ai problemi giuridici, data la mia formazione), ho ritenuto opportuno mettere insieme e condividere un quadro generale.

Anzi, dovrei dire un doppio quadro generale.

La prima parte, senza troppe pretese a parte chiarezza e sinteticità, presenta quelle caratteristiche della Costituzione americana e della legislazione elettorale che sono indispensabili per comprendere i meccanismi istituzionali in gioco e i termini delle diverse contestazioni, soprattutto in sede giudiziaria.

La seconda parte passa in rassegna, Stato per Stato, le iniziative legali finora assunte, riassume i termini delle questioni e fornisce, ogniqualvolta mi sia riuscito di rintracciarli, link agli atti processuali, alle sentenze e/o agli elementi di prova forniti dalle parti.

Io non sono affatto un esperto di diritto statunitense, tantomeno al livello che servirebbe per poter esprimere opinioni informate su argomenti così complessi; ho quindi mantenuto al minimo i commenti personali, cercando altresì di esprimerli sempre in termini sfumati come “mi sembra”. Lo scopo di quest’articolo è essenzialmente informativo; le valutazioni spettano, rispettivamente, al pubblico e, semmai, agli organi che, Oltreoceano, hanno il potere di decidere. Spero, tuttavia, che il lettore – anche se magari resterà della stessa idea che già aveva prima – troverà utile e informativo il materiale presentato in quest’articolo.

Parte prima

Il quadro costituzionale e federale per la disciplina delle elezioni

Premessa generale

Due concetti sono fondamentali per capire la Costituzione statunitense così com’è stata scritta:

  1. gli Stati Uniti sono appunto un’unione di Stati. Altrimenti detto, ciascuna delle tredici colonie, al momento della dichiarazione di indipendenza, è divenuta uno Stato sovrano; esse si sono quindi federate e, ratificando la Costituzione del 1787, hanno ceduto ad un governo centrale un elenco tassativo di poteri (enumerated powers), conservando però la sovranità in ogni altro ambito.[2]
  2. Almeno nelle intenzioni dei fondatori, essi debbono essere una repubblica, non una democrazia. Differenza fondamentale, giacché, nella loro filosofia politica comune, “democrazia” aveva ancora l’accezione negativa di Aristotele: la forma di governo degenerata, il dominio delle masse, l’anticamera della tirannide. Viceversa, il termine “repubblica” richiamava semmai l’antica repubblica romana, con un elemento elettivo accompagnato, però, da un suffragio non universale bensì censitario, una ponderazione dei voti, un equilibrio di poteri ripartiti tra vari centri di attribuzioni, e così via; al posto del patriziato come aristocrazia del sangue, si vagheggiava l’emersione di un’aristocrazia delle capacità pratiche e delle doti morali, una classe dirigente ben radicata negli ambiti locali e pronta a porsi al servizio della nazione.[3]

Da ciò derivano alcune conseguenze di notevole rilievo.

Anzitutto, accanto alla Costituzione federale, alle leggi e ai giudici federali, esistono una Costituzione, un apparato di leggi e un sistema giudiziario per ciascuno dei cinquanta Stati.

In linea di principio, le controversie sulle leggi statali competono alle Corti statali, mentre quelle federali si occupano delle leggi federali e/o del contenzioso tra cittadini di Stati diversi; ma nella pratica, ovviamente, càpita spesso che un tribunale statale debba fare riferimento a norme federali, e viceversa. In questi casi, in linea di principio viene recepita l’interpretazione che di quelle norme ha dato il potere giudiziario competente; però con un limite, perché la Costituzione e le leggi federali prevalgono su quelle statali, dunque le Corti federali non possono mai recepire una norma statale che, per come applicata, si tradurrebbe in una violazione della Costituzione federale.

Una stessa causa può sollevare sia problemi relativi alle leggi o alla Costituzione di uno Stato, sia analoghe questioni di diritto federale. Tendenzialmente, l’accesso alle Corti federali presuppone che si esauriscano, prima, i rimedi disponibili in ambito statale; ma non si tratta di una regola assoluta.

Sia a livello statale sia a livello federale, inoltre, predomina un concetto di separazione dei poteri assai più rigido di quello cui siamo abituati noi, perché manca qualcosa di analogo al nostro principio di leale collaborazione[4] e perché non ci sono organi in qualche modo comuni ai tre poteri. Più radicalmente, la creazione di mura invalicabili tra legislativo, esecutivo e giudiziario è considerata vitale per l’ordine costituzionale, per prevenire la tirannide, ossia la prevaricazione di uno dei tre poteri sugli altri due. Non necessariamente l’esecutivo: i fondatori non si fidavano troppo neppure del Parlamento, possibile espressione e strumento del temuto dominio delle masse, e infatti gli hanno sottratto il controllo sulle forze dell’ordine e i magistrati inquirenti, che rientrano nell’esecutivo; ma quest’ultimo non ha il controllo del bilancio, né una leva fiscale a sé (o almeno non l’aveva prima dell’indebitamento illimitato; questa però è un’altra storia); e il potere giudiziario ha l’ultima parola sull’interpretazione delle leggi, che non viene lasciata né all’esecutivo né allo stesso potere legislativo (salvo che legiferi ex novo, ovviamente), proprio perché è ritenuto il meno pericoloso, “the least dangerous branch” secondo la celebre espressione di Alexander Hamilton, in quanto non dispone né della spada né della borsa con i soldi.

Perciò, in particolare il potere giudiziario ha una sfera di intervento circoscritta a “cases” e “controversies”: termini della Costituzione federale su cui si è venuta a creare tutta una costruzione interpretativa per spiegare chi possa, o non possa, intentare un giudizio presso le Corti federali, allo scopo di evitare che esso dia ingresso ad una “political question”, come tale sottratta alla competenza dei giudici. E va notato che da noi l’omologa “questione politica” evoca immediatamente le prerogative del Governo, ma presso gli Stati Uniti quelle del Congresso (anche se ovviamente, qui come lì, pure l’altro potere ha una sfera di attribuzioni insindacabile): political in senso stretto è ciò che riguarda il regime della polis, da decidersi dunque nella sede appropriata, quella rappresentativa.

Armati, per quanto possibile, di questo bagaglio concettual-costituzionale, possiamo passare ad occuparci delle norme che la Costituzione dedica alle elezioni federali e specialmente alle presidenziali.

Le norme costituzionali pertinenti

La Costituzione americana si divide in Articles, sections e clauses, ma – è bene chiarirlo subito – l’Article non è in alcun modo assimilabile al nostro “articolo” di legge, pur essendo un “blocco” di testo unitario; ad es., l’Article I (per essi si usa la numerazione romana) contiene tutta la disciplina del potere legislativo, il II dell’esecutivo, il III del giudiziario, materie che nella Costituzione italiana corrisponderebbero almeno ad un “Titolo”. Appunto per la loro estensione sono suddivisi in sections, caratterizzate da una più stretta unità tematica (e numerate in cifre arabe), mentre le clauses, sebbene a loro volta contraddistinte da una numerazione araba che ricomincia ad ogni section, sono più conosciute con un nome che ne indica sinteticamente il contenuto.

Nel nostro caso, le clauses rilevanti sono due:[5] la Elections Clause e la Electors Clause. La prima regola le elezioni del Parlamento, quindi sta nell’Article I, mentre l’altra si trova nell’Article II perché disciplina le elezioni presidenziali. La loro struttura, però, è molto simile e così pure la loro interpretazione.

Elections Clause: “I tempi, i luoghi e i modi in cui si terranno le elezioni dei Senatori e dei membri della Camera dei Rappresentanti saranno stabiliti, in ciascuno Stato, dal rispettivo Patlamento; ma il Congresso può, in qualunque momento, dettare o cambiare mediante leggi tali regole, eccezion fatta per i luoghi per la scelta dei Senatori” (Art. I sec. 4 cl. ).[6]

Electors Clause: “Ciascuno Stato designerà, nel modo che potrà stabilire il suo Parlamento, un numero di Elettori pari alla somma dei Senatori e dei membri della Camera dei Rappresentanti cui lo Stato avrà diritto nel Congresso; ma non sarà designato come Elettore nessun Senatore o membro della Camera dei Rappresentanti, né alcun soggetto che ricopra una carica fiduciaria o remunerativa  nel governo degli Stati Uniti.

[…]

Il Congresso potrà stabilire il tempo in cui gli Elettori saranno scelti e il giorno in cui esprimeranno i loro voti; giorno che sarà lo stesso per tutti gli Stati Uniti.” (Art. II sec. 4 cl. 2 e 4).[7]

Una prima particolarità riguarda l’assenza di una menzione del diritto di voto: diversamente dalle Costituzioni contemporanee, quella americana non contiene una “carta dei diritti” (approvata solo in seguito: v. oltre), perché questi si credevano già garantiti a sufficienza dalle Costituzioni statali. Qui però vi è anche un’altra ragione: il Congresso degli Stati Uniti, quanto alla disciplina costituzionale originaria, è frutto del “grande compromesso” tra chi lo concepiva come un Parlamento di Stati e chi invece desiderava una rappresentanza popolare diretta; la Camera detta appunto “dei Rappresentanti” viene quindi eletta “dal Popolo” e conta un numero di componenti variabile nel tempo, perché deve restar proporzionale agli abitanti di ogni Stato (il limite è di uno ogni trentamila); il Senato, invece, conta sempre due membri per ciascuno Stato – un’eguaglianza sottratta addirittura alla possibilità di revisione costituzionale – e, in consapevole emulazione dell’antica Roma, esprime pareri vincolanti sugli affari principali, compresa la nomina dei giudici federali. Si tratta tuttora della “Camera degli Stati”, anche se i senatori non sono più eletti dai Parlamenti statali, come avveniva fino al 1913, quando il Diciassettesimo Emendamento ha esteso anche ad esso il principio dell’elezione popolare.

Va peraltro precisato che i singoli Stati, secondo la Costituzione originaria, restavano liberi di definire come meglio credevano sia la concessione della cittadinanza (statale) sia l’elettorato attivo: sebbene il testo parli di una cittadinanza “degli Stati Uniti”, non definisce né i criteri della sua attribuzione né il rapporto con quella degli Stati, lacuna che comportò notevoli problemi rispetto p.es. allo status degli schiavi emancipati. La Costituzione si è limitata a dire che, in ogni Stato, gli elettori della Camera dei Rappresentanti dovevano coincidere con quelli del ramo più ampio del Parlamento locale, cioè in genere dell’omologo statale; sono occorse svariate modifiche costituzionali per introdurre il suffragio universale, prima maschile e poi femminile, fissare un’età minima comune a diciott’anni, vietare l’esclusione del diritto di voto per motivi razziali o la sua subordinazione al pagamento di una tassa. Nulla era più alieno del suffragio universale dal pensiero dei fondatori: il loro concetto di “rappresentanza parlamentare” non richiedeva necessariamente che tutti i “rappresentati” avessero il diritto di elettorato attivo, restava in qualche modo mediato dalla comunità di appartenenza.[8]

E lo si vede anche rispetto alla competenza sulla legislazione elettorale, recata dalle due clausole in commento.

Di per sé, infatti, le elezioni federali dovrebbero essere disciplinate a livello federale;[9] ma, in considerazione delle notevoli differenze che esistevano fra i tredici Stati originari quanto a geografia, densità di popolazione, metodi elettorali etc., i fondatori hanno optato per la delega di questi poteri al singolo Stato da parte della Costituzione federale. Lo Stato dunque, in questi casi, non esercita la propria sovranità, ma un potere che riceve dall’Unione, è funzionale alla medesima e non potrebbe – evidentemente – esistere fuori di essa.

Nelle elezioni del Congresso, tuttavia, si prevede un potere di intervento della legislazione federale per modificare le discipline dei singoli Stati, sostituirle o anche creare regole ex novo; i poteri delegati possono quindi essere ripresi (e poi magari nuovamente elargiti) nella misura di volta in volta ritenuta più opportuna dal Parlamento della federazione.

Per quanto concerne, invece, l’elezione del Presidente, una volta scartata l’opzione di affidarla al Congresso (perché gli Stati Uniti, diversamente dall’Italia, non subordinano il potere esecutivo al legislativo), si è scelto di affidarla ad elettori appositamente designati. Colloquialmente si parla di “Grandi Elettori” e di “Collegio elettorale”, ma la Costituzione dice solo “Elettori”. Il loro numero è pari a quello dei componenti il Parlamento federale, che a sua volta è proporzionale alla popolazione (totale e) dei singoli Stati; oggi sono in tutto 538. La loro designazione avviene nei modi stabiliti dai singoli Stati e il potere di intervento del Congresso appare più limitato: può disciplinare i tempi in cui gli Elettori saranno scelti, non però il modo o i luoghi, e soltanto del giorno in cui gli Elettori scelgono il Presidente si dice che dev’essere lo stesso in tutti gli Stati Uniti. Norma che si spiega con il fatto che essi non si radunano tutti insieme per votare, come avverrebbe se fossero un collegio propriamente detto, ma si riuniscono distintamente per ciascuno Stato ed esprimono i voti elettorali spettanti a quello Stato.

La Costituzione nulla prescrive sul metodo di designazione degli Elettori, che potrebbero anche essere nominati, oppure eletti dai Parlamenti degli Stati, etc; la questione è in mano agli Stati, poiché si tratta di eleggere il Presidente di un’Unione di Stati.

Da lungo tempo, tuttavia, si è affermato il metodo per cui si tengono elezioni popolari, sulle schede compare (quasi sempre) il nome dei candidati presidenti, non quello degli Elettori, che è contenuto in liste preparate dai vari partiti; i Parlamenti dei singoli Stati hanno legiferato nel senso di rendere obbligatoria la nomina degli Elettori indicati dalla lista che prende più voti in quello Stato. Nomina che a volte spetta sempre agli organi legislativi, altre volte è stata delegata al Governatore. Ma, nonostante la prassi consolidata, non esiste alcun diritto, per il popolo, di partecipare all’elezione del Presidente: ciò che il Parlamento statale ha accordato, il Parlamento statale può portar via, come la Corte Suprema ha chiarito nel caso Bush v. Gore.

Tuttavia, alcuni Stati hanno legiferato nel senso di vincolare la designazione degli Elettori all’esito del voto popolare, non nel singolo Stato, ma a livello nazionale, perché può succedere (ed è successo nel 2016) che l’attribuzione dei voti elettorali con il metodo “pigliatutto” faccia vincere, in definitiva, il candidato che ha preso meno voti dai cittadini. Due Stati, il Maine e il Nebraska, assegnano gli Elettori secondo il metodo proporzionale, che pare fosse il più usato al tempo dei fondatori e che eviterebbe il problema (che poi è un problema solo in termini di legittimità democratica percepita); ma ciascuno Stato resta libero di regolarsi come crede.

Di conseguenza, a rigore non esiste una singola elezione presidenziale, bensì cinquanta elezioni con regole diverse, anche se spesso molto simili, che portano i diversi Stati a designare gli Elettori. Il Congresso ha stabilito un c.d. Election Day, disponendo fin dal 1845 che gli Elettori vengano scelti il martedì successivo al primo lunedì di novembre (quest’anno, il 3), e ha anche fissato il giorno in cui essi debbono eleggere il Presidente, cioè il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre (che nel 2020 corrisponde al 14); ma queste sono più o meno tutte le norme uniformi pertinenti. Tuttavia, siccome l’Election Day di fatto coincide con una delle elezioni periodiche per il rinnovo parziale del Congresso, indirettamente diventano applicabili, almeno de facto, anche le norme dettate per queste ultime.

Di recente, alcuni Stati hanno accordato agli elettori la possibilità di votare in anticipo, aprendo i seggi anche diversi giorni prima di quello stabilito (early voting); ci si interroga sulla compatibilità di tali norme con la legge federale che fissa l’Election Day, lasciando semmai aperta, per il Congresso, solo la possibilità che gli Stati prevedano ballottaggi successivi (è il caso della Georgia, che perciò stavolta deve eleggere i propri senatori il 5 gennaio 2021). Che io sappia, non c’è ancora un precedente specifico; ma nel caso Foster v. Love, 522 U.S. 67 (1997), la Corte Suprema ha stabilito – all’unanimità – che le “primarie aperte” della Louisiana, che nonostante il nome anticipavano l’elezione federale, perché se un candidato al Congresso otteneva la maggioranza lo si considerava eletto senz’altro, erano incostituzionali per violazione dell’Election Day, chiarendo altresì che l’uniformità assicurata da quest’ultimo serve ad evitare due inconvenienti, ossia l’influsso che il voto anticipato potrebbe avere sugli elettori degli altri Stati e, per quelli dello Stato in questione, il sacrificio di dover votare due volte se nessun candidato ottiene la maggioranza alle “primarie”. E in effetti il caso nasceva proprio da un’iniziativa di cittadini della Louisiana che si sentivano gravati.

Ricorre, invece, fin dai primi anni della Repubblica federale il caso del cosiddetto “faithless Elector”, che esprime cioè un voto diverso da quello che dovrebbe. Di fatto, questi voti sono sempre stati ritenuti validi e sono rimasti casi isolati, non hanno mai cambiato l’esito di un’elezione; ma siccome la Costituzione parla di “Electors”, deve intendersi che essi abbiano appunto il potere di scegliere.

Nondimeno, la Corte Suprema ha chiarito che questo potere esiste solo finché e nella misura in cui gli Stati non dispongano diversamente: dopo aver dichiarato costituzionale già nel 1952 la previa richiesta ai potenziali elettori di un impegno formale a votare secondo le norme previste da quello Stato, solo quest’anno, nel caso Chiafalo v. Washington, 591 U.S. ___ (2020) – uno strascico delle presidenziali 2016 – ha determinato, oltretutto con voto unanime, che gli Stati hanno il potere di sostituire il faithless Elector, di annullare il suo voto e perfino di sanzionarlo; in altre parole, il fatto che lo si chiami “Elettore” non vincola gli Stati a lasciargli quella libertà di scelta che caratterizza, di norma, le elezioni e che egli possiederà solo in mancanza di leggi statali contrarie. Attualmente, però, gli Stati hanno espressamente legiferato nel senso di sostituire o sanzionare questi Elettori sono ancora pochi, quindici, sebbene ben trentatré richiedano loro un impegno a seguire il voto popolare (in genere, nel singolo Stato, salve le eccezioni suddette).[10]


[1]    J.W. Burgess, The Law of the Electoral Count, in Political Science Quarterly 3 (1888), pagg. 633-53.

[2]    Senza dubbio, nel corso del tempo il governo federale ha ampliato enormemente la propria sfera di intervento; ma, a livello costituzionale, ciò non altera il quadro descritto nel testo, perché a tal fine sono state decisive le clausole “elastiche” della Costituzione, cioè i poteri espressamente conferitigli per regolare il commercio tra gli Stati (“Commerce Clause”) e di adottare qualunque misura necessaria ed appropriata per l’esecuzione dei poteri attribuiti (“Necessary and Proper Clause”), oltre ovviamente alla supremazia della Costituzione e delle leggi federali su quelle dei singoli Stati (“Supremacy Clause”). Praticamente qualunque fenomeno economico-sociale di rilievo comporta un qualche impatto sul commercio tra gli Stati; e per questa via, oltreché mediante un deciso ridimensionamento del divieto di intervenire sul contenuto dei contratti (“Contracts Clause), si sono legittimate più o meno tutte le misure del New Deal rooseveltiano, o la creazione di un lunghissimo elenco di reati federali.

[3]    Non va dimenticato, peraltro, che la figura del cittadino-soldato, centrale nell’immaginario settecentesco sulla Repubblica Romana, faceva parte integrante di questo quadro e sta alle origini del Secondo Emendamento.

[4]    Quindi, per esempio, uno Stato può sabotare una politica del governo federale rifiutandosi di collaborare alla sua applicazione: è il caso delle cosiddette “sanctuary cities” che offrono rifugio agli immigrati non in regola.

[5]    Lascio non tradotto il termine clause, perché l’italiano “clausola” viene applicato solo in ambito contrattuale, mentre “comma”, che si usa normalmente per i testi legislativi, indica un’unità testuale tipografica, non contenutistica. Più in generale, diffido e metto in guardia il lettore dalla ricerca di facili equivalenti: l’impiego dei termini stranieri così come stanno vuol essere anche un utile promemoria della distanza che ci separa dall’ordinamento in esame.

[6]    “The Times, Places and Manner of holding Elections for Senators and Representatives, shall be prescribed in each State by the Legislature thereof; but the Congress may at any time by Law make or alter such Regulations, except as to the Places of chusing Senators.

[7]    “Each State shall appoint, in such Manner as the Legislature thereof may direct, a Number of Electors, equal to the whole Number of Senators and Representatives to which the State may be entitled in the Congress: but no Senator or Representative, or Person holding an Office of Trust or Profit under the United States, shall be appointed an Elector. […] The Congress may determine the Time of chusing the Electors, and the Day on which they shall give their Votes; which Day shall be the same throughout the United States.

[8]    Non a caso, anche il celeberrimo “We the People” iniziale non è l’autoaffermazione di un popolo unitario, ma è stato scritto solo perché ancora non si sapeva quali Stati avrebbero accettato di ratificare la Costituzione: andrebbe letto “We the (People of the United) States”.

[9]    Non si tratta, infatti, di poteri o funzioni originari degli Stati, ma di qualcosa che nasce insieme con l’Unione, appartiene al funzionamento di essa e quindi sottostà a regole comuni; con l’ulteriore, specifica conseguenza che gli Stati vi possono intervenire solo per delega da parte della Costituzione federale. Così la Corte Suprema in Bush v. Palm Beach County Canvassing Board, 531 U.S. 70 (2000).

[10]  Cfr. T. Goldstein, The Supreme Court, faithless electors, and Trump’s final, futile fight, su SCOTUSblog, 28 novembre 2020.

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