Nota di Radio Spada: Completiamo, con animo grato, la pubblicazione di un saggio dell’ottimo e carissimo studioso Guido Ferro Canale, amico di Radio Spada, sul contenzioso in atto riguardo le recenti elezioni presidenziali americane. Il saggio si è snodato in cinque puntate che sono state pubblicate in questi giorni sempre alle ore 21. Inutile dire che la competenza e l’acribia del nostro scrittore (lui sì un vero competente dal sapere non raccogliticcio) rendono la fruizione di questo saggio godibile ed impegnativa al contempo. L’autore nel frattempo, dati gli ulteriori sviluppi, ha aggiunto un nuovo articolo: https://www.radiospada.org/2020/12/il-gambetto-di-honolulu-ovvero-che-succede-in-america/

A tutti voi buona lettura e buona Novena di Natale! (Piergiorgio Seveso, Presidente SQE di Radio Spada)

Prima parte: https://www.radiospada.org/2020/12/la-disputa-sulle-elezioni-americane-materiali-e-informazioni-per-il-lettore-curioso-prima-parte/

Seconda parte: https://www.radiospada.org/2020/12/la-disputa-sulle-elezioni-americane-materiali-e-informazioni-per-il-lettore-curioso-seconda-parte/

Terza parte: https://www.radiospada.org/2020/12/la-disputa-sulle-elezioni-americane-materiali-e-informazioni-per-il-lettore-curioso-terza-parte/

Quarta parte: https://www.radiospada.org/2020/12/la-disputa-sulle-elezioni-americane-materiali-e-informazioni-per-il-lettore-curioso-quarta-parte/

Ulteriori questioni controverse

Di fronte alle lacune normative, il giurista spesso ricorre non ad una norma specifica da applicarsi per analogia, ma ad una pluralità di norme da cui desume un principio, che secondo lui deve fare da regola generale e operare anche in quel caso. Gli interpretati dell’Electoral Count Act hanno fatto ricorso proprio a questa tecnica… ma, disgraziatamente, hanno finito per individuare princìpi diversi. Il che non deve stupire, trattandosi veramente di massimi sistemi.

Ad esempio e per prima cosa, lo stesso dubbio se esista un potere di verifica dei voti, oltreché di semplice conteggio, solleva il problema dell’esistenza di “poteri impliciti” conferiti dalla Costituzione al Governo federale, esistenza ammessa dalla Corte Suprema fin dal tempo di John Marshall, ma costantemente attaccata dai fautori del federalismo, sulla scorta del Decimo Emendamento… è forse la questione non può mai essere risolta una volta per tutte, forse la forza e insieme la debolezza strutturale del federalismo sta nel modo in cui si riassesta ad ogni oscillazione del pendolo della Storia verso il centralismo o il localismo.

Chi nega un simile implied power e/o non lo ritiene conferito come antecedente logico del count,[1] chiaramente, riterrà incostituzionale qualunque sindacato sulle designazioni da parte degli Stati, salvo forse qualche caso-limite in cui davvero non si sa se la nomina provenga o sia attestata dall’autorità legittima; però l’Electoral Count Act non sposa questa teoria e rende pur sempre possibile superare anche la final determination delle controversie assunta in sede statale.

Ritenuto sussistente, invece, il potere di verifica, da sempre si contendono il campo ben cinque teorie diverse sulla sua titolarità: di volta in volta esso spetterebbe 1) al Presidente del Senato, 2) alla Camera dei Rappresentanti per i voti presidenziali, al Senato per i vicepresidenziali, 3) al Senato e alla Camera che votano per teste, 4) al Senato e alla Camera, ma con un voto ciascuno; 5) infine, 5) a nessuno, finché il Congresso non lo attribuisca mediante legge o Joint Rule.[2]

Quest’ultima teoria, a mio avviso, ha dalla sua un forte argomento testuale, perché l’indifferenza mostrata dal Dodicesimo Emendamento fa pensare ad un “saranno contati” nel senso di “secondo la normale procedura parlamentare” (ed è certo significativo che gli episodi del 1797 e del 1801 non abbiano indotto un supplemento di riflessione al riguardo). Ma è perfino inutile soppesare gli argomenti: se mai deciderà qualcuno, sarà il Congresso… e non deciderà perché convinto dalla forza delle argomentazioni.

Dopotutto, la legge si fonda sulla quarta teoria, magari con concessioni alla quinta; però sarebbe molto difficile convincere il Congresso a rispettarla, se si convincesse – o si volesse convincere – della sua incostituzionalità. Perfino se le Corti accettassero di farsi coinvolgere, il che appare ben poco probabile, il risultato del braccio di ferro sarebbe oltremodo incerto. In questo senso, l’Electoral Count Act sconta in permanenza il prezzo di essere stato approvato, bon gré mal gré, senza che i suoi princìpi fondativi fossero stati messi fuori discussione mediante un emendamento costituzionale.     

Non vi sarebbe motivo di accennare a queste teorie, salvo forse la completezza della trattazione, se esse non rispuntassero regolarmente ad influenzare i tentativi degli interpreti di colmare le lacune del testo. Ad esempio, per Siegel il principio generale è il bicameralismo inteso come eguaglianza delle due Camere, che si traduce in un potere di veto dell’una rispetto all’altra; e quindi egli ritiene che, in caso di dubbio, il rispetto della Section 2 vada dichiarato – non già negato! – con votazione convergente;[3] Kesavan ragiona in modo diametralmente opposto, ritenendo incostituzionale la legge proprio per l’eguaglianza che istituisce tra le due Camere quando, a suo avviso, la Costituzione esclude il Senato da ogni apprezzamento sull’elezione presidenziale;[4] e non è difficile immaginare un interprete che, privilegiando la statualità della designazione ai sensi della Electors Clause, sarà semmai incline a presumere che quella che si presenta come una final determination documentata sia veramente tale, e dunque a concludere che il voto concorde serve invece per negarle tale qualità; il ruolo dirimente attribuito, almeno in qualche caso, ai documenti di nomina, che obiettivamente hanno un valore inferiore, senza dubbio fornisce un buon argomento a fortiori.[5]

Ci si può chiedere se, in concreto, il dubbio possa essere aggirato – o sfruttato – dai membri del Congresso interessati mediante un’accorta formulazione delle obiezioni in senso affermativo oppure negativo; se il Presidente del Senato possa riformularle; e soprattutto se, visto il suo dovere di annunciare la decisione presa, abbia il potere di interpretare l’effetto del voto discorde in un senso piuttosto che nell’altro.[6] Tutte domande che non solo non hanno una risposta certa, ma chiamano in causa altri elementi e altre teorie.

Invero, la regola generale di Siegel comporta che, secondo lui, il voto concorde delle Camere possa imporre al Presidente anche di leggere o non leggere un documento, nonostante le previsioni legislative, e gli fa riconoscere un diritto di appello contro ogni sua decisione, da formularsi e votarsi come le obiezioni sostanziali.[7] Su entrambi i punti, può invocare a sostegno la prassi: il consenso unanime dispensa regolarmente dalla lettura dei documenti di nomina e, sia nel 2000 sia nel 2016, il requisito di bicameralità della firma è stato applicato anche alle questioni procedurali che precedono l’obiezione vera e propria (la legge prescrive però che vadano votate insieme con quest’ultima).

Un’altra teoria, già sostenuta dal Sen. Sherman durante il dibattito sull’Electoral Count Act e che tuttora tende a riaffiorare ciclicamente, vuole che i casi di disaccordo tra le due Camere vengano risolti dal voto del Presidente. A me sembra decisivo, in contrario, l’argomento di Kesavan: la Costituzione gli attribuisce tale potere solo quando funge da Presidente del Senato; non essendo un Senatore, egli di regola non vota affatto, tranne in quello specifico caso; potrà dunque assolvere la funzione di tie-breaker nella deliberazione separata della Camera alta (Kesavan invece gli nega anche questa possibilità), ma di certo egli non ha un potere analogo quando presiede la seduta congiunta, né per Costituzione né tantomeno per legge, visto che, innegabilmente, il Congresso ha fatto tutto il possibile per ridurre al minimo il suo potere.[8]

Tuttavia, non si devono sottovalutare i problemi possibili: un rifiuto di annunciare il risultato, ad esempio, bloccherebbe i lavori senza una possibile via d’uscita, soprattutto se il Senato fosse dalla sua parte; la riformulazione dei quesiti (che andrà ammessa almeno per le obiezioni non scritte in termini di domanda) può orientare il voto; e appare molto difficile superare il suo controllo sulla procedura.

Conclusione

L’anno scorso, un esperto di legislazione elettorale, il Prof. Foley dell’Università dell’Ohio, ha scritto un articolo che oggi assume quasi tinte di chiaroveggenza sinistra: suonava l’allarme sul rischio che lo spoglio ritardato del voto postale, con il conseguente annullamento di risultati iniziali molto favorevoli a lui (c.d. “blue shift”), portasse Trump a contestare la regolarità delle elezioni e, in uno scenario fantanarrativo godibilissimo, ha ripercorso tutto il campo minato dei dubbi interpretativi sull’Electoral Count Act, arrivando ad ipotizzare uno stallo in Parlamento e un 20 gennaio con una nazione che rischia la guerra civile, perché l’esercito non sa a quale dei pretendenti il titolo deve obbedire.[9]

Il saggio ha sicuramente fallito nell’intento di spingere il Congresso a modificare la legge, in un momento e un contesto in cui sembrava che i margini di incertezza fossero assai risicati; per quanto riguarda l’esito ultimo, ovviamente c’è da augurarsi che non si arrivi a tanto e che riesca ad essere risolutivo almeno il voto in Congresso; ma è stato addirittura troppo ottimista riguardo alle contestazioni, perché si è concentrato su un singolo Stato decisivo, mentre la realtà dei fatti seguiti al 3 novembre vede un caleidoscopio di iniziative addirittura in sei: Pennsylvania, Georgia, Michigan, Wisconsin e Nevada.

Ieri, 8 dicembre, è spirato il termine per il safe harbour; un discreto numero di cause è ancora in corso. Quindi, al momento sembra acquisita una certezza, una sola: si verrà a sapere, probabilmente dalla stessa Corte Suprema, se l’effetto di tale scadenza sia privare tutti i giudici della loro giurisdizione per devolvere tutto al Congresso. (La mia opinione personale, per il poco che può valere, è che un simile assetto normativo sarebbe compatibile con la Costituzione federale, ma richiederebbe una disposizione di legge inequivocabile, che qui manca)

Ma quello è forse l’unico problema che, ricadendo per forza di cose nella sfera del potere giudiziario, troverà una soluzione sulla cui stabilità si potrà contare.

Tutti gli altri ticchettano, ticchettano come bombe ad orologeria.

Nessuno sa se detoneranno, non ancora. Gli Elettori devono votare, il Congresso si deve riunire, e così via.

Però tutti li sentono ticchettare.

Nel linguaggio della medicina, il termine “crisi” è ambivalente: indica il momento in cui il paziente si avvia alla guarigione oppure ci lascia la pelle. Gli Stati Uniti hanno goduto di una fortuna eccezionale nel corso delle loro vicende politiche e questo, purtroppo, ha favorito l’incuria per i difetti di un meccanismo istituzionale tanto delicato quanto negletto (non è un caso che i pochi studi che ne trattano siano tutti di poco posteriori a uno dei rari momenti in cui esso ha attirato l’attenzione). Sembra abbastanza sicuro che qualche obiezione verrà presentata alla seduta del 6 gennaio; delle due l’una, o sarà un gesto pro forma come nel 2005 oppure si scatenerà una battaglia procedurale e sostanziale che chiamerà in gioco tutti i punti critici, dal significato della Section 2 al ruolo del Presidente, per non parlare del peso dei documenti del Governatore se, mantenuta la lealtà di partito, le Camere risultassero discordi.

Indipendentemente da quel che si può pensare di Donald Trump o delle sue contestazioni, io credo che una crisi, nel senso predetto, sia sempre positiva, perché le malattie, organiche o costituzionali, non vanno trascinate per le lunghe; sono anche dell’avviso, però, che il Congresso sia la sede peggiore in assoluto per una decisione credibile, che i tempi accelerati imposti dalle scadenze legali al sistema giudiziario nuocciano più di quanto non giovino, almeno per i casi più complessi, e che le due metà dell’opinione pubblica resteranno ben trincerate nelle rispettive posizioni. Auspicabilmente, i nodi verranno al pettine di una riforma; le alternative non sono allettanti.

Genova, 9 dicembre 2020

Guido Ferro Canale


[1]    E ad es. V. Kesavan, op.cit., è molto critico verso tutte le ipotesi di integrazione delle lacune costituzionali, vere o presunte, da parte del Congresso. La sua ampia discussione sul potere di verifica (ibid., pagg. 1711-29) nota l’ambiguità nel dibattito in sede costituente e la risolve nel senso dell’insussistenza, argomentando dalla prescrizione di celerità e dal principio di pubblicità bicamerale dei lavori.

[2]    Cfr., per riferimenti, S.A. Siegel, op.cit., pagg. 551-3; V. Kesavan, op.cit., pagg. 1696-700, discute anche la costituzionalità dell’attribuzione al Presidente del Senato del compito di sovrintendere al conteggio dei voti, sia per conflitto di interesse, sia perché ritiene contestabile l’aggiunta ope legis di poteri non attribuiti per Costituzione. Va notato, però, come egli risolva l’ambiguità testuale del Dodicesimo Emendamento sulla scorta di un’interpretazione sistematica, che assegna il potere di contare i voti alle due Camere, pur riconoscendo che la prassi dei primi decenni depone semmai in favore del Presidente del Senato (ibid., pagg. 1701-7).

[3]    Cfr. S.A. Siegel, op.cit., pagg. 604-6.

[4]    V. Kesavan, op.cit., pagg. 1759-64.

[5]    Ma, presunzione per presunzione, Siegel ritiene che quella sottesa alla legge sia che, ogniqualvolta si presentino al Congresso due o più elenchi diversi, nessuno dei due sia prima facie valido: è infirmato dalla stessa esistenza dell’altro (cfr. S.A. Siegel, op.cit., pag. 625). Per questo, e data la sua regola generale, egli conclude che il documento del Governatore è dirimente solo in caso di disaccordo tra le Camere (ibid., pag. 631), quindi l’unico caso in cui i voti di un intero Stato non vengono contati – a parte forse brogli tali da viziare anche il documento del Governatore – è quando l’Esecutivo non ha rilasciato documenti a nessuno e nessuno degli elenchi viene giudicato valido (pag. 634). La posizione di V. Kesavan, op.cit., pag. 1767 è diversa, nel senso che “Simply put, the joint convention may not judge the acts of electors-that is, their electoral votes”, giacché questo controllo spetta ai Parlamenti degli Stati (tesi che oggi ha dalla sua Chiafalo v. Washington, almeno nel senso del controllo prima che il Congresso si riunisca per contare i voti; egli però esclude il sindacato del Congresso attribuendo agli Elettori come tali l0ultima parola su chi debba essere votato), mentre il sindacato sulle nomine presenta una “federal question” e deve essere risolto dal potere giudiziario (pag. 1773).

[6]    La prassi, anche dopo l’approvazione della legge, è nel senso che il Presidente annuncia pure l’effetto della votazione sul computo. Cfr. S.A. Siegel, op.cit., pagg. 642-3, che però nota (pag. 645) come – nel suo sistema –  non possa dar luogo ad inconvenienti seri: se c’è un solo invio di voti, le Camere devono essere d’accordo per escluderlo; se sono più, devono essere d’accordo su quale includere; se sono in disaccordo e non hanno escluso quello documentato dall’Esecutivo locale, prevale quest’ultimo.

[7]    Cfr. S.A. Siegel, op.cit., rispettivamente pag. 639 e 649-51; egli riconosce, tuttavia, che rientra nelle funzioni stesse di una Presidenza il rigetto in limine di questioni meramente dilatorie, che altrimenti potrebbero portare alla paralisi (pag. 646), e nota che è stato applicato da Al Gore anche al rigetto di un appello (pag. 648); pure per questi motivi, occorre un voto concorde delle due Camere perché l’appello venga accolto (pag. 649).

[8]    Cfr. V. Kesavan, op.cit., pagg. 1709-10.

[9]    E.B. Foley, Preparing for a Disputed Presidential Election: An Exercise in Election Risk Assessment and Management, in Loyola University Chicago Law Journal 51 (2019), pagg. 309-62.

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