Nota di Radio Spada: Continuiamo, con animo grato, la pubblicazione di un saggio dell’ottimo e carissimo studioso Guido Ferro Canale, amico di Radio Spada, sul contenzioso in atto riguardo le recenti elezioni presidenziali americane. Il saggio si snoderà in cinque puntate che saranno pubblicate nei prossimi giorni sempre alle ore 21. Inutile dire che la competenza e l’acribia del nostro scrittore (lui sì un vero competente dal sapere non raccogliticcio) rendono la fruizione di questo saggio godibile ed impegnativa al contempo. A tutti voi buona lettura! (Piergiorgio Seveso, Presidente SQE di Radio Spada)
Diritto al voto e legittimazione ad agire
Sebbene la Convenzione che ha approvato la Costituzione statunitense avesse ritenuto superfluo inserirvi una carta dei diritti – anzi, superfluo e pericoloso, giacché la formulazione di un qualsiasi elenco avrebbe potuto implicare, in via interpretativa, la negazione di tutela a tutti i diritti non inclusi – quando il testo costituzionale doveva essere ratificato dai singoli Stati questa mancanza fu presentata dagli antifederalisti come un pericoloso di abusi da parte del Governo federale nei confronti dei singoli. Così, vennero approvate dodici proposte di modifica o “Emendamenti”, dieci delle quali, approvate,[1] sono collettivamente note come “Bill of Rights”, sebbene non formino un documento unitario come l’omologo inglese del 1689. I primi otto Emendamenti[2] enunciano tutta una serie di diritti e garanzie; il Nono dichiara che quest’enumerazione non dev’essere interpretata come negazione degli altri diritti mantenuti dal popolo;[3] il Decimo si occupa del riparto dei poteri, stabilendo che debbano considerarsi mantenuti dagli Stati o dal Popolo tutti quelli non delegati al governo federale.[4]
Il diritto di voto non compare neanche qui, come già non compariva nella Costituzione. Ma questo non deve stupire: esso doveva essere attribuito dagli Stati e la Costituzione lo estendeva in automatico all’elezione della Camera dei Rappresentanti. Il Bill of Rights doveva valere solo contro l’autorità federale e questa aveva ben poche occasioni di intromettersi nella faccenda; se poi qualcuno ha potuto temere, in ipotesi, che un suo intervento nella disciplina delle elezioni avesse per effetto una restrizione de facto dell’esercizio del diritto di voto, certo ha pensato che per tale eventualità bastasse la tutela offerta dal Nono Emendamento (ma anche dal Decimo, che esclude che il Congresso possa sottrarre agli Stati i poteri non delegati, tra cui appunto quello di concedere o negare l’elettorato attivo).
In concreto, peraltro, il problema non si è posto almeno fino alla Guerra di Secessione, data specialmente la modestia degli interventi del Congresso, e in seguito la giurisprudenza ha preso un’altra strada. Anche perché la Corte Suprema ha svuotato di significato il Decimo e soprattutto il Nono Emendamento, descrivendoli come semplici tautologie del tipo “Tutto ciò che non è vietato è permesso”.
Tuttavia, la sconfitta del Sud portò all’approvazione di tre profonde modifiche alla Costituzione, i cc.dd. Reconstruction Amendments, sostanzialmente imposti dai vincitori ai vinti: sono il Tredicesimo, il Quattordicesimo e il Quindicesimo Emendamento. Il primo abolisce la schiavitù, dichiarando che l’unica forma di involuntary servitude ammissibile sono i lavori forzati in seguito a condanna penale, e attribuisce al Congresso il potere di legiferare per rendere effettiva questa riforma, quindi per stroncare sul nascere, o almeno ex post, ogni conato degli ex-ribelli in senso contrario. Il secondo adotta una regola costituzionale per l’attribuzione della cittadinanza degli Stati Uniti (che prima dipendeva da quella dei singoli Stati), sceglie lo ius soli e la attribuisce agli ex-schiavi, insieme con più ampie promesse di tutela giuridica:
“Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti e degli Stati in cui risiedono. Nessuno Stato emanerà o applicherà una legge che coarterà i privilegi o le immunità degli Stati Uniti, e nessuno Stato priverà chicchessia della vita, della libertà o della proprietà senza un giusto processo a norma di legge, né negherà ad alcuna persona sotto la propria giurisdizione l’eguale protezione delle leggi.”[5]
Con il tempo, la Corte Suprema degli Stati Uniti si è persuasa che la Section 1, testé riportata, avesse implicitamente reso applicabile il Bill of Rights anche nei confronti degli Stati; non però tutto quanto, ma solo quelle previsioni che dovevano ritenersi incluse nelle sue clausole (teoria della selective incorporation against the States); però ormai la incorporation è quasi totale, essendo avvenuta anche per le ultime garanzie importanti che ancora mancavano, la tutela contro multe e cauzioni eccessive e la necessità di un verdetto unanime della giuria per la condanna penale.
La Section 2 del Quattordicesimo Emendamento riforma i criteri per l’assegnazione dei membri del Congresso e menziona, per la prima volta, il diritto di votare nelle elezioni federali, incluse quelle per la scelta degli elettori del Presidente, e statali (pure quelle per i giudici). Tuttavia, lo fa in un modo particolare: considera evidentemente come normale che esso spetti a tutti i cittadini maschi che abbiano compiuto i ventun anni, ma stabilisce che, se uno Stato ne priverà alcuni, subirà una riduzione proporzionale della propria rappresentanza in Congresso. Dunque non vi è una sottrazione del potere agli Stati e, a rigore, neppure il conferimento del diritto di voto da parte dell’Emendamento, ma solo la previsione di un meccanismo dissuasivo di tipo politico, che a ben vedere si pone più in termini di causa-effetto che di sanzione. Peraltro, non mi risulta che vi sia mai stata data applicazione.
Il Quindicesimo Emendamento, forse approvato nella consapevolezza dell’insufficienza o della difficile praticabilità di quella tutela, opta per un’altra strada, la stessa del Tredicesimo:
“Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non sarà negato o coartato dagli Stati Uniti o da alcuno Stato in ragione della razza, del colore o della precedente condizione di schiavitù.”[6]
Anche qui, il Congresso ottiene il potere di legiferare per rendere effettivo questo diritto. Ma, se si eccettuano i tentativi compiuti durante gli anni della Ricostruzione (1865-1878), esso è rimasto in buona sostanza inerte mentre gli Stati del Sud approvavano leggi che, sotto le apparenze e i pretesti più vari, rendevano di fatto pressoché impossibile ai coloured l’esercizio del diritto di voto; il tutto con l’avallo della Corte Suprema, cui apparivano formalmente neutrali. Soltanto nel 1965 il Congresso ha approvato il Civil Rights Act, esercitando infine il potere conferitogli dal Quindicesimo Emendamento per porre termine a tali pratiche.
In quegli stessi anni, peraltro, la giurisprudenza della Corte Suprema era giunta ad accordare un’altra forma di tutela al diritto di voto.
Fino ad allora, essa aveva evitato di intervenire sulla materia elettorale, ritenendola una political question; ma tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sotto la guida di Earl Warren, sembrava decisa a risolvere un po’ tutti i problemi e le ingiustizie percepite della nazione. Nel bene e nel male, l’attivismo della Warren Court, oltre ad essere mitizzato a sinistra e demonizzato a destra, rimane tuttora impresso, a oltre mezzo secolo di distanza, nel diritto costituzionale degli Stati Uniti; e una deklle aree in cui quest’intervento si è fatto sentire di più (sebbene non forse la prima che viene in mente) è la disciplina delle circoscrizioni elettorali (che, per le elezioni federali, rientra pacificamente nella Elections e nella Electors Clause).
La prima metà del Novecento aveva visto un imponente fenomeno di spopolamento delle campagne e parallelo inurbamento, cui però gli Stati, in genere, avevano preferito non adeguare la propria geografia elettorale; qualcuno, anzi, assegnava addirittura in Costituzione un egual numero di seggi, nel proprio Parlamento, a ciascuna contea, indipendentemente dalla popolazione. In queste scelte giocava certamente la preoccupazione di garantire una rappresentanza effettiva agli interessi delle campagne, che altrimenti sarebbero stati spazzati via dalla scena politica; ma in pari tempo perpetuava un blocco di potere conservatore, con cui la Warren Court sentiva scarsa affinità. E, nel 1962, ebbe modo di decidere Baker v. Carr, 369 U.S. 186 (1962), il caso perfetto per intervenire.
Il problema da cui nasceva il caso era che, sebbene la Costituzione del Tennessee prescrivesse una revisione decennale delle circoscrizioni e una rappresentanza proporzionale al numero di abitanti dei vari distretti, l’ultimo riassetto risaliva ad una legge del 1901, che secondo gli attori (un gruppo di elettori registrati), già in origine non rispettava quel criterio, ma era ormai divenuta completamente avulsa dalla realtà demografica e sociale. Sostenendo, dati alla mano, che il loro voto, in quanto residenti delle tali contee, arrivasse a contare anche venti volte di meno che in altre, si rivolsero alla giustizia federale, perché – così dicevano – non era in ballo soltanto la Costituzione del Tennessee, ma l’effettività del voto e il diritto alla Equal Protection of the Laws, sanciti dal Quattordicesimo Emendamento. Il giudice di primo grado ritenne che si trattasse di una political question, ma la Corte Suprema, investita del caso, affermò il contrario.
L’opinione di maggioranza, redatta dal giudice Brennan, per prima cosa ha ridefinito i contorni della political question, da ravvisarsi, inter cetera, quando vi fosse un’esplicita attribuzione di competenze ad un dato organo costituzionale, da intendersi come esclusiva (ad es. il potere di impeachment, riservato al Senato federale), oppure quando mancasse un criterio giuridico applicabile da parte del giudice e la materia fosse aperta a una molteplicità di scelte discrezionali, come per la Guaranty Clause, l’impegno della Costituzione a garantire in ogni Stato una forma di governo repubblicana. In questo caso il criterio c’era, era offerto dalla Costituzione del Tennessee, e il mantenimento in vigore della legge del 1901, in quelle circostanze, si traduceva effettivamente nella denunciata violazione del Quattordicesimo Emendamento; tuttavia la Corte, affermata la possibilità di intervento del potere giudiziario, rimandò la causa al primo giudice perché trovasse la tutela più confacente.
Nel giro di pochi anni, la giurisprudenza della Corte estese e consolidò il principio, applicandolo a tutte le elezioni, statali e federali: affermando che il principio One person, one vote era implicito nella Costituzione, concluse che il Quattordicesimo Emendamento imponeva una ripartizione degli Stati in circoscrizioni con un numero di abitanti pressoché eguale (anche a costo di sacrificare continuità amministrativa e storica). Il che, in sostanza, ha imposto ad ogni Stato di rivederle ogni dieci anni, dopo ciascun censimento.
Il Voting Rights Act è venuto a incidere pesantemente su questo processo, appena avviato, perché impose, tra l’altro, agli Stati del Sud di ottenere, per tutte le future revisioni della loro geografia politica, un’approvazione preventiva da parte del Governo federale, che doveva assicurare l’assenza di intenti ed effetti di discriminazione razziale. Ora, la pratica di tracciare ad arte i confini della circoscrizione si è guadagnata il nomignolo poco onorifico di gerrymandering fin dai primi anni della Repubblica; e sebbene la Corte Suprema, nel 2013 (Shelby County v. Holder, 570 U.S. 529), abbia eliminato il requisito dell’approvazione preventiva, ritenendolo ormai superfluo per aver la legge raggiunto il proprio scopo, il racial gerrymandering non solo è tuttora proibito, ma soprattutto resta un tema molto vivo nella coscienza sociale e nel dibattito politico. In effetti, più o meno ogni revisione delle circoscrizioni elettorali si trova regolarmente esposta all’accusa di voler consolidare la presa sul potere della maggioranza del momento; ma soprattutto i Democratici accusano i Repubblicani di gerrymandering razziale e politico a un tempo, perché le minoranze, notoriamente, tendono a votare per i primi. Tuttavia la Corte Suprema, nel 2019, ha distinto i due aspetti: il gerrymandering motivato da ragioni razziali resta vietato in forza del Quindicesimo Emendamento e del Voting Rights Act, ma se la mappa è tracciata per penalizzare gli elettori di un partito in quanto tali, a prescindere dalla razza, allora sussiste un’indubbia violazione del Primo Emendamento, che garantisce il libero diritto di associazione politica, ma si ricade nella political question, perché non c’è un criterio legale applicabile; e non si possono applicare per analogia quelli previsti per il gerrymandering razziale, perché la Costituzione attribuisce espressamente la disciplina delle elezioni ai Parlamenti degli Stati e il controllo al Congresso, che è a sua volta un organo politico; dal che deve desumersi che una certa misura di vantaggio politico, nella stesura delle mappe, è ammissibile. I singoli Stati o il Congresso possono intervenire in proposito; ma le Corti no (Rucho v. Common Cause).
La tensione tra questo principio e quello elaborato dalla Warren Court, tuttora in vigore, non ha bisogno di essere spiegata; ma, più in generale, è necessario aver presente questo contesto sociologico, prima ancora che giuridico, per capire come mai ogni e qualsiasi legge elettorale venga immediatamente vista con sospetto, come una possibile restrizione al diritto di voto, specialmente da parte dei Democratici; mentre d’altra parte tutte le proposte miranti, almeno sulla carta, ad agevolare l’esercizio di tale diritto sono viste dai Repubblicani come opportunità di brogli. Ad es., l’obbligo per chi intende votare di presentarsi al seggio munito di un documento di identità corredato di una fotografia, introdotto in alcuni Stati, è stato oggetto di critiche virulente perché discriminatorio nei confronti delle minoranze (in un Paese dove non esiste la carta d’identità, ottenere simili documenti può effettivamente costare una bella cifretta); e non occorre far cenno alle polemiche sul voto per posta, di cui adesso son piene le cronache.
Tutto questo vale anche per la scelta degli Elettori, ma con un paio di caveat: nel caso McPherson v. Blacker, 146 U.S. 1 (1892), la Corte Suprema si è vista sottoporre, da un gruppo di potenziali elettori, la legge appena approvata in Michigan, che prevedeva che i quattordici Elettori allora spettanti allo Stato non venissero più assegnati in blocco, ma ripartiti, due per circoscrizione; il che, secondo gli attori, costituiva restrizione del preesistente diritto dei cittadini di concorrere ad eleggere quattordici elettori e non due, garantito dal Quattordicesimo Emendamento. I giudici, all’unanimità, hanno respinto sia l’idea che la Costituzione imponesse l’assegnazione dei voti in blocco (prassi comune, ma non per questo obbligatoria), sia soprattutto l’idea che il Quattordicesimo Emendamento attribuisse a chicchessia il diritto di voto, in generale e specialmente per la scelta degli Elettori presidenziali,[7] ribadendo che, a termini di Costituzione federale, essa spetta ai Parlamenti dei singoli Stati, che restano liberi di provvedervi direttamente e non sono vincolati neppure dalla propria stessa Costituzione.[8] (Quest’ultimo punto, comunque un obiter dictum, è discusso, ma a me sembra la lettura corretta della pronuncia – vedi sottolineatura in nota – e analoghe indicazioni emergono da Bush v. Palm Beach County Canvassing Board; inoltre, anche se la Corte Suprema ha affermato il contrario riguardo alla Elections Clause, questa richiede senza dubbio un’attività legislativa in senso proprio, mentre la nomina degli Elettori è un atto singolo e, come ribadito proprio dalla sentenza McPherson, può avvenire anche mediante risoluzione congiunta).[9]
Tuttavia, la Corte è tornata sulla questione nell’ambito del caso Bush v. Gore e, pur ribadendo questa loro libertà in termini netti, ha anche precisato che, se il diritto di voto per la scelta degli Elettori è stato attribuito e finché resta in vigore, è tutelato dal Quattordicesimo Emendamento, almeno quanto alla Equal Protection of the Laws (il problema era che la legge elettorale della Florida imponeva di tener conto anche delle schede perforate male, ogniqualvolta risultasse comunque chiaro l’intento del votante, ma mancava un indirizzo applicativo uniforme, ciascuna contea si regolava per conto proprio, finendo così per ammettere voti che in altre parti dello Stato sarebbero stati rigettati, o viceversa: questa è stata la violazione costituzionale riscontrata).[10]
Il quadro fin qui fornito, però, non sarebbe ancora completo se non parlassimo delle concrete possibilità, o piuttosto difficoltà, di agire in giudizio per far valere questi diritti.
Il principio della separazione dei poteri, infatti, ostacola il potenziale elettore che intenda fare causa contro una legge elettorale che ritenga incostituzionale: non basta, infatti, che essa sia in qualche modo gravatoria o ingiusta, occorre che essa arrechi a lui, e proprio a lui, uno specifico danno personale, distinto dalla generalità dei cittadini; chi critica semplicemente la legge come tale solleva una questione politica, non ha standing in sede giudiziaria, almeno federale.[11] In altri termini: la Corte Suprema funziona pur sempre come giudice del caso concreto, non come le Corti Costituzionali da questa parte dell’Atlantico.
Naturalmente, è abbastanza facile che una legge elettorale, come ogni altra, tratti un qualunque gruppo di persone in modo diverso dagli altri; e in questo caso diviene astrattamente possibile invocare il Quattordicesimo Emendamento, la Equal Protection of the Laws e il principio One person, one vote. Già è più difficile che le Corti ammettano che un elettore che ha votato in modo regolare subisca una “svalutazione” del proprio voto perché vengono conteggiati anche voti irregolari: un conto è il momento in cui si definiscono le circoscrizioni, un altro quello in cui si vota e in cui nessuno può avere idea di quanto peserà il suo voto, cioè di quanti altri andranno a votare. E pure i candidati incontrano difficoltà a far valere le irregolarità o i brogli, perché spesso si richiede la prova che questi siano andati in favore dell’uno piuttosto che dell’altro; tuttavia hanno un generale potere di sollecitare controlli e verifiche. Più in generale, le Corti federali sono riluttanti a intervenire in questioni delicate, complesse e regolate dalla legge statale, mentre le Corti statali, soprattutto quando si vedono richiedere provvedimenti d’urgenza, oscillano tra il richiedere che le contestazioni alle norme elettorali vengano mosse prima del voto – per tutelare quegli elettori che, altrimenti, farebbero affidamento sulla loro correttezza – oppure dopo, perché solo in quel momento il danno diventa concreto anziché meramente ipotetico. Infine, sebbene ogni Stato lo disciplini a modo proprio, il procedimento elettorale è complesso, si articola in diverse fasi e sia le possibilità di azione giudiziaria sia i mezzi di prova ammessi variano notevolmente anche secondo queste fasi.
[1] Un’altra delle dodici originarie rimase a languire per più di due secoli, prima di essere rivitalizzata e finalmente approvata come Ventisettesimo Emendamento.
[2] Nella prassi americana, l’Emendamento non viene inserito all’interno della Costituzione, neanche quandio ne sostituisca qualche clausola, come fa ad es. il Dodicesimo.
[3] “The enumeration in the Constitution, of certain rights, shall not be construed to deny or disparage others retained by the people.”
[4] “The powers not delegated to the United States by the Constitution, nor prohibited by it to the States, are reserved to the States respectively, or to the people.”
[5] “All persons born or naturalized in the United States, and subject to the jurisdiction thereof, are citizens of the United States and of the State wherein they reside. No State shall make or enforce any law which shall abridge the privileges or immunities of citizens of the United States; nor shall any State deprive any person of life, liberty, or property, without due process of law; nor deny to any person within its jurisdiction the equal protection of the laws.”.
[6] “The right of citizens of the United States to vote shall not be denied or abridged by the United States or by any State on account of race, color, or previous condition of servitude.”.
[7] “If, because it happened at the time of the adoption of the Fourteenth Amendment that those who exercised the elective franchise in the State of Michigan were entitled to vote for all the presidential electors, this right was rendered permanent by that amendment, then the second clause of Article II has been so amended that the states can no longer appoint in such manner as the legislatures thereof may direct, and yet no such result is indicated by the language used, nor are the amendments necessarily inconsistent with that clause. […] The right to vote intended to be protected refers to the right to vote as established by the laws and constitution of the state. There is no color for the contention that, under the amendments, every male inhabitant of the state, being a citizen of the United States, has from the time of his majority a right to vote for presidential electors.”
[8] “The state does not act by its people in their collective capacity, but through such political agencies as are duly constituted and established. The legislative power is the supreme authority, except as limited by the constitution of the state, and the sovereignty of the people is exercised through their representatives in the legislature unless by the fundamental law power is elsewhere reposed. The Constitution of the United States frequently refers to the state as a political community, and also in terms to the people of the several states and the citizens of each state. What is forbidden or required to be done by a state is forbidden or required of the legislative power under state constitutions as they exist. The clause under consideration does not read that the people or the citizens shall appoint, but that ‘each state shall’, and if the words ‘in such manner as the legislature thereof may direct’ had been omitted, it would seem that the legislative power of appointment could not have been successfully questioned in the absence of any provision in the state constitution in that regard. Hence the insertion of those words, while operating as a limitation upon the state in respect of any attempt to circumscribe the legislative power, cannot be held to operate as a limitation on that power itself.
If the legislature possesses plenary authority to direct the manner of appointment, and might itself exercise the appointing power by joint ballot or concurrence of the two houses, or according to such mode as designated, it is difficult to perceive why, if the legislature prescribes as a method of appointment choice by vote, it must necessarily be by general ticket, and not by districts. In other words, the act of appointment is nonetheless the act of the state in its entirety because arrived at by districts, for the act is the act of political agencies duly authorized to speak for the state, and the combined result is the expression of the voice of the state, a result reached by direction of the legislature, to whom the whole subject is committed.”.
[9] Il problema potrebbe, però, rientrare dalla finestra: considerato che le elezioni presidenziali coincidono con quelle dei membri della Camera dei Rappresentanti e per lo più la scheda è una sola, la disciplina finisce per essere la stessa; caducarla, in ipotesi, per queste, ma lasciarla nello stesso tempo in vigore per la designazione degli Elettori, potrebbe sembrare contrario all’intento stesso del potere legislativo, che si è palesemente orientato nel senso dell’uniformazione (e dunque, se il contrasto con la Costituzione statale sussiste, simul cadent, ma evidentemente non simul stabunt).
[10] “A contested presidential election is a prototypical example of a decision that is best made according to rules and procedures determined long before the identities of the two candidates are known. One of the most perplexing aspects of the 2000 election contest is that the decision ultimately halting the dispute was made by an institution that tends to proceed case-by-case, adopting rules with fairly complete knowledge of how they will affect the fortunes of parties before it. Courts are institutionally ill-suited to adopt far-reaching ex ante frameworks; and in the case of Bush v. Gore, this institutional shortcoming was made more evident because the Court used a novel legal theory to resolve the election in Bush’s favor.”. E. Garrett, Institutional Lessons from the 2000 Presidential Election, Preliminary Draft, pag. 4.
[11] Cfr. ad es. Lance v. Coffman, 549 U.S. 437 (2007).
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