Nota di Radio Spada: Continuiamo, con animo grato, la pubblicazione di un saggio dell’ottimo e carissimo studioso Guido Ferro Canale, amico di Radio Spada, sul contenzioso in atto riguardo le recenti elezioni presidenziali americane. Il saggio si snoderà in cinque puntate che saranno pubblicate nei prossimi giorni sempre alle ore 21. Inutile dire che la competenza e l’acribia del nostro scrittore (lui sì un vero competente dal sapere non raccogliticcio) rendono la fruizione di questo saggio godibile ed impegnativa al contempo. A tutti voi buona lettura! (Piergiorgio Seveso, Presidente SQE di Radio Spada)
Seconda parte: https://www.radiospada.org/2020/12/la-disputa-sulle-elezioni-americane-materiali-e-informazioni-per-il-lettore-curioso-seconda-parte/
Il Dodicesimo Emendamento
In origine, il candidato più votato era eletto Presidente e il secondo Vicepresidente: non si era prevista l’eventualità che nascessero partiti politici a livello federale, che invece sono sorti subito, perpetuando il forte contrasto tra federalisti e antifederalisti già presente tra i costituenti. Dopo che nel 1796 ciò aveva determinato la coabitazione di due soggetti dagli orientamenti politici opposti, nel 1800 gli antifederalisti si sono orientati, informalmente, per la votazione di una coppia dei loro, Jefferson e Burr… senza però calcolare che, così facendo, li avrebbero fatti finire in parità. Il rifiuto di Burr di cedere il passo a Jefferson, come volevano gli accordi informali, ha fatto scattare il meccanismo previsto in Costituzione per il caso di mancato accordo tra gli Elettori, ossia il voto di ballottaggio alla Camera dei Rappresentanti. Si trattava però del Parlamento uscente, ancora dominato dai federalisti… e rispetto al quale entrambi i candidati erano il fumo negli occhi. Sono occorse ben trentasei votazioni in parità perché uno dei votanti decidesse che, tutto sommato, tra i due un male minore esisteva e votasse Jefferson.
Non sorprende che, a quel punto, sia iniziata la corsa per cambiare la Costituzione prima delle presidenziali successive; il risultato è il Dodicesimo Emendamento, che detta tuttora la disciplina della vera e propria elezione presidenziale.
“Gli Elettori si riuniranno nei loro rispettivi Stati e voteranno, mediante l’immissione di schede nell’urna, per il Presidente e il Vice-Presidente, almeno uno dei quali non sarà un abitante del loro stesso Stato; indicheranno nelle loro schede il nome della persona votata come Presidente, e in schede distinte quello della persona votata come Vice-Presidente, e redigeranno elenchi distinti di tutte le persone votate come Presidente, e di tutte le persone votate come Vice-Presidente, e del numero di voti per ciascuna, le quali liste sottoscriveranno e attesteranno in forma ufficiale, e trasmetteranno sigillate alla sede del governo degli Stati Uniti, indirizzate al Presidente del Senato [che è il Vice-Presidente uscente].
Il Presidente del Senato, alla presenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti, aprirà tutti i documenti ufficiali e a quel punto i voti verranno contati. La persona che avrà il maggior numero di voti come Presidente sarà il Presidente, se quel numero corrisponderà ad una maggioranza sul totale degli Elettori designati; e se nessuno avrà una tale maggioranza, allora la Camera dei Rappresentanti sceglierà immediatamente il Presidente, mediante schede immesse nell’urna, fra le persone con il maggior numero di voti (non più di tre). Ma nella scelta del Presidente i voti saranno espressi per Stati, con un voto solo per la rappresentanza di ciascuno Stato; il quorum per deliberare consisterà di un membro o membri di due terzi degli Stati, e per l’elezione sarà necessaria la maggioranza sul totale degli Stati. E se la Camera dei Rappresentanti non sceglierà un Presidente ogniqualvolta il diritto di scelta si sarà devoluto ad essa, prima del successivo 4 marzo [oggi 20 gennaio a mezzogiorno, in forza del Ventesimo Emendamento], allora il Vice-Presidente agirà quale Presidente, come nel caso di morte o altra incapacità materiale del Presidente.
La persona che avrà il maggior numero di voti come Vice-Presidente sarà il Vice-Presidente, se quel numero corrisponderà ad una maggioranza sul totale degli Elettori designati; e se nessuno avrà una maggioranza, allora il Senato sceglierà il Vice-Presidente tra i due più votati; il quorum per deliberare consisterà di due terzi del totale dei Senatori, e una maggioranza del totale sarà necessaria per l’elezione. Ma nessuna persona costituzionalmente ineleggibile alla carica di Presidente sarà eleggibile a quella di Vice-Presidente degli Stati Uniti.”
Infine, il Ventesimo Emendamento, che ha anticipato al 20 gennaio il termine del mandato per il Presidente uscente e il suo vice, stabilisce anche che, se a tale data non fossero ancora stati eletti i subentranti, il Presidente provvisorio può essere designato secondo criteri stabiliti per legge dal Congresso; ad oggi, si tratterebbe del Presidente (Speaker) della Camera. Sempre per legge si può provvedere ai casi di morte di qualcuno dei soggetti eleggibili allorché il diritto di elezione si devolve all’uno o all’altro dei due rami del Congresso.
Sebbene sia particolarmente ampio, il Dodicesimo Emendamento interessa soprattutto per un punto specifico, i poteri di intervento che assegna al Congresso. Innanzitutto, la proclamazione ufficiale, perché i voti sono segreti e solo con la lettura in sessione congiunta vengono resi noti; ma soprattutto la scelta stessa del Presidente (o del vice) se nessuno dei candidati ottenesse la maggioranza assoluta degli Elettori designati. In altri termini, se la delega agli Stati di questa funzione federale si risolve in un’impasse, la funzione stessa torna a livello federale.
Disgraziatamente, l’Emendamento tace su alcuni punti molto importanti, ma non contemplati al momento della sua approvazione:
- oltre alla lettura dei documenti e al computo dei voti, è ammessa anche una funzione di verifica? E nel caso, da parte di chi?
- si richiede la maggioranza dei voti degli “Elettori designati”; ma che succede se uno Stato, per qualunque motivo, non designa i propri?
- e se viceversa, sempre per qualsiasi ragione, ci si trovasse dinanzi a più di un elenco di elettori (e di voti) per un singolo Stato?
A tutte queste domande, e ad altre ancora,[1] si è cercato di dare risposta con una legge (federale) ordinaria. E questa potrebbe essere l’elezione in cui la tenuta dei meccanismi ivi previsti verrà messa veramente alla prova per la prima volta.
I casi di contestazioni ai voti degli Elettori; la disciplina fino al 1887
Il problema principale del Dodicesimo Emendamento sta nel fatto di non prevedere espressamente alcuna procedura o competenza per la verifica dei voti degli Elettori. Probabilmente, i suoi estensori hanno dato per scontato che, al momento dello spoglio in Congresso, qualunque controversia sarebbe stata già risolta nei singoli Stati; ma questo può esser vero, al più, per la designazione degli Elettori stessi, non per i loro voti, che vengono espressi in segreto e che nessuno vede prima di quel momento.
La storia costituzionale, in effetti, ha registrato un discreto numero di incidenti in proposito:[2]
- sia nel 1797 sia nel 1801, il Presidente del Senato era anche uno dei candidati in lizza e tanto Adams quanto Jefferson furono accusati di aver fatto o lasciato includere nel conteggio alcuni voti “irregolari” perché favorivano la loro posizione; per Jefferson si trattava di irregolarità formali nella documentazione di quelli della Georgia, ma nel caso di Adams era in gioco la legittimità sostanziale degli Elettori del Vermont;[3]
- nel 1809, un gruppo di abitanti di Hanover (Mass.) ha scritto al Congresso, lamentando che la designazione degli Elettori fosse avvenuta in violazione della Costituzione del Massachussetts e chiedendo una verifica in proposito nel momento del conteggio dei voti; fu approvata una risoluzione favorevole alla richiesta, ma sembra che non abbia avuto seguito e i voti del Massachussetts sono stati contati senza obiezioni rimaste a verbale;
- in ben tre occasioni, sono giunti voti da Elettori designati in Stati che erano tali al momento dello spoglio, ma non ancora nel giorno stabilito per il voto (Indiana, 1817; Missouri, 1821; Michigan, 1837); nel primo caso furono contati senz’altro, giacché il problema si ripresentava identico per i parlamentari del Territorio/Stato, che erano già stati ammessi nelle due Camere; negli altri casi, la proclamazione dei risultati avvenne con la precisazione che, includendo o togliendo i voti dello Stato controverso, il risultato non cambiava;
- sempre nel 1837, il New Hampshire aveva almeno un elettore che non poteva essere designato perché ricopriva un ufficio federale e vi erano segnalazioni analoghe su altri tre; i voti non furono comunque esclusi;
- nel 1857, gli elettori del Wisconsin votarono in ritardo perché impediti, nel giorno stabilito, da una bufera di neve; sebbene la pertinente legge federale non prevedesse eccezioni per forza maggiore, i voti vennero contati egualmente;
- nel 1865, Tennessee e Louisiana non vennero contati perché giudicati ancora in rivolta contro l’Unione;
- “In 1869 issues arose over whether states that had been in insurrection against the Union were now qualified to vote under reconstruction requirements, and objections to the votes from Louisiana on those grounds were not sustained (and the votes were counted); while votes from Georgia, objected to on the same grounds, were allowed in an ‘alternative’ tally.”;[4] esclusi, invece, Mississippi, Virginia e Texas;
- nel 1873, vi furono tre voti espressi per il candidato Horace Greeley, che era morto dopo la designazione degli elettori, ma prima che questi votassero; all’obiezione che non si potevano considerare voti dati a una “persona”, come richiesto dal Dodicesimo Emendamento, i due rami del Congresso si divisero e, poiché le norme di procedura così prevedevano in caso di loro disaccordo, i voti non furono contati;
- nello stesso anno, vi furono contestazioni ai voti del Mississippi (mancava la dichiarazione di aver votato mediante scheda e la nomina di un Elettore sostituto, designato dai colleghi, non era firmata dal governatore, come richiedeva la legge statale) e del Texas (di nuovo, quattro sostituti designati da colleghi e documenti da cui mancava la dichiarazione di regolarità della nomina); i voti furono ammessi comunque;
- sempre nel 1873, vi erano sia un candidato presidente sia un candidato vicepresidente che provenivano dalla Georgia; dallo spoglio dei voti di quello Stato, risultava matematicamente certo che almeno uno degli Elettori aveva votato per entrambi, violando l’espresso divieto del Dodicesimo Emendamento; ma, dinanzi all’obiezione, il Presidente del Senato dichiarò che, essendo stata avanzata dopo la lettura dei voti in questione, essa era tardiva;
- ma il caso più significativo del 1873 è certo l’esclusione dei voti di Arkansas e Louisiana; per l’Arkansas, gli elettori non erano quelli eletti dal popolo e mancavano documenti ufficiali validi, per la Louisiana si parlava di illegalità della designazione,[5] però il problema era più complesso, si contendevano il campo due elenchi di elettori contrapposti, la controversia sulla loro legittimità non era stata risolta dai tribunali prima del giorno stabilito per il voto, e l’uno si presentava munito di documenti rilasciati dal Governatore, l’altro con quelli del Segretario di Stato. Furono respinti entrambi.[6]
- l’elezione del 1876, forse la più controversa di tutta la storia degli Stati Uniti, vide addirittura due Governatori rivali insediarsi in Florida, in Louisiana e in North Carolina, ciascuno dei quali mandò al Congresso la propria lista di elettori con i relativi voti; enormità che si spiega con il fatto che la Guerra di Secessione si era trasformata in un’occupazione militare del Sud, che manteneva al potere i repubblicani (il partito di Lincoln) contro i democratici. Per buona misura, in Oregon il governatore, trovandosi davanti a un elettore che ricopriva un ufficio federale, lo sostituì… ma con qualcuno che propendeva per l’altro candidato.[7] E perfino quest’episodio poteva fare la differenza, poiché, contando per sé tutti i voti contesi, il candidato repubblicano, Hayes, prevaleva sul democratico Tilden per un solo voto; si fosse finiti in parità, l’elezione sarebbe passata alla Camera dei Rappresentanti, che era controllata dai democratici. Tra accuse di frode e ricorsi giudiziari, i mesi passarono senza che le controversie venissero definitivamente risolte al livello dei singoli Stati; alla fine, il Congresso istituì una Commissione speciale ad hoc, composta di parlamentari e giudici della Corte Suprema, che decise tutte le questioni in senso favorevole a Hayes, in un voto 8-7 generalmente percepito come determinato da partigianeria. Ma, di fronte alla minaccia dei democratici di bloccare il compito dei voti con un ostruzionismo che, protraendolo oltre il 4 marzo, li avrebbe resi padroni della presidenza ad interim (giusta la linea di successione prevista per tale caso), si raggiunse un compromesso politico, annunciato il 1 marzo e poi regolarmente onorato, che barattò l’accettazione della presidenza Hayes con la fine dell’occupazione del Sud.
- L’elezione del 1960 vide una controversia prolungata per i tre elettori delle Hawaii. I primi risultati davano vincitore Nixon, i cui elettori furono quindi nominati il 16 novembre, con documenti ufficiali emessi poi dal governatore facente funzioni il 28; ma il 13 dicembre fu disposto un nuovo conteggio e il 19, nel giorno stabilito, votarono sia gli elettori di Nixon sia quelli di Kennedy, che pur non avevano documenti di nomina. Il 30 dicembre, a conclusione di un iter giudiziario, la Corte statale competente decretò la vittoria di Kennedy; il 4 gennaio il governatore neoeletto firmò i documenti, che giunsero al Congresso il 6, appena in tempo. Nixon, che presiedeva in qualità di Vicepresidente uscente, annunciò che per lo Stato delle Hawaii erano pervenuti tre set di documenti distinti, cioè quelli del 4 gennaio e le due votazioni del 19 novembre, mandate entrambe in precedenza; dopo averli aperti e letti tutti, suggerì, “senza l’intenzione di stabilire un precedente”, di contare i voti come da documento del 4 gennaio;[8] non vi furono obiezioni.
- Nel 1969, fu contestato come illegittimo il voto di un “faithless elector”, appunto in quanto tale; dopo ampio dibattito, tuttavia, la contestazione fu respinta.[9]
- La celebre contesa tra Bush e Gore, nel 2000, per i voti elettorali della Florida venne – di fatto – risolta dalla Corte Suprema federale prima che gli elettori votassero; il 6 gennaio 2001, lo sconfitto Gore, presiedendo al conteggio, dichiarò inammissibili tutte le obiezioni, in quanto non sottoscritte contemporaneamente da un deputato e un senatore.
- Nel 2005, i voti dell’Ohio risultavano decisivi per la rielezione di George W. Bush e il suo margine di vittoria era piuttosto risicato; vi erano obiezioni relative ad una serie di irregolarità e disfunzioni che si sarebbe tradotta in un impedimento per gli elettori democratici, specialmente afroamericani. Sebbene il loro candidato, John Kerry, avesse accettato la sconfitta, due parlamentari – una deputata e una senatrice – vollero comunque sollevare la questione al momento del computo dei voti; ma sia la Camera sia il Senato la respinsero con ampio margine.[10]
- Nel 2016 – infine… almeno per ora – vi fu un’attività di lobby in piena regola per convincere gli Elettori a non votare Donald Trump; il risultato, però, fu di dieci faithless electors, tanti storicamente, ma assai meno del necessario, e per giunta tre vennero subito sostituiti. Diversi deputati Democratici tentarono di muovere obiezioni, ma Joe Biden, che presiedeva la seduta, le rigettò in quanto non sottoscritte anche da un senatore (ne erano presenti solo quattro in tutto).[11]
La rassegna di casi vale ad illustrare il problema: possono esistere ottime ragioni per dubitare della regolarità anche solo dei voti degli elettori in quanto tali; e non è necessariamente assurdo che contestazioni di maggior momento, come quelle relative alle elezioni popolari, raggiungano il Congresso. Se non altro nel caso in cui non sia stato possibile risolverle altrove.
Dopo il caso del 1876, occorse un intero decennio di negoziati politici perché si arrivasse infine, nel 1887, ad un ambizioso tentativo di colmare le lacune del Dodicesimo Emendamento mediante una legge federale apposita: l’Electoral Count Act, tuttora in vigore.
Per la verità, si discusse se il Congresso avesse il potere di vincolare in questo modo i successivi Congressi nell’esercizio di una prerogativa costituzionale, e perfino se la legge fosse effettivamente una legge oppure una norma di procedura parlamentare (joint resolution) approvata in forma di legge, ma che le due Camere potrebbero modificare di comune accordo, senza bisogno di approvazione presidenziale. I dubbi sulla costituzionalità, in particolare, sono riaffiorati periodicamente, se possibile crescendo anche di numero; tra le molte, la domanda fondamentale è se il Congresso, o in verità chiunque altro, abbia un potere di sindacato e controllo, piuttosto che di semplice riscontro ragionieristico, sui voti degli Elettori, visto che il Dodicesimo Emendamento non ne parla. L’Electoral Count Act presuppone la risposta affermativa,[12] ma, in assenza di una revisione costituzionale e anche di un intervento della Corte Suprema, come pure di novità legislative, i dubbi possono solo persistere. O forse deflagrare.[13]
Comunque stiano le cose, trattandosi della procedura in vigore per tutto ciò che va dalla designazione degli elettori fino alla soluzione delle controversie sui voti da loro espressi e alla proclamazione del risultato finale, l’Act merita un’illustrazione accurata. Anche perché, purtroppo, i suoi interpreti concordano su un punto solo: la gravissima ambiguità di alcune disposizioni di importanza cruciale.
Anzitutto, però, è bene spendere due parole sullo status quo ante.
Era ancora in vigore la legge approvata in vista della prima elezione presidenziale da tenersi con la Costituzione “a regime”, il 1 marzo 1792. Legge che, oltre a fissare i giorni per la designazione degli elettori e l’espressione del loro voto, aggiunse alla redazione dei relativi documenti da parte loro (prevista dalla Costituzione, come poi dal Dodicesimo Emendamento) una documentazione supplementare da parte del governatore dello Stato sulla designazione, che gli elettori avrebbero dovuto poi spedire insieme con la propria. La seduta congiunta per l’apertura dei documenti e il conteggio dei voti era fissata al secondo mercoledì di febbraio. Ma in tutto questo, non era nemmeno presa in considerazione la possibilità di contestazioni.
In proposito si erano, invece, espressi i due rami del Congresso, nell’esercizio della loro facoltà di autoregolamentazione, nel 1865: lo scopo, alla fine della Guerra di Secessione, era poter scartare i voti degli Stati “ribelli”.[14] Venne quindi approvata la ventidueesima “Regola congiunta”:[15]
“Se, dopo la lettura di uno qualsiasi di questi documenti da parte degli scrutatori, sorgerà una qualunque questione riguardo all’inclusione dei voti ivi documentati nel computo, la medesima, nela formulazione stabilita dal Presidente [della seduta congiunta], sarà sottoposta, prima dal Presidente del Senato a quell’organo, e poi dallo Speaker alla Camera dei Rappresentanti, e nessuna questione sarà decisa in senso affermativo, e nessun voto cui vi sarà obiezione verrà contato, se non in forza delle votazioni concordi delle due Camere; le quali votazioni delle due Camere dovranno essere riferite al Presidente [della seduta congiunta] e da lui annunciate. Su tali questioni non vi sarà dibattito. E in questo stesso modo sarà trattata e decisa ogni altra questione pertinente all’oggetto della seduta delle Camere riunite.”.[16]
Parlando de “i voti” inclusi nel documento di un governatore, la Regola XXII ha in mente proprio il loro insieme, l’obiezione in blocco a tutti i voti di uno Stato; e prevedendo una decisione senz’alcun dibattito – oltretutto con una logica di forte sospetto nei confronti degli Stati visto che, per superare l’obiezione, serve l’accordo dei due rami – di fatto attribuisce a ciascuna Camera un potere di veto rispetto alla generalità dei voti elettorali.
Non si può capire una misura così estrema se non si considera che, già prima della guerra o che la schiavitù diventasse “il” problema, il Nord e il Sud esprimevano due visioni politiche nettamente diverse: per quelli, eredi in ciò dei Federalisti, gli Stati Uniti erano un’Unione; per questi erano, appunto, “Stati Uniti”, con un governo centrale dotato solo di poteri delegati, non già conferiti in permanenza.[17] Cosicché, giusto per fare un esempio, durante la crisi del 1832, la Carolina del Sud si sentì in diritto di dichiarare nulla la tariffa doganale federale.[18] Antebellum, in verità, vi era un consenso generale sulla liceità astratta della secessione, ma esso si dissolse allorché i primi colpi vennero sparati a Fort Sumter;[19] misure draconiane vennero prese per assicurare la vittoria e la Corte Suprema, rispetto all’introduzione del greenback a corso forzoso, dichiarò che tutto era lecito pur di preservare l’Unione indissolubile, anche ciò che la Costituzione normalmente vietava.[20] Al termine del conflitto più sanguinoso della storia – che è tuttora tale, in proporzione al numero degli abitanti – il Nord non era soltanto animato da spirito di vendetta, o da brama di saccheggio indiscriminato in danno dei vinti: voleva anche impedire che gli Stati del Sud tornassero ad esercitare qualcosa di simile al potere paralizzante che avevano avuto nei decenni precedenti. Tanto più che l’emancipazione degli schiavi, aumentando il numero dei loro cittadini, ne avrebbe accresciuto di molto la rappresentanza in Congresso e tra gli Elettori.[21]
Ma, sebbene la causa unionista avesse trionfato sul campo, il Sud non ammainò la bandiera dei diritti degli Stati. E, circostanza ancor più singolare, in un certo senso non la ammainarono neppure le stesse istituzioni federali: il principio per cui l’Unione ha solo i poteri espressamente conferiti e, addirittura, in tutto i singoli Stati sono considerati entità sovrane viene ancora adesso ribadito dalla Corte Suprema, benché le attribuzioni concretamente riconosciute al governo federale siano infinitamente più ampie, e “States’ rights” è tuttora vivo come slogan politico. Vivo ed efficace, si direbbe: nel Dopoguerra fu abbracciato dai Democratici, in origine il partito di Jackson, che era stato un unionista fervente; e il Partito Democratico fece del Sud la propria roccaforte, il c.d. Solid South, per un secolo esatto, fino a quando cioè Lyndon Johnson, nel 1965, firmò il Voting Rights Act, per assicurare l’effettività del diritto di voto ai cittadini di colore; da allora, nel giro di una ventina d’anni, il Sud è passato armi e bagagli al Partito Repubblicano ed esso, sostanzialmente nato con Lincoln, ha fatto propria (almeno a parole) anche la causa del “governo limitato” e dei “diritti degli Stati”.
Non sorprende davvero, dunque, che i rappresentanti del Sud, all’indomani della guerra, abbiano cominciato ad alzare la voce contro questo potere di privare del voto a capriccio ogni e qualsiasi Stato. D’altro canto, il suo sostanziale mancato esercizio, il carattere assai più innocuo delle questioni del 1872 e il semplice trascorrere del tempo dovevano renderlo sempre meno necessario anche agli occhi di coloro che l’avevano voluto. Anche perché non mancava il timore che la Camera dei Rappresentanti, rigettando abbastanza voti, potesse provocare un ballottaggio e rendersi così arbitra di qualunque elezione presidenziale.[22]
La crisi Hayes/Tilden ebbe il pregio di far emergere sia la possibilità di casi estremi, rispetto ai quali non poteva bastare un potere arbitrario, sia l’esigenza di superare la Regola XXII, sia la necessità di una riforma più ampia di tutta la materia; il principale contrasto rimaneva la contrapposiione tra Repubblicani e Democratici, con questi ultimi contrari per principio a un intervento legislativo federale, da loro equiparato ad un’incostituzionale intrusione nei diritti degli Stati. Dopo un decennio di dibattiti, in cui tra l’altro si tenne ampio conto di tutti i casi pregressi di obiezioni a voti, l’Electoral Count Act fu infine approvato in un’atmosfera più distesa; ma non è da escludersi che certe sue ambiguità siano frutto – necessario o meno – degli sforzi di compromesso.
[1] Cfr. N. L. Colvin – E. B. Foley, The Twelfth Amendment: A Constitutional Ticking Time Bomb, in University of Miami Law Review 64 (2010), pagg. 475-534.
[2] V. amplius, anche per gli opportuni riferimenti circa i singoli episodi, V. Kesavan, Is The Electoral Count Act Unconstitutional?, in North Carolina Law Review 80 (2002), pagg. 1653-1814, qui 1678-93.
[3] Cfr. B. Ackerman – D. Fontana, Thomas Jefferson Counts Himself into the Presidency, in Virginia Law Review 90 (2004), pagg. 551-643.
[4] J. Maskell – T. J. Halstead – A. Welborn – G. Burkes, Electoral Vote Counts in Congress: Survey of Certain Congressional Practices, CRS Report for Congress, 13 dicembre 2000, pag. 5.
[5] “There were seven objections raised to counting the electoral votes of Louisiana, based on arguments that there was no canvass and counting of the votes in Louisiana, that the certificate was not made according to law, that electors were not chosen according to law, which findings were arguably made earlier by the Senate Committee on Privileges and Elections. Both the House and the Senate agreed not to accept the electoral votes from Louisiana.”. Ibid., pag. 15.
[6] Cfr. S.A. Siegel, op.cit., pagg. 580-1.
[7] Cfr. amplius ibid., pagg. 16-22, che aggiunge questioni minori.
[8] Va forse precisato che i voti in gioco erano tre, mentre il margine di Kennedy arrivava a ottantaquattro.
[9] Ma “In that instance, the elector whose vote was challenged was from a state that did not by law ‘bind’ its electors to vote only for the candidates to whom they were pledged. The instance of a ‘faithless’ elector from a state that does, in fact, bind the elector by law to vote for the candidate to whom listed or pledged has not yet been expressly addressed by Congress or the courts.”. J. Maskell – E. Rybicki, Counting Electoral Votes: An Overview of Procedures at the Joint Session, Including Objections by Members of Congress, CRS Report, 15 novembre 2016, pag. 6.
[10] In effetti, al Senato vi fu un solo voto contro l’accettazione degli elettori dell’Ohio: veramente un caso limite.
[11] Cfr. L. A. Caldwell, Despite Objections, Congress Certifies Donald Trump’s Election, NBC News, 6 gennaio 2017.
[12] “In fact, our jurists and statesmen have greatly disagreed and do still greatly disagree as to what the constitution does assign or leave to the Congress on the one hand and to the states upon the other. At last, however, the view seems to have prevailed that what the constitution does not itself regulate, or order or authorize the Federal government or some branch thereof to regulate, or order the states to regulate, or authorize the Federal government to order the states to regulate, is left to the states in full discretion; and that what the constitution authorizes the Federal government to regulate, without designating which branch thereof is thus empowered, is to be regulated by the usual course of legislation, i.e. by an act passed by both Houses of the Congress and approved by the President or, if not approved by the President, repassed by a two-thirds majority of each House. These are the principles upon which the Electoral Count law’ of February 3, I887, rests, whose provisions it is the purpose of this paper briefly to explain.”. J.W. Burgess, op. cit., pag. 634.
[13] L’unica trattazione esaustiva del problema, nel senso dell’incostituzionalità, per quanto ne so è V. Kesavan, op.cit.
[14] Il nome ufficiale del conflitto, da loro, non è “Guerra di Secessione” e neanche Civil War, ma War of the Rebellion. Che è poi la giustificazione costituzionale per la chiamata alle armi disposta da Lincoln, tanto per cominciare.
[15] Sorta di regolamento parlamentare approvato dalle due Camere, che è vincolante, però deve essere nuovamente approvato ad ogni nuova elezione, perché si ritiene che un Congresso in carica non possa mai vincolare il successivo (par in parem non habet imperium).
[16] “If, upon the reading of any such certificate by the tellers, any question shall arise in regard to counting the votes therein certified, the same, having been stated by the Presiding Officer, shall be submitted, first by the President of the Senate to that body, and then by the Speaker to the House of Representatives, and no question shall be decided affirmatively, and no vote objected to shall be counted, except by the concurrent votes of the two houses, said votes of the two houses to be reported to and declared by the Presiding Officer, and upon any such question there shall be no debate; and any other question pertinent to the object for which the two houses are assembled may be submitted and determined in like manner.”
[17] Non per caso, infatti, gli Stati del Sud scelsero di formare una “Confederazione”, anziché un’Unione, e nella loro carta costituzionale – pressoché identica a quella statunitense, ma appunto per questo meritevole di attenzione nelle poche differenze – parlarono di poteri “delegati”, non già “conferiti” al governo confederale. E si può anche aggiungere che, sebbene anche per loro il Presidente fosse il comandante in capo dell’esercito, Jefferson Davis incontrò problemi enormi a gestire quelli che erano – di fatto ma, in una certa misura, anche di diritto – tanti eserciti autonomi quanti i singoli Stati. Ma forse l’esempio migliore è la bandiera: quelli che tutti conosciamo come la bandiera confederata era, in realtà, propria dell’esercito della Virginia, l’unico che, a rigore, fosse sotto il comando di Robert E. Lee.
[18] La schiavitù, oltre a presentare una questione morale, era insieme un problema economico e una materia costituzionale, perché la Costituzione federale lasciava liberi i singoli Stati di decidere se introdurla (alla loro costituzione in Stati), mantenerla o abolirla; quanto più il Sud si convinceva che questo diritto degli Stati non sarebbe stato rispettato, tanto più la “peculiare istituzione” diveniva una faccenda di vita o di morte, legandosi a filo doppio con quella che era, di per sé, una visione politica ben più ampia.
[19] Cfr., con tutta la ricchezza di dettagli e riferimenti che si può desiderare, R. Luraghi, Storia della guerra civile americana. Vol. I – Nord contro Sud: la sanguinosa epopea che divise l’America, Milano 1994 (ed. or. 1966), pagg. 178-226.
[20] Cfr. Legal Tender Cases, 79 U.S. 457 (1870). A ulteriore riprova della delicatezza della questione, solo due anni prima la stessa Corte (ma con due giudici di meno) aveva dichiarato incostituzionale il greenback.
[21] Nel testo originario della Costituzione, gli schiavi, che ovviamente non potevano votare, contavano però per l’assegnazione dei seggi agli Stati, ma solo nella misura di tre quinti del totale; dunque l’emancipazione comportava per ogni Stato un guadagno netto di seggi corrispondente al 40% di tutti i suoi schiavi (in assenza di emigrazione).
[22] Riferimenti in V. Kesavan, op. cit., pagg. 1676-7, testo e note.
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