Rappresentazione giapponese di San Francesco Saverio (XVII sec., Museo cittadino di Kobe, Giappone, da wikimedia.org)
Dall’epistolario di San Francesco Saverio.
La traduzione della lettera, leggermente ammodernata dalla Redazione per renderla più comprensibile ai lettori, è cavata dall’edizione curata nel 1716 dal padre Giuseppe Antonio Patrignani sj.
Il taumaturgo braccio destro di San Francesco Saverio, il braccio che battezzò migliaia e migliaia di pagani.
(Chiesa del Gesù, Roma)
Ai Padri della Compagnia a Roma
Da Cochin, il 12 Gennaio 1544
Io, con Francesco Mansiglia, sto nella Missione di Comorino, dove i Cristiani sono in gran numero e ogni giorno vanno crescendo. Subito che ci arrivai domandai loro che cognizione avessero di Cristo Nostro Signore. Poi mettendomi a interrogarli sopra gli articoli principali di nostra Fede, qual fosse il lor sentimento, ò se niente credevano adesso che quando eran Pagani. Altro i meschini non rispondevano se non che d’essere Cristiani e, per non saper parlar Portoghese di non sapere i misteri e precetti della Religione Cristiana. Pertanto, non intendendo io la loro lingua né essi la mia, poiché io parlavo spagnuolo ed essi malabáro, feci una scelta d’alcuni fra loro dei più svelti e capaci e poi con gran diligenza andai in cerca di chi l’una e l’altra intendesse.
Poi essendoci per più giorni trovati insieme in un luogo, ci mettemmo unitamente e con sommo stento a tradurre in favella malabára il Catechismo. Io subito che me l’ebbi imparato, detti principio ad andarmene intorno a tutt’i luoghi di quella spiaggia radunando a suono di campanello ragazzi e uomini.
Congregati tutti in un luogo, due volte al giorno insegnavo la Dottrina Cristiana e in tempo d’un mese i bimbi la impararono benissimo a mente, con ordine che l’insegnassero poi a quei di casa loro e ai vicini. Ogni Domenica adunavo in chiesa uomini, donne, fanciulli e fanciulle e tutti venivano volentieri e con gran desiderio di sentirmi parlare. Io allora a vista di tutti, dando principio dal segno della Santa Croce, recitavo a voce alta il Pater noster, l’Ave Maria e il Credo in linguaggio lor proprio, seguitandomi essi e replicando quello che io a poco a poco dicevo. Di questa alternanza avevano essi gran gusto. In recitare il Credo però dicevo solo un articolo e poi mi fermavo, domandando se lo credevano fermamente e tutt’insieme, alzando la voce, e messe le braccia al petto in forma di Croce, dicevano di crederlo fermamente. Ordino loro che dicano il Credo più spesso che le altre orazioni e nel medesimo tempo insegno che Cristiani si chiamano quelli che credono le cose contenute nel Credo.
Dopo la spiegazione del Simbolo insegno loro i precetti del Decalogo, in cui si contiene tutta la legge del Cristiano, dicendo che chi osserva tutto quello che in essi dieci precetti comandasi deve dirsi buon Cristiano e conseguirà in premio la vita eterna. Al contrario chi lascerà di osservarne uno solo dovrà dirsi cattivo Cristiano e ne avrà in pena l’Inferno se non si penta d’aver fatto quel male. Udendo queste cose i Neofiti e i Gentili restano meravigliati e veggono quanto santa sia la legge Cristiana e quanto sia d’accordo colla ragione.
Dopo il Credo fo che recitino il Pater noster e l’Ave Maria io innanzi e poi ripigliando essi quello ch’io dico. Nel recitare il Credo tengo questo modo. Mi fermo dopo ogni articolo facendo dire un Pater e un Ave con questa orazione cantata nella loro lingua, precedendo io con dire: “Gesù Figliuolo di Dio vivo, dateci grazia di credere fermamente questo primo articolo della Fede. Per impetrar questa grazia vi offriamo questa orazione da voi composta“, e qui recitiamo il Pater noster; e poi diciamo quest’altra Orazione alla Vergine: “Santa Maria, Madre del nostro Signor Gesù Cristo, impetrateci dal vostro dolcissimo Figliuolo di credere senz’alcun dubbio questo articolo della Fede Cristiana, e qui recitiamo l’Ave Maria. E così mano a mano per gli altri articoli.
I precetti del Decalogo l’inculchiamo in questa maniera. Cantato che abbiamo il primo precetto ch’è d’amare Iddio, subito tutt’insieme oriamo così: “Gesù Cristo, Figliuolo di Dio vivo, dateci grazia di amarvi sopra tutte le cose“. E a questo fine soggiungiamo l’Orazione Domenicale. Indi tutti insieme recitiamo l’altra Orazione alla Beata Vergine: “Santa Maria, Madre di Gesù Cristo, impetrateci dal vostro Figliuolo che osserviamo davvero il duo primo precetto“. E poi diciamo l’Ave Maria. L’istesso modo usiamo negli altri nove precetti mutando solo qualche parola nell’orazioncina intercalare.
Queste sono le cose che loro inculco per avvezzargli a domandarle al Signore nelle solite preghiere e prometto loro che se impetreranno le dette cose conseguiranno eziandio l’altre e il più largamente che mai possano desiderare. Ordino a tutti che recitino la formola della Confessione generale ovvero il Confiteor e a quelli massimamente che devono battezzarsi, ai quali nel recitare il Credo domando ad ogni articolo se credano senza dubbietà nessuna. Risposto che hanno di sì, soglio usare un discorso esortatorio, composto in lingua loro, in cui esplico sommariamente le cose necessarie alla salute; e in tal modo istruiti poi li battezzo secondo il rito di Santa Chiesa, e concludo tutta questa istruzione con la Salve Regina in cui domandiamo l’aiuto e l’intercessione di Maria Vergine.
Quanti siano quegli che si battezzano e così entrano nell’Ovile di Cristo si può da questo cavare, ché spesso m’accade d’aver le mani stracchissime e come rotte per la fatica del battezzare, qualche volta occorrendomi di dover battezzare ogni giorno villaggi interi. E m interviene ancora più volte che dal si spesso ripetere il Credo e le altre cose che si dicono conferendo il Battesimo, mi manca, infiochita, la voce e non mi reggono le forze.
È incredibile il frutto che si trae dal battesimo dei pargoletti e dall’ammaestrar che si fanno gli uomini ed i fanciull, i Spero che tali fanciulli col divino auto abbiano a essere assai migliori che i lor parenti. Hanno una buonissima inclinazione alla Santa Legge di Dio e un gran desiderio d’imparare la Dottrina Cristiana e di insegnarla anche agli altri. Odiano come la peste l’Idolatria e tant’oltre arriva quest’odio che non guardano mica d’inimicarsi e di romperla coi Pagani e di riprendere persino il padre e la madre e venire a me ad accusargli semmai li veggano idolatrare.
Io, dovunque so che sia stato fatto qualche sacrifizio idolatrico, colà subito me ne volo con una squadriglia di fanciullini, perchè al Diavolo più dispiace lo scorno e smacco che gli fanno i ragazzi, ché non gli piace l’onore e culto che riceve dai genitori di essi ragazzi. Questi, da per loro, danno l’assalto alle statue degl’Idoli, le buttano a terra, le spezzano, le sminuzzano, le sporcano di sputacchi, le calpestano coi piedi e per giunta le caricano d’improperi.
Fermandomi quattro mesi in una Città Cristiana per tradurre il Catechismo da ogni parte veniva a trovarci un concorso grande di quei paesani pregandoci ch’andassimo alle loro case a pregar Dio sopra i loro malati. Era tanta la moltitudine degl’infermi che per la medesima causa si sforzavano trascinandosi di venire, che il solo recitare a ciascheduno il Vangelo era una somma briga. E pure a ogni modo non si tralasciavano le altre faccende quotidiane d’istruire i fanciulli, di battezzare i convertiti, di tradurre il Catechismo, di rispondere ai dubbi e di seppellire i morti. Avrei voluto io soddisfare non solo a quelli che che quantunque ammalati mi venivano a ritrovare, ma a quegli altri ancora i quali mi mandavano a pregare che io andassi da loro, acciocché non si raffreddassero nella fiducia e affetto verso la Cristiana Religione, parendomi una crudeltà il mancare di condiscendere a così giuste domande; ma essendo io solo non potevo supplire a tutti, né sfuggire che non entrassero in picca giacché ognuno voleva essere il primo a menarmi in sua casa. Io però che feci? Trovai un ripiego con che poter soddisfare a tutti. Non potendo io andare in mia vece mandavo dei fanciulli da me istruiti, i quali, arrivati alle case delle persone malate, convocavano i domestici tutti e i vicini e recitato insieme con loro il Credo, animavano gl’infermi a sperar la salute e poi recitavano le solite Orazioni della Santa Chiesa. Che più? Iddio mosso dalla fiducia e divozione dei fanciulli e degli altri circostanti rendé a moltissimi la sanità sì del corpo come dell’anima. E certo che segnalatissima era la grazia che Iddio faceva agl’Infermi imperciocché dalla malattia pigliava occasione di guarirgli nell’anima e di tirarli quasi per forza alla fede. Ho dato ordine a questi stessi fanciulli d’andare a insegnar la Dottrina Cristiana per le case, per le vie e per le piazze a chi non la sa, il che, mentre vedo che riesce bene in un luogo io mi porto a prescrivere e tenere il medesimo tenore in un altro e così, di mano in mano, vado facendo per ogni luogo. Fornito che ho di girarli tutti, si torna col medesimo ordine a fare il medesimo in ogni luogo, lasciandovi nel partirne una copia di Dottrina Cristiana, con ordine insieme a chiunque sa scrivere che la trascrivano, gli altri che la imparino a mente e non lascino di recitarla ogni giorno.
Di più lascio quest’ordine: che ogni festa, congregati tutti in un luogo, cantino le principali cose della Dottrina Cristiana. In ciascun villaggio dei Cristiani, che sono da trenta, ho deputato persone capaci che siano soprastanti alla detta Dottrina Cristiana e per mercede a costoro il Viceré delle Indie Martino Alfonso, amorevolissimo della nostra Compagnia e della Cristiana Religione per l’affetto che porta ai nuovi Cristiani, ha assegnato a nostra petizione quattro mila scudi d’oro che dicon Fanài. Questo Signore nostro, veramente amicissimo, vorrebbe che qua venissero alcuni della nostra Compagnia e ne fa egli al Re di Portogallo una caldissima istanza.
Moltissimi in queste parti non si fanno Cristiani perchè non c’è chi li faccia tali. Per la qual cosa mi viene spesso in mente d’andare intorno girando per le Accademie d’Europa e per quella massime di Parigi e con quanta voce ho in gola a modo di pazzo gridare e scagliarmi contro chiunque ha più di sapere che di carità con queste parole: Oimhè, quanto gran numero d’anime, escluso per colpa vostra dal Paradiso, precipita nell’inferno!
Piacesse a Dio che in quella guisa che attendono alla letteratura si prendessero pensiero di queste anime per poter così render conto a Dio della scienza e dei talenti lor confidati. Certo che molti di loro, mossi da questo pensiero si ritirerebbero, un poco negli Esercizi Spirituali a considerare le cose eterne per sentir le voci del lor Signore nel cuore e noncuranti delle cose di questa terra e senza badare alle loro voglie, tutti starebbero sul formarsi strumenti idonei secondo il piacere e voler di Dio e griderebbero di tutto cuore al Signore: Eccomi pronto, o Signore, mandatemi pur dovunque vi piace e perfino anche all’India!
O Dio buono, quanto più sicuri e contenti vivrebbero. O con quanta maggior fiducia nella divina clemenza si presenterebbero in punto di morte innanzi a quel divino Giudizio che niun può sfuggire. Oh, come animosamente potrebbero dire con quel servo evangelico: Domine quinque talenta tradidisti mihi: ecce alia quinque superlucratus sum.
Che se quanto stentano notte e giorno per apprendere le scienze, altrettanto di fatica mettessero in raccogliere il frutto solido del sapere; e se quanta diligenza usano in comprendere quelle arti che studiano la stessa usassero in istruir gl’ignoranti insegnando loro le cose necessarie per la salute, sarebbero certissimamente un poco più apparecchiati a rispondere al Signore quando dirà: Su, via: rendi conto della tua vita. O Dio! O Dio! quanto temo che coloro i quali attendono nelle Scuole agli studi delle scienze abbiano più la mira all’apparenza degli onori e dignità ecclesiastiche che ai pesi, i quali vanno coperti sotto queste belle apparenze. Imperocché veggio ridotte a tale stato le cose che quegli i quali agli studi delle scienze maggiori con maggior diligenza s’impiegano manifestamente, fanno vedere di farlo per uccellare colla loro dottrina a qualche dignità ecclesiastica e in tal modo impiegar l’opera loro in servizio di Dio e della Chiesa. Ma pigliano i miseri un grosso errore, mentre tirano quegli studi all’interesse privato più che al pubblico bene. E perchè dubitano che Iddio non s’acconcerà al gusto loro, non si vogliono totalmente abbandonare nel suo divino volere.
Chiamo Iddio in testimonio d’aver quasi quasi risoluto, giacché non debbo più tornare in Europa, di scrivere all’Accademia Parigina e nominatamente ai Maestri nostri, il Corneo e il Picardo, per far loro vedere quante migliaia di Barbari si potrebbero con somma facilità convertire se qua ci fossero degli uomini, i quali cercassero non i propri, ma gl’interessi e l’onor solo di Gesù Cristo. Perciò, fratelli carissimi, pregate il Signore ut mittat operarios in messem suam […]