di Lorenzo Roselli
Qualche giorno fa, in seconda serata, La7 ha ritrasmesso una pietra miliare di inizio anni ’80: La patata bollente di Stefano Vanzina (in arte “Steno”).
Non esattamente la più brillante delle commedie interpretate da Renato Pozzetto, La patata bollente è divenuta negli ultimi anni l’opera cinematografica impegnata del comico milanese e in tal senso abbastanza celebrata, soprattutto in considerazione della questione su cui si sofferma: l’accettazione (o mancata tale) dell’omosessualità.
In verità, nel film di Vanzina sono presenti ripetuti e attenti accenni al movimentismo omosessuale che in taluni momenti sovrastano sulla scena persino la stessa denuncia dell’emarginazione e della violenza verso persone con tendenze omosessuali, così distinguendosi da classici antecedenti (e probabilmente più di valore) come Una giornata particolare di Ettore Scola e Il vizietto di Édouard Molinaro.
Nella pièce cinematografica sono infatti contenuti rimandi all’identità politica omosessuale, all’idea di una presunta liberazione della stessa, al matrimonio tra persone dello stesso sesso; nella libreria a tema gay in cui lavora il co-protagonista del film, Claudio (interpretato da Massimo Ranieri), campeggia anche un numero di Fuori!, associazione e rivista di politicizzazione dell’omosessualità a cui collaborò il teorico della critica omosessuale Mario Mieli.
Tuttavia, quest’opera pozzettiana cosparsa qua e là di scene vernacolari di quel sudicio erotico tipico (ad onor del vero) del cinema a cavallo tra i ’70 ed ’80, quarant’anni dopo può indurci qualche riflessione interessante che motivano l’esistenza stessa di questo articolo che, come avrete già inteso, non intende essere una recensione del film.
Sarebbe ridondante oltre che fondamentalmente scorretto nei confronti della ricostruzione storica, soffermarci sulla “paradossale intolleranza” del mondo comunista nei confronti del giovane omosessuale soccorso dall’operaio ed ex-pugile (proprio come Marco Rizzo, fra l’altro) Bernardo, impersonato da Pozzetto.
Anzi, forse l’unica cosa di paradossale che vi è nelle sequenze del film sono i neofascisti che aggrediscono i personaggi principali, una versione macchiettistica di San Babila ore 20: un delitto inutile con tanto di svastiche in bella mostra sulle moto da centauri.
Non vi è niente di ipocrita nell’atteggiamento di Bernardo, Maravigli e dei vari compagni del Consiglio di fabbrica; il Partito Comunista Italiano sul finire degli anni ’70 considerava effettivamente l’omosessualità una condotta antipopolare dettata dallo stile di vita borghese.
Senza citare le note tesi demodè del secondo segretario del partito Palmiro Togliatti che, oltre all’omosessualità, si oppose categoricamente anche all’istituto del divorzio, reputiamo significative le parole (mai ritrattate) che l’allora segretario della FGCI (Federazione Giovani Comunisti Italiani) Enrico Berlinguer, padre dell’eurocomunismo, utilizzò in un editoriale della rivista Gioventù Nuova del 1949 per descrivere l’esistenzialista Jean Paul Sartre: «un degenerato lacchè dell’imperialismo, che si compiace della pederastia e dell’onanismo. […] Tra i comunisti non c’è posto per gli omosessuali. Invertiti e pederasti sono solo gli avversari borghesi».
Il PCI, il partito che aveva espulso Pier Paolo Pasolini nel 1947 solo in virtù della sua condotta di vita decadente, non fu mai una casa politica per i militanti omosessualisti (cioè coloro che politicizzavano la tendenza omosessuale, leggendola in chiave dialettica come arma contro le presunte istituzioni patriarcali) del film di Vanzina, questo era chiaro a chi il film lo scriveva, lo recitava e all’epoca lo guardava nelle sale.
Leggere il film con la lente d’osservazione dell’ipocrisia di sinistra, cioè secondo l’interpretazione della pellicola che oggi va per la maggiore in recensioni e cineforum, sarebbe un grave errore prospettico; La patata bollente non parla di ipocrisie, ma denuncia un giudizio sulle “stile di vita gay” comune a tutti i settori sociali e le ali del Parlamento di allora (l’ultimo tentativo di proporre un decreto di legge che criminalizzasse l’omosessualità in Italia è del 1963 ed è a firma del Partito Socialista Democratico Italiano di Giuseppe Saragat) a parte i Radicali.
In questi termini sono da inquadrare i continui rimandi alla violenza sanbabilina contro la libreria a tema omosessuale di Claudio, le silenti approvazioni del rogo di questa della gente del quarticciolo, il monologo di Bernardo/Pozzetto «in sede politica» all’interno del Consiglio di Fabbrica sugli omosessuali confinati nei Lager.
Un attacco eminentemente politico alla società italiana del tempo, incapace di accettare quel Tango diverso che il discorso dell’attivismo omosessuale portava nel Belpaese.
La natura ideologica del film che, ripetiamo, non voleva né poteva criticare le ipoteticamente “false dicotomie” tra diritti sociali e diritti civili che tanto si sentono ai nostri giorni nei confronti dei rossi arancio non tendenti al fucsia, non impedisce però di trarre delle conclusioni ex-post, quelle sì metodologicamente corrette perché spinte dalla volontà di inquadrare un prodotto di cultura popolare destinato a un momento storico con le categorie dell’evo contemporaneo, dell’Italia di questo 2020 ormai agli sgoccioli.
Cosa dice dunque La patata bollente a noi, italiani dell’oggi?
Anzitutto che la violenza, il disgusto e la maldicenza per le persone con tendenze omosessuali non hanno alcuna utilità se non quella di ghettizzare le persone che le manifestano, convincerle che debbano fare gruppo sulla base di queste trasformandole, proprio come avviene per il personaggio interpretato da Ranieri, in un’identità politica, un nodo esistenziale al pari di religione e nazionalità.
Un approccio assolutamente fallace sulla questione che nel mondo cattolico integrale non è affatto raro riscontrare, con sovradimensionamenti di questa inclinazione disordinata (una fra le tante ugualmente problematiche) che solo in potenza può convertirsi in peccato (così come i desideri di commettere atti impuri fuori e dentro il matrimonio) o addirittura accettazione passiva di una semantica che parla di identità omosessuali basate su temerari giudizi sul comportamento della persona, su ipotetici tratti “femminei” di quell’uomo o “mascolini” di quella donna.
Lo stesso approccio indelicato alla difficoltà di convivere con queste inclinazioni con facilonerie linguistiche che evocano la cura (spesso avallate da superstizioni protestanti) dimenticando che, come ci rammenta il Concilio di Trento, la castità perfetta nella condizione laicale è una grande occasione di santificazione la quale, parafrasando San Giovanni Crisostomo, «premia con una speciale corona».
Secondariamente, visionare adesso La patata bollente ci permette di sorridere di fronte alla miserie delle filosofie materialiste, in particolare quelle figlie di Adam Smith, Karl Marx, Ludwig von Mises che, nella loro pretesa di trovare una soteriologia terrena definitiva per l’essere umano, non sono nemmeno capaci di essere qualcosa di più di quello che Nicolás Gómez Dávila in Escolios a un Texto Implicito chiama l’uomo più testardo, ovvero quello «che è solamente l’eco dell’epoca in cui vive».
Un invito (senz’altro involontario da parte di chi lo produsse) quello del film vanziniano a non “ascoltare lo spirito dei tempi”, ma servire l’Eternità nella stessa santa ottica con cui Nostro Signore in ben due vangeli (quello di San Marco e quello di San Matteo) ci prescrive di essere sale della terra.
Una parabola d’altronde che, nel corso Udienza Generale del 5 novembre 1953 rivolta ai Giovani dell’Azione Cattolica, spinse il Sommo Pontefice Pio XII ad affermare con risoluta convinzione che «muoiono gli uomini, anche quelli che sembravano immortali; crollano le umane istituzioni; si succedono, gli uni agli altri, i più impensati tramonti.
E a ogni alba nuova la Chiesa assiste serena ed è baciata dal sorgere di ogni nuovo sole».