Immagine in evidenza: Foto di Allen Beilschmidt sr. da Pexels
di Massimo Micaletti
Necessaria premessa: chi scrive, tra Biden e Trump, preferisce decisamente il secondo e per una marea di motivi, non ultimi le attitudini bellicose della risma che accompagna Joe Perbene e i nomi che il democratico sta indicando per la sua compagine id governo, nomi tra i quali spicca alla Sanità Xavier Becerra, soggetto che meriterebbe un articolo a sé. Basti sapere che è favorevole all’aborto fino alla nascita per smembramento o suzione del cervello, è contrario a che i bambini nati da aborti volontari siano salvati e nella sua attività quale Procuratore generale della California ha perseguito con particolare determinazione le associazioni pro vita e chiuso un occhio su quel che, praticamente alla luce del sole, combinava Planned Parenthood. Insomma, è la personificazione della deriva radicale che ha assunto il Partito Democratico USA su questi e su altri temi: ma non è questa la sede per trattarne.
Veniamo a Trump, per una breve riflessione sugli ultimi sviluppi dinanzi alla Corte Suprema USA.
Come è noto, l’11 dicembre scorso la Corte Suprema ha rigettato il ricorso del Texas e di altri diciassette Stati USA. Ora, per meglio comprendere cosa è accaduto e cosa potrebbe – in linea teorica – ancora accadere, andiamo per punti.
1) Cosa chiedeva lo stato del Texas.
Nel suo ricorso, lo Stato del Texas – poi affiancato da Missouri, Alabama, Arkansas, Florida, Indiana, Kansas, Louisiana, Mississippi, Montana, Nebraska, North Dakota, Oklahoma, South Carolina, South Dakota, Tennessee, Utah, e West Virginia nonché dallo stesso Trump in proprio – nella persona del suo Procuratore generale Paxton asseriva che i cambiamenti introdotti per l’emergenza covid da Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Georgia nella regolamentazione del voto postale avrebbero reso inattendibili gli scrutini onde detti Stati non avrebbero potuto esprimere voti idonei all’elezione di Joe Biden e, più in generale, del Presidente degli Stati Uniti.
2) Gli argomenti di diritto.
Il ricorso presenta un approccio del tutto inedito innanzitutto perché sorvola sui numerosi contenziosi di diritto statale che Trump aveva fino ad allora proposto e ha continuato a proporre pure in seguito: mentre con i ricorsi di diritto interno, infatti, i riconteggi, anche ove disposti dall’autorità giudiziaria, vengono svolti secondo le medesime modalità dei primi scrutini, se si attacca la compatibilità dei sistemi elettorali locali con la costituzione americana e in generale coi principi democratici si sovverte la partita. In buona sostanza, non si impugna il risultato in sé ma le regole che lo hanno determinato, cosicché il risultato sia invalidato e non certificabile a fini della designazione del Presidente. Tecnicamente, il Texas sosteneva che Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin avevano violato tre articoli della costituzione americana: la Electors Clause (Articolo II, Sezione 1, Clausola 2), che protegge il diritto del cittadino a che il suo voto possa realmente incidere sulla vicenda politica del Paese; la Equal Protection Clause, che vieta norme discriminatorie; e la Due Process Clause, che impone, tra l’altro, un corretto procedimento amministrativo. La violazione consisteva nei processi estremamente inaffidabili e carenti di controlli quanto allo spoglio dei voti postali e nel fatto che le regole in questione fossero state emanate non dai parlamenti locali ma dai Segretari di Stato.
Un secondo punto specifico di questa impostazione – ed è qui che la Suprema Corte ha infulcrato il suo breve provvedimento – è l’interesse che uno Stato della federazione ha alla regolarità del sistema elettorale di un altro Stato. Si può dire che il Texas abbia interesse a che la Pennsylvania emani norme elettorali compatibili con la costituzione e coi principi democratici? La domanda che poneva Paxton, suggerendo ovviamente una risposta affermativa, era proprio questa. Argomenti a favore ce n’erano e ce ne sono, a cominciare dal dato oggettivo che la Pennsylvania – per restare nell’esempio – concorre ad eleggere il Presidente che poi, nell’ambito dei suoi poteri, governa anche i cittadini del Texas; inoltre, è pacifico l’interesse di uno Stato USA a che i principi della democrazia vigano su tutto il territorio della federazione. Per contro, l’autonomia statale è molto forte e radicata sicché configurare il pregiudizio di uno Stato per le norme elettorali di un altro collide coi principi di sovranità e libertà che reggono la federazione.
E’ notevole che i quattro Stati convenuti non siano stati affiancati formalmente da altri Stati ma una memoria a supporto è stata depositata da venti Stati (California, Colorado, Connecticut, Delaware, Hawaii, Illinois, Maine, Maryland, Massachusetts, Minnesota, Nevada, New Jersey, New Mexico, New York, North Carolina, Oregon, Rhode Island, Vermont, Virginia, e Washington) mentre un gruppo di ex uomini di stato repubblicani ha prodotto una breve nota a sostegno della competenza e capacità della Corte anche ala luce di un altro caso tuttora pendente per analoghi motivi e presupposti[1]. La tesi sostenuta da Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin era sostanzialmente della incompetenza della Corte in quanto l’azione legale del Texas sarebbe stata di mero disturbo e del tutto infondata: chiedevano quindi gli Stati in questione – e i loro supporter – di non dare udienza al ricorso perché teso a sovvertire surrettiziamente il risultato elettorale.
3) Cosa ha deciso la Corte Suprema.
Con una breve ordinanza (ossia un provvedimento con cui l’autorità giudiziaria non decide la questione in sé ma stabilisce se abbia o no il potere di deciderla) la Corte Suprema ha dichiarato il “lack of standing”, ossia la mancanza di presupposti perché il ricorrente (il Texas) ottenesse una decisione nel merito. Si tratta di un concetto che si pone a cavallo dell’interesse ad agire e della legittimazione attiva propri del nostro ordinamento: in parole povere e molto semplificando, perché io possa promuovere una causa o comunque prendervi parte devo dimostrare che dalla decisione della lite mi possa derivare concretamente e direttamente un danno o un vantaggio.
Il ricorso non è stato dunque dichiarato inammissibile: la Corte Suprema, cioè, non lo ha ritenuto peregrino o irricevibile come chiedevano i convenuti e come fin troppo frettolosamente lo avevano definito molti commentatori nostrani, ha piuttosto sostenuto che non è stato dimostrato l’interesse specifico del Texas per le modalità con cui Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin hanno condotto le elezioni. La Corte, in sostanza, non ha negato che possa esistere l’interesse statale alla regolarità delle norme elettorali in un altro Stato – e non avrebbe potuto negarlo, dato che in un caso del 24 febbraio 2020, Arizona vs California, nella stessa materia aveva proprio sostenuto che tale prerogativa esistesse – ma che, nella vicenda specifica, il Texas non ne ha data dimostrazione. Il Giudice Samuel Alito, con un inciso nell’ordinanza, proprio facendo riferimento a Arizona vs California ha invece espresso l’avviso per cui la Corte avrebbe dovuto trattare il caso: questa circostanza è notevole in sé, in quanto Alito è di nomina Bush Jr e si reputava da più analisti che i giudici della Corte Suprema nominati dai Bush (Alito, Thomas e Roberts) non sarebbero stati poi così favorevoli a Trump, dati gli attriti tra le due famiglie di magnati, ma può essere ambivalente. Paradossalmente, infatti, il Presidente uscente potrebbe aver tratto maggior vantaggio da un provvedimento che non implica un giudizio sui sistemi elettorali sotto osservazione – lasciando così aperta la questione sulla loro legalità – che da una pronuncia che, magari, li avrebbe assolti da ogni ombra e avrebbe definitivamente precluso ulteriori sviluppi.
4) Gli sviluppi.
La decisione della Corte Suprema, insomma, non abbatte la tesi dell’interesse statale a regolari elezioni in tutta la federazione ma è praticamente impossibile che nella vicenda Trump questo possa avere concrete ricadute. Rudolf Giuliani insiste nel sostenere che non è finita e che ci saranno ulteriori azioni giudiziarie – come in effetti sono state promosse – ma oggettivamente pare una via gravemente impervia se non del tutto preclusa.
E’ quindi cosa concreta e utile prendere per buona la situazione attuale, che a seguito delle certificazioni indica 303 voti per Biden e 232 per Trump.
Trump però ha ancora una via per restare Presidente e sarebbe una via formalmente ineccepibile ma ad altissimo rischio, sia in termini di possibilità di successo che di impatto politico, anche nell’accezione di ordine pubblico. Si tratta della cosiddetta “via costituzionale” di cui Radio Spada ha già dato conto e che è stata approfondita in questo formidabile studio di Guido Ferro Canale. E’ uno scenario per nulla auspicabile per le istituzioni americane, date le fortissime tensioni che genererebbe. Sia chiaro: chi scrive, approfondendo questi temi, è seriamente convinto che le norme adottate Georgia e compagnia, in ispecial modo dalla Pennsylvania, siano gravemente opache in termini di controllo sullo scrutino del voto postale, perciò nella sostanza l’idea è che le doglianze di Trump e del suo staff non siano affatto peregrine. Tuttavia, dato il dispiegamento potentissimo di mezzi di condizionamento sociale a favore di Biden (e lo stato penoso dell’informazione in questi mesi ne ha data ampia evidenza), la reazione a una simile mossa – mossa legalissima, per carità – sarebbe devastante a tutti i livelli. E tornerebbe in gioco la Corte Suprema.
A quel punto, la Corte Suprema dovrebbe sindacare sull’operato del Vice Presidente e del Congresso, in relazione all’effettiva esistenza di irregolarità nelle norme elettorali dei quattro Stati in questione. Ma chi porterebbe avanti questo ricorso? Non certo gli Stati stessi, atteso che proprio nella vicenda Texas vs California la Corte si è dimostrata molto severa nell’esigere la prova concreta del danno subito da uno Stato in materia elettorale. Potrebbero farsene portatori Biden ed Harris personalmente? Non è semplice come sembra, perché finché il Presidente non è in carica per il diritto statunitense è un cittadino come un altro. Potrebbero allora avanzarlo esponenti della campagna pro Biden. Ma va compreso in qual modo e facendo appello a quali clausole costituzionali, posto che il pivot di tutta l’azione sarebbe il giudizio sulle leggi che regolano il voto statale e su quel punto, abbiamo detto, la Corte Suprema è parecchio restia ad entrare.
Insomma, it ain’t over ‘til it’s over, direbbero Oltreoceano: non è finita finché non è finita. Donald Trump è certo di aver subito un torto e non ha quello scrupolo istituzionale che gli suggerirebbe di tirare i remi in barca, anzi contrattacca e appare sempre più evidente che non stia menando a caso ma che, all’opposto, la strategia sia quella di tenere aperti tutti i tavoli fino al 20 gennaio, quando spetterà al Congresso regolarsi sul punto.
[1] Brnovich et al. v. Democratic National Committee et al., No. 19-1257
Ultimi commenti