Nota di Radio Spada: continuiamo ad ospitare questo dibattito che tanto appassiona e divide il mondo c.d. “tradizionalista” con questo nuovo intervento di Isabella Spanò che replica ed in un certo senso conclude il proprio ragionamento. Buona lettura!
di Isabella Spanò
In premessa, per una debita riflessione, vorrei esortare alla lettura degli articoli, vicini all’argomento del mio precedente intervento, di Corrado Gnerre (http://itresentieri.it/ci-mancava-anche-il-tradizionalismo-liberale-alcune-riflessioni-in-merito-allarticolo-sulla-catechesi-di-padre-livio/) e di Roberto de Mattei, ospitato da Aldo Maria Valli (https://www.aldomariavalli.it/2020/11/27/tradizionalismo-liberale-e-un-rischio-reale/ ), con i quali non potrei trovarmi più d’accordo.
In nome di un necessario contraddittorio, e anche per suffragare meglio il mio appello a seguire le regole adottate contro il virus, mi trovo a dover rispondere a certe recenti obiezioni al mio scritto pubblicato su questa testata online un po’ di giorni addietro. E, lo ammetto: non voglio proprio lasciar andare minimizzatori e negatori per la loro strada senza un bonario richiamo.
Cominciamo. Anzitutto, senza alcun dubbio, come già detto, il 99% dei sanitari considera l’epidemia di Covid-19 evento grave e pericoloso. Lo riaffermo non tanto perché qualche eminenza grigia in campo scientifico si esprime in tal senso dalle tribune televisive, bensì perché la pensano così gli innumerevoli medici che operano sul campo, a diretto contatto con i malati. E i medici, oltre che gli infermieri e tutti gli operatori, che si trovano a lottare diuturnamente contro le malattie, a curare e a cercare di salvare vite – come fece il padre della scrivente per la maggior parte della propria esistenza – sono davvero degli eroi che sanno bene quali mostri si trovano ad affrontare; e, per questo, persone che meritano rispetto e considerazione in grado massimo – fatte salve le eccezioni che qui come altrove, è ovvio, non possono mancare.
Di sicuro c’è enorme differenza tra “contagiato” e “malato”: lo capisce anche un bambino di cinque anni. Ma la gravità del morbo che ci sta assediando si misura anche dal grado di contagiosità; e sotto questo profilo a nulla vale paragonare il Covid-19 all’HIV o alla TBC asserendo che quelli provocano ogni anno nel mondo, ciascuno, un numero maggiore di morti. Basta infatti una semplice considerazione: se non si fossero adottate drastiche misure di contenimento, quanti decessi ci sarebbero stati e ci sarebbero? Se il contagio è enormemente più facile rispetto al quello del virus che provoca l’AIDS, in mancanza di misure per arginarlo quante persone sarebbero passate a miglior vita, sulla totalità della popolazione italiana? Su canali social, noti epidemiologi hanno affermato – con leggerezza, mi pare – che solo il quattro per cento dei positivi al Covid-19 (tasso di letalità, da non confondere con quello di mortalità) soccombe, e che quindi l’attuale clima allarmistico sarebbe ingiustificato: ma, chiedo io, quid se tutti gli italiani si contagiassero, se tutti fossero positivi? L’estrema diffusività del contagio fa sì che basti un nonnulla a contrarre l’infezione. Ciò posto, si pensi che la popolazione italiana è stimata a fine agosto 2020 di quasi sessanta milioni d’individui: il quattro per cento corrisponde a due milioni quattrocentomila. Non credo ci sia bisogno di commentare questo numero. Dal portale web dell’Istituto Superiore di Sanità, nella pagina dedicata alle grandi epidemie della storia recente – pagina aggiornata nel 2010 e pertanto in tempi non sospetti –, si apprende che la famigerata influenza spagnola “fu eccezionalmente severa, con una letalità maggiore del 2,5% e circa 50 milioni di decessi” nel mondo. Il Covid-19, pertanto, giacché la matematica non è un’opinione, per poco non è il doppio più severo dell’eccezionalmente severa influenza spagnola, arginabile allora con enorme difficoltà, dati i pochi mezzi dell’epoca. E per quanto concerne il paragone con la normale influenza stagionale, all’inizio dell’epidemia, con i primi dati alla mano, Nsikan Akpan e Kennedy Elliott su National Geographic scrivevano: “Al momento, il nuovo coronavirus […] ha un tasso di mortalità del 2%: in effetti il coronavirus è 20 volte più mortale dell’influenza” – il che si mostra coerente con quanto rilevato sopra riguardo alla trasmissibilità della malattia, ipotizzando il contagio di metà della popolazione in mancanza dell’adozione di misure di contenimento.
Un altro punto è pure opportuno affrontare. La funzione educativa del distanziamento richiesto dalla situazione – aristocratico in senso letterale prima del Covid-19 – , non è per niente da sottovalutare, e non è affatto un’idea snob, in una società nella quale la promiscuità è diventata norma e non esiste più quella gradualità nell’approssimarsi all’altro, in ogni senso, propria di un tempo. Eccessivo, questo distanziamento? Non direi, non direi proprio, anche nell’ottica della legge del contrappasso ora subita da molti che negli anni Sessanta e Settanta esaltarono, e praticarono, il sesso libero, le “comuni”, i mercatini dei vestiti usati, i raduni alla Woodstock, il darsi del “tu” tra professori e studenti, il cameratismo tra genitori e figli e, come notò anni fa Maurizio Blondet, i villaggi turistici con la socializzazione forzata.
E poi, crede forse qualcuno, magari per un inconsapevolmente assimilato neorealismo di marca sinistroide, che tale nobiltà di comportamento non giovi a chi frequenta anteprime, matinée e vernissage, e pure spensierati brunch? Se da questa esperienza di contagio montante si sarà saputo trarre qualche frutto, lo sforzo di recuperare il proprio territorio personale, in molteplici occasioni di ritrovo, non potrà che far bene. Assembramento è sinonimo di affollamento, e il titolo di un celebre romanzo è “Via dalla pazza folla”: su una simile intitolazione non credo nessuno abbia mai avuto a ridire. D’altronde, le persone stesse che lodano gli assembramenti in quanto forieri di rosee prospettive per l’avvenire, leggo che definiscono “becera” la folla e si compiacciono del rimanere in solitudine: quindi penso proprio che alla fine dovrebbero essere dalla mia, pena un certo vulnus al principio di non-contraddizione.
Va aggiunto che per la natura stessa delle ondate epidemiche – la storia è maestra – la situazione eccezionale è destinata a terminare tra breve, al massimo tra un anno e mezzo, a stare alla dichiarazione del presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Brusaferro. Perciò anche i giovani che – pur con tutta la vita davanti, a Dio piacendo – guardano con preoccupazione al proprio futuro dovrebbero ben continuare a fare progetti: la realizzazione ne sarà magari un po’ dilazionata nel tempo, ma, dimostrando buona volontà e confidando nell’Onnipotente, ci sarà. Per inciso, anche le strade dell’arte e del cinema sono tuttora decisamente percorribili: ad esempio, a Parma, capitale nazionale della cultura 2020-’21, questi settori hanno sofferto un rallentamento, ma non si sono bloccati.
Certo, chi, come la scrivente, ha alle spalle trent’anni di attività da ispettore del lavoro, oltre a molto studio delle materie relative, non può che essere consapevole delle difficoltà di una gran parte della popolazione italiana nell’attuale amara congiuntura. Difficoltà rilevabili soprattutto dal punto di vista delle intraprese economiche, peraltro già messe a durissima prova da una crisi perdurante dall’ormai lontano 2008, mai affrontata, purtroppo, in modo adeguato dai governi succedutisi fino ad oggi (e qui qualcuno potrebbe rispondermi ragionando della migliore forma di conduzione dello stato o delle pecche della civiltà dei consumi: è un suggerimento, o forse una provocazione…).
Ma, ad ogni buon conto, è un fatto che chiunque, chi gestisce, per dire, un bar o un ristorante, alla pari di chi fa il commesso o il pizzaiolo, dovrebbe cercare di mantenere quella corretta Weltanschauung citata dall’autore della replica al mio primo intervento. Senza dimenticare che sta a noi, se siamo cristiani coerenti e solerti, dare un atteso aiuto, appena possibile materiale, ma prima di tutto morale e spirituale, al nostro prossimo più colpito, di modo che ogni accadimento sia da questo collocato nella giusta ottica, propria del credente allenato a ravvivare in sé fiducia e serenità.
Poi, il raccoglimento tra le quattro mura della propria casa, per chi è solo, e il raggomitolarsi nella cuccia della propria famiglia, per chi ce l’ha, è, sì, senz’altro scomodo per qualcuno; ma non è necessario avere la vocazione alla vita monastica per apprezzare i pregi di questa condizione.
Peraltro, chi parla non ha, né ha mai avuto, attitudine, orientamento o simpatia per un’esistenza passata in convento, ma piuttosto propensione alla socialità e alle questioni connesse, tanto da studiare a suo tempo scienze politiche. E tanto da provare l’istinto di scappar via e di abbandonare per sempre la Tradizione, pur seguita fin da bambina, quando l’anno scorso un sacerdote se ne uscì con l’invito a prendere i voti in ragione dell’ormai non più verde età, attentando alla tuttora ostinata speranza e irriducibile sogno di matrimonio – i giovani imparino.
Chiusa parentesi aneddotica, ribadisco ancora che l’allergia nei confronti di un indispensabile transitorio confinamento non è degna di un cattolico serio.
Quanto ai poveri bambini che rischierebbero sotto il profilo della salute mentale, il pensiero mi corre alle generazioni passate, ai molti piccoli uomini e piccole donne che dovevano camminare per chilometri con scarpe vecchie per arrivare a scuola, o dovevano indossare logori cappotti rivoltati, mangiare pane nero e cipolle e zuppe di polenta per mesi, e che non avevano altro che uno scaldino per non finire intirizziti e un lume a petrolio quando calava la notte. E mi sovviene subito che, nonostante le precarie condizioni di vita, tra guerre, calamità varie e povertà diffusa, proprio loro, una volta uomini fatti e donne fatte, sono stati protagonisti di progressi quasi miracolosi, non ultimo il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta.
I bambini devono imparare che la vita presenta talvolta grandi asperità, e che queste asperità vanno superate. Tra l’altro, il contatto con i coetanei, per quanto virtuale, tra telefonini, tablet e pc non manca di certo, durante quelli che resteranno ancora solo pochi mesi critici e certo non lustri – se cercheremo di far sì, con il nostro modus vivendi responsabile, che il contagio rallenti fino ad esaurirsi.
A latere, riguardo alla scuola parentale va osservato che dal punto di vista etimologico questa è proprio la scuola inglobata nella famiglia, sotto la guida dei genitori; e che non c’è migliore occasione dell’odierna per riportare la funzione educativa ed istruttiva di base in capo a padre e madre. Chi scrive, peraltro, è una fautrice di esperienze come le scuole realizzate in seno alla Fraternità San Pio X, e perciò nel recente passato ha preso informazioni sia a Rimini che ad Albano Laziale, e altrove, nella speranza di riuscire a riprodurre questo homeschooling nella propria città.
Per concludere, a chi potrebbe essere tranquillamente mio figlio, e pur apprezzando il suo augurio, oso dire che il “duro lavoro di forgiatura dell’animo” ce l’ho in buona parte ormai alle spalle, dopo averlo condotto, fin dai primi anni di vita, con discreta alacrità, ritengo. E mi rattrista vedere cattolici tradizionali attribuire alla paura della morte il fatto di essere “paladini della mascherina”: quale visuale ristretta, che non tiene nemmeno conto dei comandamenti del Signore! Perché la vita è per l’uomo “il più gran bene naturale che ha sulla terra” (Catechismo di San Pio X, risposta a domanda n. 412), e quindi è giusto e sacrosanto cercare di preservarla, sia quella altrui che la propria.
Pensiamo tutti quanti, comunque e soprattutto, ad elevare a Dio la nostra fervida preghiera, in questo drammatico frangente. Una preghiera, come recita l’antico catechismo, che “intende chiedere che, come noi siamo stati liberati dal peccato e dal pericolo della tentazione, lo siamo anche dai mali interni ed esterni; che siamo immuni dall’acqua, dal fuoco, dalle folgori; che la grandine non rechi danno alle messi, né ci angustino la carestia, le sedizioni, le guerre” (Catechismo Tridentino, n. 419). E già, proprio così: “chiediamo inoltre a Dio che tenga lontane da noi le malattie, la peste, il saccheggio, le catene, il carcere, l’esilio, i tradimenti, gli agguati e ci eviti tutti gli altri mali, per i quali specialmente la vita umana suole svolgersi nel terrore e nell’affanno, ed elimini le cause di atti disonorevoli e di delitti” (Catechismo Tridentino, n. 419).
Fonte immagine – “Face Mask” by NurseTogether is licensed under CC BY-SA 4.0
Nessuno ( e nulla ) è indispensabile. Fiumi di parole per una canzone mediocre.
Benché trovi deprimente dover sgomitare ogni volta per riuscire a mettere qualche tartina al caviale nel mio piattino, preferisco stare ad ascoltare Silvana De Mari, con tutto il rispetto .
Ma se è vero che la spagnola colpiva soprattutto i giovani, a quel che diceva, ricordando, la mia povera nonna, una testimone dell’epoca, e non invece i più vecchi, che in assenza di cure adeguate, sarebbero dovuti essere spazzati via con assoluta precedenza, e nella quasi totalità, che senso ha raffrontare il comportamento e la letalità delle due pandemie? Così, per capirci qualcosa di più, se fosse possibile…
Che cosa significa in TASSO DI LETALITÀ calcolato sui ( pochi) tamponi, e poi esteso a 60.000.000 ?
leggo su una rivista scientifica, ‘Infezmed’, a riguardo della ” Pandemia influenzale ‘spagnola’ “:
“Scorrendo i necrologi pubblicati sui giornali di quei giorni di settembre del 1918, emerge il numero impressionante di testimonianze di giovani scomparsi “nel rigoglio della giovinezza” e “per un fatale e improvviso morbo” e di donne appartenenti, in genere, alla borghesia italiana. Si era sgomenti perché quella malattia, che in pochi giorni cancellava la vita, COLPIVA PREVALENTEMENTE GIOVANI IN BUONA SALUTE LASCIANDO STARE VECCHI E MALATI.
“Sconcertava il fatto che, in quelle giornate di fine estate, si potesse morire di quella che le autorità sanitarie chiamavano influenza; lasciava perplessi che una malattia, in genere rite- nuta benigna, prevalente nella stagione invernale, potesse FALCIDIARE GIOVANI NEL PIENO DELLE FORZE. Questo riscontro era nuovo, il tasso di mortalità più elevato si registrava negli individui Tra I 15 E 40 Anni, mentre nel passato l’influenza aveva colpito prevalentemente gli anziani, i malati e i por tatori di patologie croniche polmonari”
Allora la nonna, che neppure sapeva leggere, è pur stata una buona testimone…