di Luca Fumagalli
Iniziata, abbandonata e infine completata dopo quasi un decennio, la trilogia Spada d’onore (Sword of Honour) è l’opera più vasta e ambiziosa di Evelyn Waugh, il frutto della maturità artistica, in cui trovano una felice sintesi tutti i registi tipici dei suoi lavori precedenti, dal comico al drammatico, dall’epico al parodico, dall’elegiaco allo psicologico.
Di conseguenza anche i classici temi waughiani della modernità decadente e della religione vengono trattati con rinnovata forza e con la consapevolezza dello scrittore consumato.
La vicenda, lunga e complessa, non priva di colpi di scena, è largamente ispirata all’esperienza dello stesso Waugh durante la Seconda guerra mondiale, influenzata pure da lavori come Il buon soldato o Parade’s End di Ford Madox Ford.
Non mancano nemmeno allusioni più o meno scoperte ad altri grandi autori del cattolicesimo inglese quali, ad esempio, R. H. Benson, G. K. Chesterton e Graham Greene.
Il protagonista della storia è il trentacinquenne Guy Crouchback, ultimo discendente di una delle più antiche e prestigiose famiglie del cattolicesimo inglese, che vanta persino qualche martire risalente all’epoca elisabettiana. Col tempo, però, la gloria e la ricchezza dei Crouchback sono andate via via scemando e ora il padre di Guy, rimasto vedovo, alloggia in una stazione termale, sopravvivendo grazie a una piccola rendita derivatagli dall’aver affittato a un convento di suore la magione familiare di Broome (una delle tante dimore aristocratiche che compaiono nei romanzi di Waugh, simbolo del tramonto di un’epoca).
Guy, autoesiliatosi in Italia dopo il fallimentare matrimonio con Virginia Troy, che nel frattempo non si è fatta troppi scrupoli a collezionare altri mariti e diversi amanti, è un uomo perso, disilluso, sostenuto appena dalla Fede. È un incompiuto, esattamente come quel crociato inglese, Roger di Waybroke, sepolto a Santa Dulcina delle Rocce, il paese in cui Guy vive, morto lì prima di salpare per la Terra Santa.
A scrollare il giovane Crouchback dall’apatia e a ridare un senso alla sua vita, giunge inaspettata la notizia che la Polonia è stata invasa dai tedeschi e dai sovietici, e che ora l’Inghilterra è ufficialmente parte del conflitto: «Meravigliosamente tutto era diventato chiaro.
Adesso il nemico era uno, enorme, odioso, senza maschera.
Era l’Età Moderna in armi. Qualunque fosse il risultato, c’era un posto per lui in quella guerra».
Deciso a servire il proprio Paese, dopo qualche lettera e un fortuito incontro Guy riesce a farsi arruolare come ufficiale nel prestigioso corpo degli Alabardieri, corpo a cui rimarrà fedele fino alla fine della guerra nonostante numerose traversie e disavventure.
Nel primo romanzo della trilogia, Uomini alle armi (Man at Arms, 1952), ambientato tra il 1939 e il 1940, si segue il lungo addestramento di Guy, caratterizzato tra l’altro dall’incontro con Apthorpe, un uomo ossessivo ed eccentrico, destinato a una fine tragicomica, che incarna alla perfezione quel senso di farsa che aleggia intorno al campo degli Alabardieri, tra il fango delle esercitazioni e il tè alla mensa (emblematica, a tal proposito, la querelle scatenatasi intorno al suo bagno chimico).
Col passare dei mesi, la sensazione è che il drammatico, l’epico e lo straordinario si trovino sempre e comunque altrove, tra i campi di battaglia del continente, e che da tutto questo Guy sia irrimediabilmente escluso. A quelli come lui ed Apthorpe tocca piuttosto indossare i panni degli spettatori, inchiodati nelle retrovie sia della battaglia che dell’esistenza.
Del resto anche quando Guy viene finalmente impegnato in una missione di spionaggio sulla costa africana – cosa che accade poco prima dell’epilogo del libro – l’azione si conclude malamente, in una manciata di minuti, senza nemmeno aver scambiato qualche colpo col nemico (da qui il titolo ironico del volume, che allude a uno scontro che, in realtà, non avviene mai).
Ritchie-Hook, lo squilibrato generale il cui corpo martoriato testimonia una lunga esperienza in battaglia nonché una certa propensione per le azioni avventate, è l’unico del gruppo a tornare con un macabro trofeo, ovvero la testa mozzata di un fante coloniale, buona per essere imbalsamata e messa sul comodino.
L’episodio, condito con una giusta dose di splatter, si situa in uno scenario più vasto che dimostra come nella guerra moderna non vi sia più spazio né per la gloria né per l’onore.
Di più, l’esito del conflitto pare non dipendere nemmeno dall’eroismo del singolo e dalle sue virtù, quanto piuttosto da fattori talmente imprevedibili e folli da sconfinare quasi nell’arlecchinata.
Tuttavia non bisogna commettere l’errore di considerare Uomini alle armi una semplice satira.
La leggerezza dello scrittore inglese è solo apparente e, come appunta Mario Fortunato, «a mano a mano che le avventure di Guy procederanno attraverso quello che è stato il conflitto più spaventoso e orrendo della storia dell’umanità, la parodia, l’humor, il divertimento sfumeranno gradualmente in un dolore e in una commozione che sveleranno a poco a poco l’altra faccia di Waugh, quel suo farci ridere fino alle lacrime – queste ultime essendo alle radici del riso».