di Luca Fumagalli

George Mackay Brown, il “bardo di Stromness”, oltre ad essere stato una delle voci più autorevoli della poesia scozzese del secondo Novecento, ebbe una qualità che è di pochissimi scrittori, quella cioè di saper destreggiarsi con disinvoltura all’interno dei generi più disparati, sfornando ogni volta opere di sicuro fascino. Nel corso della sua lunga carriera diede infatti alle stampe svariati libri di versi, fu romanziere e novellatore di talento – scrisse anche per il teatro – nonché un saggista singolarmente limpido e raffinato. Nella sua penna scorreva quella Fede cattolica a cui si convertì nel 1962, poco più che quarantenne, e la piccola comunità degli abitanti delle Orcadi, soprattutto contadini e pescatori, esposta a un clima inclemente e soggetta ai capricci del tempo che passa, fu per lui una costante fonte d’ispirazione.
L’opera in prosa che meglio esemplifica la poetica di Brown è il romanzo Magnus, se non il suo capolavoro, di certo il libro a cui lo scrittore si sentì sempre maggiormente legato, un testo affascinante ma di difficile lettura, pubblicato in prima edizione nel 1973 e tradotto in Italia nel 1999 dalla piccola casa editrice Tranchida con il discutibile titolo La croce e la svastica (purtroppo il volume non è più in commercio da tempo ed è difficilmente reperibile anche tramite i canali online dell’usato).
Gli eventi che portarono alla stesura di Magnus ebbero inizio quando l’editore Victor Gollancz chiese a Brown di scrivere un libro sulle Orcadi. Lo scrittore sulle prime si trovò spiazzato: non solo non aveva visitato diverse isole dell’arcipelago, ma detestava pure il genere della “guida turistica arguta e intellettuale”, troppo snob per i suoi gusti semplici. Dopo qualche esitazione e ripensamento optò infine per un lavoro miscellaneo, intitolato An Orkney Tapestry, in cui si alternano senza soluzione di continuità articoli, poesie e frammenti teatrali.

Il volume, che vide la luce nel 1969, conteneva anche un breve studio sulle vicende politiche e religiose che condussero nel 1115 al martirio di Magnus Erlendsson, conte delle Orcadi, un uomo nobile e generoso che si spese a lungo per portare la pace in un regno vichingo in cui i saccheggi, le sopraffazioni e le violenze erano all’ordine del giorno. Magnus fu assassinato a tradimento dal cugino Haakon Paulsson, assetato di potere, e le sue spoglie vennero in seguito traslate a Kirkwall, nella cattedrale a lui dedicata. Difatti sin da subito, nonostante le rimostranze del vescovo locale, il conte prese a essere venerato come santo dalla popolazione a motivo delle numerose guarigioni miracolose che avvenivano presso la sua tomba. Per la sua canonizzazione ufficiale fu però necessario attendere fino al 1898.
La storia di San Magnus è raccontata per esteso nell’opera più celebre e rappresentativa della cultura e della storia orcadiana, la Orkneyinga Saga, che Brown amava e da cui aveva già tratto ispirazione per due poesie della raccolta The Storm (1954) e due racconti di A Calendar of Love (1967), sempre dedicati al martirio di Magnus.
Nel 1972 venne aperta una sottoscrizione per raccogliere fondi per il restauro della cattedrale di Kirkwall. In quell’occasione Brown scrisse un testo teatrale, The Loom of Light, da cui il compositore Peter Maxwell Davies ricavò l’opera The Martyrdom of St Magnus e da cui lui stesso, l’anno successivo, trasse il romanzo Magnus, rielaborando la storia del santo in forma narrativa.

Il libro, suddiviso in otto capitoli di diversa lunghezza, segue attraverso alcuni episodi emblematici la vita del protagonista eponimo, dal matrimonio dei genitori fino alla morte e all’iniziale diffusione del suo culto. Inserti teatrali o lirici sono seguiti da lunghe descrizioni evocative, e a rendere ulteriormente evidente la matrice frammentaria del testo, tale da apparire un arazzo – un’immagine metaforica di unità e disgregazione che, tra l’altro, torna più volte nel corso del volume – contribuisce inoltre il mutevole punto di vista che vede alternarsi in un gioco di rimpalli quello di Magnus a quello di una coppia di contadini, Mans e Hild, o a quello di due poveri mendicanti, Jock e Mary. Questi personaggi sono più o meno sempre presenti sullo sfondo della vicenda principale a dare voce agli abitanti delle Orcadi e a commentare quegli eventi, di cui sono soprattutto vittime, come il coro di un’antica tragedia greca. In ogni capitolo si assiste dunque a un salto temporale e a un radicale cambio di prospettiva a cui sovente si associa anche una variazione del registro linguistico; sono presenti persino passaggi di pura sperimentazione come quando, ad esempio, si descrive l’arrivo di Magnus sull’isola di Egilsat al modo dell’inchiesta giornalistica, registrando le testimonianze dei vari abitanti del luogo. Il tutto è calato in un clima da saga epica, a tratti fiabesco, attraversato da echi biblici ed evangelici, e per dare colore alla sua storia Brown attinse ancora una volta a piene mani dalla Orkneyinga Saga, recuperando da essa numerosi dettagli, incluso il vivido ritratto del saccheggio di Anglesey da parte dei vichinghi.
L’episodio centrale del libro è naturalmente quello dedicato alla morte di Magnus, ucciso dopo aver assistito alla messa (l’accorata descrizione della funzione liturgica è uno dei momenti più luminosi e toccanti del romanzo, tra i brani migliori dell’intera letteratura cattolica britannica del Novecento). L’eroismo del protagonista, alter ego di Cristo, trova la sua espressione nella ricerca e nell’accettazione di un destino avverso, unica via per poter finalmente portare la pace nelle Orcadi. Del resto il Magnus di Brown, fatti salvi gli aspetti esteriori della sua parabola biografica, ha poco o nulla a che spartire con la figura storica. Appare quasi come un mistico, una creatura pura, lontana dalle meschinità degli esseri umani, la cui esistenza è stata pensata dalla Provvidenza per un fine potentemente simbolico. Essa si realizza, in sostanza, con il rifiuto di entrare nella scuola del monastero con gli altri compagni, nel rifiuto di combattere in battaglia – preferendo invece soccorrere i feriti – nel rifiuto di unirsi fisicamente alla moglie Ingerth. Come scrive Carmine Mezzacappa, traduttore italiano di Brown, «egli si sente destinato a un ruolo che non è terreno. Ne diventa consapevole quando, in sogno, uno sconosciuto lo avvicina, prima del matrimonio, per avvertirlo che il telaio è stato preparato e verrà cucito per lui un mantello in occasione del banchetto che celebra l’unione di Cristo con la sua Chiesa».

Così nel settimo capitolo, intitolato “L’assassinio”, l’autore scozzese, che pure nella prosa dimostra di non voler rinunciare alla rapida associazione d’idee tipica dei suoi versi, include la morte di San Magnus in un contesto più “ecumenico” che, con uno scarto temporale e spaziale a sorpresa, va a sovrapporsi a un excursus sui sacrifici umani nella cultura pagana e al racconto dell’esecuzione del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer in un campo di concentramento nazista. Passato e presente, per Brown, continuano ad essere in relazione secondo schemi archetipici che si ripetono, ed è proprio per questo che la Storia assume un innegabile valore educativo e spirituale. Cristo e Magnus hanno in comune il ruolo di vittime di tempi sciagurati in cui viene scelta un’offerta sacrificale per inscenare una cerimonia spettacolare che restituisca fiducia, un «Hic est enim corpus meus» che ha il sapore della redenzione di un popolo e della Salvezza eterna.
Il sangue versato dal conte Magnus diventa così semente per le Orcadi e per i cuori dei tanti toccati dalla sua testimonianza; non a caso il libro si chiude con un quadro di placida serenità, con gli onesti abitanti delle isole di nuovo al lavoro, mentre pure agli increduli è dato sperimentare il potere taumaturgico del nuovo santo.
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