di Luca Fumagalli
Chi non conosce Imagine, una di quelle canzoni che ha segnato un’epoca ed è entrata di diritto nella storia. Le note del brano più celebre di John Lennon sono parte di un immaginario che affonda le proprie radici in un mondo in emersione, al termine della cosiddetta “età dell’oro” della Swinging London e della Beatlemania.
L’universo colorato degli anni Sessanta, disinibito nelle speranze tanto quanto lo fu nei costumi, aveva vagheggiato un’utopia di felicità universale che, però, nel decennio successivo era andata clamorosamente a sbattere contro la dura realtà della recessione economica e di una guerra in Vietnam che non accennava a concludersi. Mentre i Beatles annunciavano il loro scioglimento, quello che a molti era sembrato un sogno ad occhi aperti, una “Summer of Love” di estasi ininterrotta, aveva ormai imboccato il viale del tramonto, lasciando dietro di sé una lunga scia di disillusioni.
Nel frattempo, in una villa poco lontano da Londra, John Lennon aveva deciso di inaugurare una nuova fase della sua carriera, per così dire più “autoriale”. L’ex Beatle aveva già pubblicato alcuni lavori insieme a Yoko Ono, dando libero sfogo al proprio estro creativo, ma ciò che ora cercava era una nuova dimensione musicale, un salto di qualità che lasciasse il segno e che contribuisse a riportare un po’ di ordine nella sua esistenza. Le cose, infatti, non gli stavano andando benissimo e lo spettro dell’eroina era sempre dietro l’angolo.
È così che nel 1971 Imagine fece la sua comparsa sulla scena: accordi semplici, tutt’altro che sperimentali, per un testo immediato, accattivante, che facilmente si imprime nella memoria di chi lo ascolta. La canzone è un miracolo hippie che si autocelebra, l’inno di un universo di pace e di uguaglianza da cui è esclusa ogni prospettiva soprannaturale. Perciò dietro la superficie rassicurante di Imagine si nasconde un vero e proprio cuore di tenebra, apparendo in fondo come l’elogio di una distopia anti-umana, figlia del niente, del fallimento esistenziale di una generazione votata – più o meno consapevolmente – alla disperazione.
Nella sua canzone Lennon prefigura un mondo informe, liquido, senza idee né princìpi, i cui abitanti sono ridotti a un ammasso di morti viventi degni di una pellicola di Romero. L’elogio del carpe diem, del vivere aggrappati unicamente all’attimo che fugge, è quel grimaldello che scardina ogni orizzonte valoriale con l’obiettivo di dare all’umanità tutta, finalmente unita, l’aspetto bestiale di un Pan che volteggia soddisfatto in un Nirvana del nulla.
A indagare gli oscuri retroscena di Imagine ci pensa David Nieri con questo ottimo libro, ora in una nuova edizione. Agile, godibile e scritto meravigliosamente, il saggio è una preziosa occasione anche e soprattutto per fare i conti con il retropensiero che è andato a formare l’attuale società secolarizzata. Difatti, a partire dalla canzone di Lennon, il discorso di Nieri si allarga per indagare le radici dello sconforto postmoderno, di quel milieu di rassegnazione e rabbiosa negazione della religione che caratterizza un’umanità priva di bussola, che per vivere crede basti sostituire il sangue con coriandoli colorati e con tante buone intenzioni.
Imagine è dunque quel grigio riflesso dell’uomo e del suo destino che solo uno specchio deformato dall’ideologia e dal nichilismo può produrre. In tal senso John Lennon fu davvero un profeta: la sua oscena “utopia” è oggi diventata realtà.
Il libro: David Nieri, Imagine. Utopia o nichilismo?, La Vela, Viareggio, 2020, pp. 160, Euro 14.