Nota di Radio Spada: Continuiamo, con animo grato, la pubblicazione di articoli del carissimo studioso Guido Ferro Canale, amico di Radio Spada, sul contenzioso in atto riguardo le recenti elezioni presidenziali americane e giunto ormai ai momenti decisivi. Inutile dire che la competenza e l’acribia del nostro scrittore (lui sì un vero competente dal sapere non raccogliticcio e non guitto tuttologo) rendono la fruizione di quest’articolo godibile ed impegnativa al contempo. A tutti voi buona lettura! (Piergiorgio Seveso, Presidente SQE di Radio Spada)
“A torpedo planted in the straits with which the ship of state may at some time come into a fatal collision.”
[Sen. Oliver Morton, descrivendo la XXII Joint Rule][1]
Verso i miei venticinque lettori ho contratto un debito feneratizio sul contenzioso elettorale scatenato dalle presidenziali USA; ma, sebbene il mio ritardo nell’assolverlo comporti la maturazione di interessi composti, sotto forma di contenzioso ulteriore, non posso mettervi mano senza prima aver aggiornato il medesimo pubblico – per sparuto che sia – sugli ultimi sviluppi relativi agli altri fronti.
Sviluppi, in verità, notevoli e rapidi.
Ricordo brevemente che, nel mio ultimo post, ho indicato, oltre a quella giudiziaria, altre tre “vie” che potrebbero portare Trump a mantenere la presidenza: i Parlamenti dei singoli Stati, il computo dei voti in Congresso e l’opzione militare, ossia l’Insurrection Act. Ebbene, le novità riguardano tutte e tre.
1 – Modificato l’Insurrection Act
Con una mossa che tutto mi sembra fuorché una coincidenza – il Congresso ha approvato, all’interno degli stanziamenti di bilancio per la Difesa (National Defense Authorization Act o NDAA), una modifica dell’Insurrection Act volta ad impedire, per il futuro, al Presidente di invocarlo senza prima consultare le due Camere, cui dovrebbe, tra l’altro, fornire prova dell’incapacità del singolo Stato dell’Unione di far fronte al pericolo.
Il giro di vite è meno stringente di quanto potrebbe sembrare a prima vista, perché non viene nemmeno contemplato un voto su questa comunicazione del Presidente,[2] ma comunque c’è.
Trump, il 23 dicembre – ultimo giorno utile – ha posto il veto al disegno di legge, motivandolo con altre ragioni, dall’obbligo di cambiare nomi alle basi che commemorano militari Confederati alla mancata abrogazione della Section 230.[3]
Tuttavia, per la prima volta nel corso della sua presidenza, il veto è stato superato: dopo la Camera dei Rappresentanti, il Senato – impantanatosi per alcuni giorni perché la questione della Section 230 è andata ad intrecciarsi con l’approvazione di maggiori sussidi “da Covid” sotto forma di pagamenti diretti ai cittadini[4] – ha approvato nuovamente il testo con la maggioranza qualificata prescritta, il giorno di Capodanno.
A questo punto,il ricorso al l’Insurrection Act (dato e non concesso che sia mai stato un’opzione più seria in precedenza) mi sembra ragionevolmente circoscritto a due ipotesi molto particolari: gravi disordini tra il 6 e il 20 gennaio, soprattutto se Trump dovesse prevalere in Congresso – contro ogni previsione – ma forse anche nell’ipotesi opposta, visto che per il 6 è prevista, e da lui incoraggiata, una grande March for Trump a Washington; oppure un coup de théâtre per impossessarsi delle prove e presentarle alla sessione congiunta delle due Camere, come lo stesso Trump ha già annunciato di voler fare.
Un’altra possibilità, in teoria, potrebbe essere offerto dall’ormai famoso rapporto dell’intelligence sulle eventuali interferenze straniere nelle elezioni appena svoltesi, che però doveva essere presentato entro il 18 dicembre ed è in ritardo. Le indiscrezioni dicono che le interferenze ci sono state e si debbono dirimere contrasti di valutazione; non si sa se o quando verrà presentato. Posto che Trump o i suoi abbiano il controllo della situazione, fossi in loro lo farei pubblicare il 4 o il 5, a ridosso del voto in Congresso.
Infine, ma forse non da ultimo, Biden lamenta che il Pentagono continua ad ostacolare il processo di transizione nel settore di competenza. Il Pentagono, ovviamente, smentisce. Magari non c’entra nulla e non significa nulla; però mi dà da pensare.
2 – I parlamenti statali
Sul fronte dei Parlamenti statali, le diverse inchieste sono entrate nel vivo.
Dopo che lo Stato della Georgia ha condotto una verifica a campione (circa il 10%) sulle firme dei voti per posta nella contea di Cobb, con esito positivo, la Commissione Giustizia del Senato statale ha approvato, all’unanimità, una mozione per controllare, stavolta con l’intervento di periti, tutte quelle della contea di Fulton, ossia il vero centro dello scandalo. Sia perché è di gran lunga la più popolosa, dato che ospita la città di Atlanta, sia perché vi si sono verificate alcune indubbie irregolarità che nel clima attuale, ovviamente, attizzano i sospetti. Inoltre, sono proseguite le audizioni sul tema dei brogli e un esperto avrebbe dimostrato in tempo reale la possibilità di infiltrarsi, mediante una connessione Wi-fi che non dovrebbe essere attiva, nel processo di computo dei voti.
In Arizona, una commissione parlamentare ha disposto una perizia sulle macchine usate per contare i voti nella contea di Maricopa, ma le autorità locali rifiutano di consegnarle; entrambe le parti si sono rivolte alla locale Superior Court, che tuttavia, nel momento in cui scrivo, ancora non si è espressa.
Finora, nessun’assemblea parlamentare ha potuto votare sulle mozioni presentate per contestare la designazione degli elettori compiuta dai governatori, perché il caso è scoppiato durante un periodo dell’anno in cui non sono in sessione e dovrebbero essere convocate proprio da quegli stessi governatori; però sta crescendo la pressione per convincere i parlamentari a ignorare il requisito, in quanto la nomina degli elettori presidenziali è un potere conferito a loro dalla Costituzione federale, senza che il governatore vi abbia nulla a che fare.
Con l’inizio del nuovo anno, si avvicina la riapertura delle sessioni ordinarie, che vedrà anche l’insediamento di nuovi parlamentari; però, secondo Ballotpedia, solo Wisconsin e Pennsylvania riapriranno i battenti prima del 6 (rispettivamente il 4 e il 5) e almeno in quest’ultimo Stato debbono passare tre giorni tra quando una mozione è presentata e quando viene messa ai voti. Arizona e Georgia riaprono l’11, il Michigan il 13, il Nuovo Messico il 19 e il Nevada addirittura il 1 febbraio; ma questi ultimi due Stati non contano comunque, perché controllati dai Democratici.
Insomma, questo fronte potrebbe riservare sviluppi ulteriori sul fronte delle inchieste, ma le possibilità di un voto pro o contro l’avvenuta nomina degli elettori sembrano ridotte al lumicino.
A meno che lo spoglio dei voti elettorali non finisca per prendere molto più tempo, fino ad avvicinarsi al 20 gennaio, quando termina il mandato di Trump, o addirittura a valicare questo limite, facendo così insediare il primo Presidente provvisorio (Acting President) nella storia degli Stati Uniti.
E così arriviamo al fronte oggi più attivo, il Congresso.
3 – Contare o non contare, questo è il problema
I venticinque lettori, se sono stati così affezionati o interessati da arrivare fin qui, sanno già che il 6 gennaio, alle tredici ora locale, i due rami del Congresso devono riunirsi in seduta congiunta per assistere allo spoglio dei voti.
La prima novità, rispetto al mio precedente articolo, è che gli Stati contesi sono diventati sette: a sorpresa – almeno per quanto mi riguarda – si è aggiunto il Nuovo Messico, sia in termini di contenzioso giudiziario sia, soprattutto, con gli Elettori designati dal Partito Repubblicano che hanno comunque votato per Trump, come negli altri sei Stati. Abbiamo, quindi, un record storico di elenchi doppi (di Elettori e voti): non sono mai stati così tanti.
Già solo per questo, lo spoglio dei voti non può ridursi ad una semplice formalità: occorre prendere una decisione, per ciascuno dei sette Stati, su quali voti elettorali considerare validi. Magari anche nel senso di escluderli tutti.
Se questa decisione spetti al Vice-Presidente degli Stati Uniti, che presiede alla seduta, oppure alle due Camere è il grande problema giuridico che, sostanzialmente irrisolto fin dagli albori dela Repubblica (e certamente dal 1887, anno di approvazione dell’Electoral Count Act, la legge che forse è incostituzionale o forse non è nemmeno una legge…), di colpo incombe minaccioso sul Campidoglio.
Sono già state preannunciate contestazioni agli Elettori ufficialmente nominati e ai loro voti: perché siano messe ai voti, occorre la firma di almeno un deputato e almeno un senatore, ma quest’ultimo è spuntato all’orizzonte, nella persona di Josh Hawley, del Missouri. I deputati si contano già a decine, come non è successo neppure all’indomani di Bush v. Gore.[5] Quindi, al momento si può dare per acquisito che almeno una votazione ci sarà; siccome bisogna procedere uno Stato per volta, e rispetto ad uno stesso Stato sono possibili più contestazioni, non è dato sapere quanto potrebbe durare la faccenda. Forse per questo il Vice-Presidente Pence, dopo l’annuncio di Hawley, ha rinviato il viaggio in Israele, che aveva in programma proprio il pomeriggio del 6. la sua presenza sembra dunque assicurata.
Per il resto, ad oggi nessuno ha idea di quali siano le intenzioni di Michael Richard Pence.
Potrebbe limitarsi a seguire l’Electoral Count Act. Potrebbe rivendicare il potere di decidere sulle contestazioni da solo, secondo una certa interpretazione del Dodicesimo Emendamento. E perfino seguendo la legge-che-forse-non-è-una-legge, potrebbe interpretarla in molti modi diversi e determinanti.
Può anche darsi che intenda lasciare tutte le opzioni sul tavolo e regolarsi sul momento. In certi casi è la scelta migliore.
Soprattutto perché c’è una data importante, prima del 6: il 3, l’insediamento delle nuove Camere.
In quella data, la Camera dei Rappresentanti deve eleggere il nuovo Speaker. Tutto lascia pensare che sarà riconfermata Nancy Pelosi, ma la maggioranza dei Democratici è più ridotta di due anni fa, quando dieci deputati del suo partito non hanno votato per lei; inoltre, le regole che hanno consentito il voto per procura causa Covid spirano con l’attuale Camera, dovranno essere riapprovate dopo l’elezione dello Speaker. Per questa si voterà in presenza e nessuno sa di preciso quanti potranno essere gli assenti da Covid (o da altra causa): ad oggi, l’unico caso certo sembra Gwen Moore (Demoratica, quarto distretto del Wisconsin), che è risultata positiva il
In effetti, il 29 le complicazioni dovute al Covid – sotto forma di un attacco cardiaco – hanno ucciso un membro eletto, Luke Letlow, che però è Repubblicano e non sarà sostituito prima del 3. Si parte, dunque, da una maggioranza 222 a 210.[6] 221 contando l’assenza della Moore.
Esiste, dunque, una possibilità – remota ma non del tutto trascurabile – che la Pelosi esca sconfitta e che venga eletto Speaker il suo avversario Repubblicano, Kevin McCarthy. Questo cambierebbe completamente le carte in tavola, perché, a termini di legge, lo Speaker diventa Presidente provvisorio se il Congresso non ha finito, per qualunque motivo, di contare i voti o dirimere le questioni entro il 20 gennaio a mezzogiorno. E quindi una strategia dilatoria diverrebbe, di colpo, molto conveniente con pochi costi politici. Certo minori delle alternative.
Al Senato, i Repubblicani, che nella compagine uscente hanno una maggioranza 52 a 48 (con Pence che non è un senatore, ma gode di un voto aggiuntivo e decisivo in caso di parità), la manterrebbero se vincessero i due ballottaggi in Georgia, che però sono in programma il 5 e non vedranno un vincitore in tempo utile per il 6; solo uno dei due uscenti, la senatrice Loeffler, resterà provvisoriamente in carica, quindi i numeri di partenza dovrebbero essere 51 a 48.
In questo momento, tuttavia, molti di questi cinquantuno hanno espresso il proprio scetticismo, o anche la propria ostilità aperta alle contestazioni. Quindi, l’esito di gran lunga più probabile – ad oggi – è che entrambi i rami del Congresso votino per respingerle.
L’unico precedente di contestazione messa ai voti data al 2005; la senatrice firmataria di allora, Barbara Boxer, è riemersa dalla pensione per spiegare che il suo caso è diverso da oggi, perché allora John Kerry aveva riconosciuto la sconfitta; come dire che contestare è lecito solo come gesto simbolico… non esattamente quel che dice la legge. Senza dubbio, allora il risultato è stato soltanto simbolico: il suo è stato l’unico voto favorevole in tutto il Senato. La Camera alta, forse perché più piccola, ha una tradizione di minor partigianeria rispetto a quella dei Rappresentanti… e in queste occasioni la si è sempre vista, ad es. nel 2001 e poi nel 2017, quando nessun senatore si è associato alle contestazioni dei deputati.
Adesso, però, è sicuro che un voto ci sarà. Una serie di voti, anzi, soprattutto se non si arrenderanno alla prima sconfitta. Ed è anche sicuro che il sostegno sarà tale, almeno tra i deputati, che questa non potrà passare semplicemente come la disfatta di Trump ultimo giapponese nella giungla: sarà la disfatta del Partito Repubblicano.
Questo crea, paradossalmente, un incentivo a ricompattare i ranghi e combattere. Soprattutto se tra i banchi Democratici si vedesse qualche vuoto. Ma verosimilmente non potrà bastare.
A Trump rimangono, in sostanza, tre modi per evitare una sconfitta (quasi) certamente definitiva:[7]
- guadagnare tempo in attesa che qualche Parlamento statale voti nel senso da lui auspicato (come potrebbe avvenire, soprattutto in Pennsylvania e Georgia; ma gliene servirebbe un terzo);
- convincere i membri del Congresso a suon di prove;
- contare su Pence, che rivendichi il potere esclusivo di contare i voti e quindi di decidere le contestazioni, ai sensi del Dodicesimo Emendamento.
Al momento sembra impegnato a percorrere le prime due strade, ma verosimilmente anche la terza.
In effetti, uno dei deputati che intendono presentare le contestazioni, Louis Gohmert del Texas, ha iniziato una causa, insieme con gli Elettori Repubblicani per l’Arizona, chiedendo al Tribunale federale del Texas di dichiarare l’incostituzionalità dell’Electoral Count Act proprio perché usurperebbe il potere spettante a Pence.
A San Silvestro, il Vice-Presidente si è costituito, sostenendo in particolare che Gohmert ha sbagliato a far causa a lui anziché alla Camera e al Senato, cioè agli organi che teme che gli respingano la contestazione senza averne diritto; ma si è guardato bene dal prendere una posizione nel merito, lasciando intendere una disponibilità a seguire le direttive del Tribunale e approfittando del fatto che la Camera dei Rappresentanti era già intervenuta a difendere la legge nel merito. La replica di Gohmert è corposa e ben scritta, ma si concentra sul merito, perché – dice – il Vice-Presidente è senz’altro una controparte necessaria e, se bisogna aggiungerne altre, chiede che gli venga consentito di farlo.
Per quanto il Texas possa essere un foro amico, credo che la difesa di Pence sia corretta[8] e che, già solo per l’esigenza di chiamare in causa il Senato (in persona di qualcun altro, per giunta, perché in questo caso Pence ha una posizione sua propria come presidente della seduta congiunta), sia pressoché impossibile ottenere un provvedimento di urgenza prima del 6. Così come non credo che un giudice dichiarerebbe “al volo” l’incostituzionalità della legge o la titolarità del potere in capo a Pence, quando tutto il problema nasce proprio dall’ambiguità testuale del Dodicesimo Emendamento (anche se gli argomenti di Gohmert sono forti e i precedenti fino al 1857 sono tutti dalla sua parte). Vedrei più sensata, semmai, un’ordinanza che blocca il conteggio intanto che si dibatte la questione giuridica; ma finora i Tribunali hanno fatto di tutto per restare alla larga e non c’è motivo di pensare che questo caso, per interessante che sia, faccia eccezione.
Dunque, Pence ha tenuto le carte coperte, ma la dovrà scoprire il 6 gennaio.
Come minimo, lo aspettano due decisioni di rilievo: anzitutto, se ammettere il voto per procura, che qualcuno probabilmente chiederà causa Covid (un suo “no” sarà il primo segnale che intende dare battaglia). E poi, una volta letti i documenti relativi all’Arizona, dovrà decidere – presumibilmente una volta che gli sarà stata presentata un’obiezione in regola con la legge – se permettere l’audizione di testimoni, che non è prevista e sembra poco compatibile con il divieto di tenere dibattiti nella sessione congiunta. Su questi punti, non c’è il minimo dubbio che decidere spetti a lui e che, per ribaltare la decisione, serva il consenso di entrambi i rami del Congresso.
Dopodiché… si vedrà.
In questo momento, dei due scenari prefigurati nel titolo, sembra di gran lunga più probabile la farsa: una trafila di parlamentari che gareggia in dichiarazioni magniloquenti o melodrammatiche, solo per essere sconfitta in entrambe le Camere da una maggioranza solida.
Ma se, in uno qualunque dei tre modi, lo scenario cambiasse… allora sarebbe guerra. Inter pacem et bellum nihil medium.
Soltanto guerra metaforica e parlamentare, si spera, o al più giudiziaria. Mi piacerebbe poter dire che, se a Trump riuscisse mai il colpo gobbo, l’unica conseguenza a lungo termine sarebbe una modifica alla Costituzione per sciogliere il nodo gordiano del Dodicesimo Emendamento (oppure una sentenza della Corte Suprema, ma non è detto).[9]
Eppure, comunque vada, non posso fare a meno di chiedermi fino a che punto un Paese così profondamente diviso potrà evitare la guerra civile.
Ma questa è un’altra storia. E speriamo di non raccontarla un’altra volta.
Genova, 2 gennaio 2021
[1] Cit. in Ch. Land – D. Schultz, On the Unenforceability of the Electoral Count Act, in Rutgers Journal of Law & Public Policy 13 (2016), pagg. 340-87, qui 385. Il saggio, non considerato nella mia precedente analisi dell’ECA perché vi aggiunge poco, si concentra sull’illegittimità delle sue norme di procedura e sostiene, tra l’altro, che il potere di computo è attribuito alle due Camere prese singolarmente e che Al Gore, estendendo il requisito della firma congiunta di un deputato e un senatore anche alle richieste di votare l’abbandono della seduta da parte della sola Camera dei Rappresentanti, ha violato un’attribuzione costituzionale della medesima.
[2] Cfr. A. Macris, Et tu, Congress?, sul blog Contemplations on the Tree of Woe, 22 dicembre 2020 (aggiornato il 23).
[3] Ossia la norma che limita la responsabilità delle piattaforme per i contenuti pubblicati dagli utenti, divenuta controversa da quando si applica ai social network, che non si limitano ad offrire uno spazio ma applicano regole di filtro, oltretutto divenute progressivamente più severe, il che dovrebbe equivalere, secondo i critici, ad un’assunzione di responsabilità sia quanto a ciò che si pubblica sia rispetto alla scelta di non pubblicare / eliminare.
[4] In quanto Mitch McConnell, il capogruppo dei Repubblicani in Senato (che ha il potere di dettare l’ordine dei lavori) ha abbinato l’abrogazione chiesta da Trump al disegno di legge, approvato dalla Camera, che aumenta i pagamenti diretti ai singoli americani da 600 a 2.000 dollari, aggiungendovi anche, per buona misura, una commissione di inchiesta sui brogli elettorali. A che gioco stia giocando McConnell, sinceramente, non saprei dire.
[5] Non bisogna dimenticare che più di un centinaio di membri Repubblicani del Congresso uscente è intervenuto presso la Corte Suprema federale a sostegno del ricorso – respinto per le richieste d’urgenza, ma tuttora pendente per il merito – contro l’estensione del voto per posta in Pennsylvania, e quindi la nomina dei relativi Elettori.
[6] Ci sono ancora due seggi contesi, ma almeno provvisoriamente verranno occupati dai Repubblicani, che sono in testa per entrambi.
[7] Non sta scritto da nessuna parte che l’esito di un’elezione non possa essere contestato anche dopo che il Congresso ha contato i voti elettorali, o perfino dopo l’insediamento del nuovo Presidente, se è per questo. Però, nel 2000 tre giudici della Corte Suprema hanno scritto che questo dovrebbe essere l’effetto del rigetto delle contestazioni in Congresso. Quindi, può darsi che ci sarà ancora un seguito giudiziario per discutere se questo sia l’effetto dell’Electoral Count Act, e il problema dell’incostituzionalità della legge potrebbe riemergere in quella sede… ma è una storia che racconteremo se ci si arriverà.
[8] Ha torto, invece, la Camera, che sostiene che l’Electoral Count Act è in vigore dal 1887 e le contestazioni sono tardive: il passaggio del tempo non equivale ad una patente di costituzionalità e solo il 14 dicembre 2020 si è saputo per certo che quest’elezione avrebbe fatto scattare, in termini potenzialmente decisivi, i meccanismi della legge per il caso degli elenchi multipli.
[9] Ad es., la Corte potrebbe decidere che si tratta di una political question non sindacabile dai giudici.
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