di Lorenzo Roselli
«Dove dunque non v’è un simile tipo di giustizia, certamente il popolo non è l’unione degli uomini associata dalla conformità del diritto e della partecipazione degli interessi.
Se non lo è, non è popolo, se è vera questa definizione del popolo.
Quindi non v’è neanche lo Stato come cosa del popolo perché non si ha la cosa del popolo se non si ha il popolo.
Il popolo si può definire non con questa formula, ma con un’altra, cioè: il popolo è l’unione di un certo numero d’individui ragionevoli associati dalla concorde partecipazione degli interessi che persegue.
Quindi per stabilire di quali caratteristiche sia ciascun popolo, si devono tener presenti gli interessi che esso persegue.»
De Civitate Dei, Libro XIX, paragrafo 23-24
Questo è il passo di Sant’Agostino d’Ippona a cui nel discorso d’insediamento Joe Biden ha fatto probabilmente riferimento storpiando, in un risibile atto di vano citazionismo, la traduzione già abbastanza temeraria del teologo anglicano Oliver O’ Donovan nel suo saggio del 2002 Common Objects of Love della pagina agostiniana come «A people […] is a gathered multitude of rational beings united by agreeing to share the things they love».
Tutt’altro che un sentimentalistico richiamo alla convivenza civile di gusto kantiano l’Ipponatte, con queste righe, intende allora proprio generare un distinguo tra le concezioni di civitas che danno gli uomini per convenienza politica (riecheggia il ciceroniano ubi civitas ibi ius con cui nella Roma Repubblicana si giustificavano le imprese anche più ardite di conquista e sottomissione, in specie ai danni dei più incivili tra gli incivili celti d’Elvezia, Gallia e Britannia) rammentando che società, stato e la stessa civiltà sono pesabili in virtù di un unico ordine di misurazione: quello della legge morale naturale.
Una riflessione che potrebbe senz’altro giovare nella sua purezza originaria a Joe Biden che sembra invece apprestarsi a restaurare una politica estera avventuristica in cui gli Stati Uniti d’America possano tornare ad ergersi, schmittianamente parlando, come guardiani globali dei diritti umani. 1
Sappiamo però che fuor di retorica, il signor Biden non si trova a suo agio con l’insegnamento dei Padri della Chiesa come, d’altronde, naviga a vista da quello che è il più elementare magistero morale della Chiesa cattolica avendo già promesso un drastico dietrofront sulle pur sempre limitate aperture della presidenza Trump alla difesa della vita nascente.
Tuttavia vi è qualcosa che il discorso di ricucitura nazionale (come è stato già definito da diversi opinionisti nostrani) non può proprio storpiare o quantomeno allontanare dalle menti di chi osserva oggi la Casa Bianca: l’americanismo esce da questa campagna elettorale, dal suo trionfo in una Capitol Hill circondata da tesissime forze armate in tenuta anti-sommossa e munite di fucili d’assalto, indebolito come non mai negli ultimi decenni.
Per la prima volta in 152 anni il presidente degli Stati Uniti uscente non è lì ad accoglierlo e stringergli la mano, ma anzi promette di continuare la guerra contro la sua “presidenza illegittima” .
Sembra in tal senso avverarsi la considerazione fatta sui nostri canali nella tribuna de L’Alabarda Podcast questo 4 novembre nel caso di una sconfitta di Donald Trump; la possibile nascita di un terzo partito negli USA (minuto 2:12:03), evidentemente il più dirompente rispetto all’equilibrio istituzionale statunitense dai tempi di Ross Perot.
L’assalto alla sede del Parlamento statunitense da parte di migliaia di manifestanti quest’Epifania ha dato vita ad uno spettacolo inedito trasmesso per giunta in mondovisione: il centro del potere messo a ferro e fuoco, proprio come desideravano 158 anni prima i soldati di Robert E. Lee in marcia contro Washington fermati, appena in tempo, dall’Armata del Potomac a Gettysburg.
Mai come a inizio mese gli USA sono sembrati davvero sull’orlo di una guerra civile, più virtuale che reale forse e bizzarra quanto si vuole, ma efficace nell’indebolire sul piano dell’immagine proprio quella posizione di guida del mondo “civilizzato” che la Casa Bianca a guida Joe Biden e Kamala Harris spera di riprendere a pieno titolo.
La stantia retorica di unità nazionale e di distensione dei conflitti di natura politica (che non era mancata all’appello nemmeno durante l’insediamento di Donald Trump nel 2017) non cambieranno il desiderio di rivalsa di una larga fetta di elettorato statunitense che non si sente rappresentata e che ha una guida politica ancora sul piede di guerra.
Le note stonate di Lady Gaga e di Jennifer Lopez invocanti (in spagnolo) “giustizia per tutti!” non annulleranno il quasi certo riconoscimento della “presidenza Guaidò” in Venezuela, la mancata collaborazione per non dire guerra aperta al governo siriano che inizia ad approcciarsi alla ricostruzione del paese, la tensione sempre più ricercata con la Russia colpevole di essersi riavvicinata ad un’Europa a cui appartiene per storia e cultura, oltre che aver interferito con l’ordine caotico imposto nel Medio Oriente dalla fine della criminosa invasione dell’Iraq nel 2003.
Sorrisi, frasi di circostanza e applausi di ex-presidenti, vip e grandi nomi della società statunitense non cancellerà il sangue sull’asfalto di Ashli Babbit e il quantomeno peculiare suicidio di Christopher Stanton Georgia, accusato di “aver avuto accesso a della proprietà del Campidoglio contro la volontà del Corpo di Polizia addetto alla sicurezza dello stesso (la United States Capitol Police, ndr)” a detta di fonti provenienti dalla Corte Suprema del Distretto di Columnia.
1 Carl Schmitt, Stato, Grande Spazio, Nomos, Adelphi, Milano, 2015
Immagine in evidenza: President-elect Joseph R. Biden Jr. takes the presidential oath of office at the U.S. Capitol, Washington, D.C., Jan. 20, 2021. Once the oath was completed, Biden became the 46th President of the United States of America. (DoD photo by U.S. Army Sgt. Charlotte Carulli)/ Public Domain