di Luca Fumagalli
Continua con questo articolo l’approfondimento sulla vita e le opere dello scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), tra gli autori più interessanti e originali del panorama letterario cattolico del Novecento. Per i contributi precedenti:
- Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown – QUI
- La comunità tradizionale e la lunga ombra del progresso nichilista: leggendo “Greenvoe”, il primo romanzo di George Mackay Brown – QUI
- “Magnus” di George Mackay Brown: note a margine di un capolavoro della letteratura cattolica scozzese – QUI
- “Lungo l’oceano del tempo”: il ritorno al reale in un romanzo dello scozzese George Mackay Brown – QUI
Per chi fosse interessato ad approfondire la figura di G. M. Brown e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.
«Un libro non merita di essere letto a dieci anni se non merita di essere letto anche a cinquanta» (C. S. Lewis)
George Mackay Brown (1921-1996) è uno degli scrittori scozzesi più importanti del Novecento. Originario di Stromness, nelle isole Orcadi, nel corso della sua lunga carriera ha pubblicato raccolte poetiche, racconti, romanzi e testi teatrali, nonché numerosi articoli su vari periodici. Nei suoi scritti il desolato paesaggio delle Orcadi, privo di alberi a causa delle basse temperature, fa da sfondo alle vicende della povera comunità locale, tenacemente attaccata alle proprie tradizioni, che sopravvive grazie alla pesca e al lavoro nei campi. Tuttavia Brown non si accontenta di un approccio documentaristico in salsa “neorealista”, ma fonde il presente con il mito e la storia, dando corpo a narrazioni in bilico tra realtà e fantasia. Allo stesso modo il suo cattolicesimo è sempre presente, anche se spesso in sottotraccia, a donare speranza a individui che altrimenti sarebbero sopraffatti dai dolori della vita, in balìa dei capricci della natura – madre e matrigna – e della malizia dei vicini. Soprattutto a fare paura è quella modernità che avanza implacabile, senza cuore né radici, a un passo dal fagocitare ogni cosa in un nulla fatto di orrido cemento e conformismo.
Pure In quella grotta (Pictures in the Cave, 1977), benché rivolto ai lettori più giovani, affronta i medesimi temi. Il romanzo, tradotto in italiano nel 1995 dalla casa editrice Bompiani – qualche copia del libro, ormai fuori commercio, è ancora possibile recuperarla online sui siti dell’usato – attinge a piene mani da Un’estate a Greenvoe (Greenvoe, 1972), di cui viene recuperata innanzitutto la struttura frammentaria, per preparare il terreno a Lungo l’oceano del tempo (Beside the Ocean of Time, 1994), una delle opere più lette e apprezzate dello scozzese.
La trama ruota attorno a Sigurd, un ragazzo orcadiano che ama molto il mare e poco la scuola. Una mattina, mentre sta bighellonando come al solito sulla spiaggia, incontra Shelmark, del popolo degli uomini-foca, ansioso di raccontargli le storie legate alla misteriosa grotta che si trova lì vicino, dove gli abitanti dell’isola credono abbia vissuto un tempo una terribile strega. A questo punto Sigurd scompare dal testo per ritornare solamente nel capitolo conclusivo, divenuto ormai un anziano lupo di mare, mentre nelle pagine precedenti è dato spazio alle storie di Shelmark, ambientate in secoli differenti, con la grotta a fare da minimo comune denominatore (lo scorrere del tempo è un altro aspetto chiave della poetica di Brown).
Se il primo racconto parla della selvaggia Jennifer Stoor, figlia del ministro locale, che non vuole sposare il nobile dell’isola, a partire dal terzo capitolo le varie storie si sviluppano seguendo un ordine cronologico, partendo dall’antichità, quando le Orcadi erano vittime dalle incursioni vichinghe, fino ad arrivare alla Seconda guerra mondiale e agli aerei tedeschi che solcano minacciosi il cielo. Nel mezzo un carnevale di toni e colori che narra della vittoria a Stirling di Re Robert contro gli inglesi, oppure di come uno spagnolo, sopravvissuto al naufragio di uno dei galeoni dell’Armada, abbia sposato la giovane donna che lo ha soccorso (si tratta di una nota leggenda scozzese, rivisitata in versione farsesca da Compton Mackenzie in Whisky a volontà – titolo originale Whisky Galore! – ed evocata anche nella recente serie tv Shetland); si prosegue poi con la ribellione del Bonnie Prince Charlie fino ad arrivare a episodi decisamente crudi e drammatici quali quelli che hanno per protagonisti due contrabbandieri che finiscono impiccati o un folle suicida, quest’ultimo talmente innamorato di un’immaginaria sirena da lasciarsi affogare. Naturalmente non mancano momenti più solari, contraddistinti dalla commovente sovrapposizione tra dimensione locale e universale che marca le pagine più riuscite di Brown: un racconto, ad esempio, parla di un ragazzo ritardato che, ispirato dalla storia dei Re Magi ascoltata in chiesa, offre aiuto a una famiglia di zingari in fuga, ma ve n’è anche un altro in cui il ritrovamento di una perla in un’ostrica salva padre e figlio dallo sfratto.
L’epilogo agrodolce è all’insegna del tramonto di un’epoca. Difatti Sigurd, dopo una vita da capitano giramondo, torna a casa per scoprire con suo grande rammarico che la grotta, guardiana dell’eternità, sta per essere distrutta con la complicità delle autorità dell’isola da una compagnia interessata a sfruttare alcuni giacimenti minerari scoperti lì vicino. A questo punto l’unica speranza per il futuro, per non perdere quel deposito secolare d’esperienze, rimane la memoria, tanto che Sigurd decide di affidare i suoi racconti alla piccola Solveig, la figlia della governante, proprio con il compito di tramandarli alle generazioni successive.
Solo quando nessuno li racconterà più, quando il secolare filo della tradizione verrà definitivamente spezzato, l’isola farà la fine di Atlantide.