di Luca Fumagalli

Negli ultimi scampoli del XIX secolo, durante uno dei suoi viaggi giovanili, Charles Greene – padre dello scrittore Graham Greene – e un suo amico insegnante vennero avvicinati, a Napoli, da un uomo dall’aria curiosamente familiare che chiese il permesso di sedersi con loro mentre bevevano un caffè. Lo sconosciuto ordinò per sé qualcosa di un po’ più forte e li intrattenne amabilmente per un’ora con discorsi arguti e divertenti; poi lasciò che pagassero la sua consumazione. Solo dopo che se ne fu andato i due compresero che si trattava di Oscar Wilde, da poco uscito di prigione. Charles era solito raccontare questa storia concludendo: «Quanto doveva sentirsi solo per dedicare tanto tempo e tanta abilità a due maestri di scuola in vacanza».
Il curioso aneddoto, oltre a fornire un ritratto benevolo di uno scrittore in pieno viale del tramonto, non fa che confermare una convinzione che era condivisa da tutti, ammiratori e detrattori, ovvero che nell’arte della conversazione Wilde era semplicemente insuperabile. Molti dei suoi aforismi hanno fatto scuola, compreso quel culto del paradosso che, levigato dal più ortodosso Chesterton, divenne per quest’ultimo un’arma apologetica irresistibile. Solitamente l’autore irlandese si cimentava in racconti più o meno improvvisati, curiose variazioni sui canovacci di noti apologhi tratti dalle Sacre Scritture, dai miti greci e latini o dalla tradizione popolare. Né mancava in lui il gusto per la fiaba o per l’osceno (speculare al suo amore per il bello). Wilde andava ripetendo «Metto il talento nell’arte, il genio lo riservo per la vita», e se per l’eterogeneità della sua produzione molti, come André Gide e Max Beerbhom, gli contestarono di non essere neppure uno scrittore, nessuno osò mai dire che non fosse “il principe della vita”, dove l’arte del conversare gioca un ruolo tutt’altro che marginale. Che il campo dei racconti fosse quello in cui si sentiva più a suo agio, che fosse per lui quasi una forma mentis, è lo stesso Wilde ad ammetterlo: «Non comprendono che io non posso pensare che in forma di racconti. Lo scultore non cerca di tradurre in marmo la sua idea; egli pensa direttamente in marmo. Io penso per racconti».
Senza contare le fiabe – alle quali Wilde si dedicò con grande passione e cura – alcune di queste storie minori apparvero su rivista, mentre altre sono state riportate nel corso dei decenni da diversi amici o biografi che ne hanno parlato nei loro libri. Tuttavia la maggior parte sarebbe andata perduta se l’attore e drammaturgo Guillot De Saix non si fosse adoperato per raccoglierle in un libro, Le Chant du Cygne, pubblicato a Parigi nel 1942. Quando si mise sulle tracce delle parole che Wilde aveva «imprudentemente affidate alla fluida memoria degli uomini», De Saix venne accolto con entusiasmo da molti intellettuali, tra cui Arthur Conan Doyle, W. B. Yeats e George Bernard Shaw, che furono ben felici di poter consegnare ai posteri una piccola testimonianza del genio dello scrittore irlandese. A questi frammenti De Saix aggiunse in seguito quelli pubblicati dallo stesso Wilde e altri estratti da biografie, memorie o articoli di giornale. Dalla ricorrenza di certi personaggi e temi è possibile riscontrare come quest’ultimo utilizzasse le sessioni narrative anche alla scopo di saggiare la validità dei suoi soggetti, per poi eventualmente riscriverli in forma di racconti, commedie o altro ancora.
A portare in Italia l’opera di De Saix ci ha pensato nel 2019 Paolo Orlandelli, attore e regista, appassionato studioso del variegato mondo del decadentismo anglosassone, sgravando il libro originale da tutti i commenti personali dell’autore e reintitolandolo Il vangelo secondo Oscar Wilde (a sottolineare il «florilegio di parabole dal sapore profano ma per nulla prive di religiosità»).
I racconti che compongono il volume sono piuttosto eterogenei, sia per lunghezza che per temi. Alle storie dal marcato sapore estetizzante, dove il mondo pagano dell’antica Grecia e il culto della bellezza la fanno da padroni, si alternano brani più spiritosi, altri simpaticamente irriverenti, ma pure riscritture di miti segnati da una tristezza che ha molto dell’autobiografico. Vi sono persino un paio di esempi che lambiscono il gotico, addirittura il distopico. Ciononostante le narrazioni più affascinanti rimangono quelle legate al Vangelo, dove Wilde alterna con la tipica noncuranza affondi sorprendentemente commoventi a passaggi più superficiali e provocatori. A questa seconda categoria appartengono racconti come quello in cui Giuda confessa di volersi suicidare non per il suo tradimento, ma perché ha scoperto che i proverbiali trenta denari sono falsi, oppure quello in cui Lazzaro resuscitato confida a Gesù che nell’aldilà non vi è nulla. Di tutt’altra pasta – e qui è il Wilde migliore, quello che per un momento si leva la maschera del dandy per penetrare nella carne di un’umanità dolente, assetata d’eterno – sono i frammenti come quello in cui la moglie del Cireneo rimprovera il marito per aver perso tempo a portare la croce di Cristo anziché trovarsi un lavoro di prestigio al tempio; o quello in cui le donne si accaniscono contro Gesù perché non vorrebbero perdere la speranza di essere loro, un giorno, le madri del Messia.
Al di là del pregevolissimo lavoro editoriale di Orlandelli, è innegabile che la qualità dei racconti sia abbastanza altalenante, soprattutto perché in origine pensati per la conversazione più che per la scrittura. Eppure Il Vangelo secondo Oscar Wilde ha dalla sua il grandissimo pregio di offrire, anche se in forma di marginalia, uno sguardo fresco e a tutto tondo su un autore colpevolmente frainteso e ridotto ai suoi vizi, spesso evocato nel dibattito pubblico più per ragioni politiche che letterarie.
Il libro: P. ORLANDELLI (a cura di), Il vangelo secondo Oscar Wilde raccontato da Guillot De Saix, Stampa Alternativa, Viterbo, 2019, 176 pagine, Euro 14.
Per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di Wilde e con la sua quella di molti altri scrittori cattolici britannici si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.
