Nell’ambito del dibattito sui temi trattati da questo articolo, volentieri aggiungiamo alla discussione gli spunti proposti dal nostro Guido Ferro Canale:


di Guido Ferro Canale

Generalmente evito di scrivere articoli o anche solo titoli provocatori; in questo caso, non posso, perché io per primo mi sento provocato. Essendo già normalmente piuttosto allergico alle pressioni sociali, reagisco malissimo almeno al novanta per cento dei casi in cui mi si dice che è doveroso prendere questa o quella posizione su un argomento qualsiasi; se poi l’argomento è complesso, le posizioni opinabili e la pressione estrema, resisto per principio. Però sempre per i fatti miei: non mi interessa, dopotutto, diventare io stesso un agente di pressione sociale in favore di una terza via astensionista. Stavolta ho scoperto che pure per me esiste un punto di saturazione superato il quale non posso fare a meno di rivendicare pubblicamente – come da titolo – il diritto di infischiarmene.

I casus belli, se così posso chiamarli, sono due: tutta la faccenda Covid nei suoi diversi aspetti e, ultimamente, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ossia la recrudescenza delle sempiterne conflittualità israelo-palestinesi. Nulla li lega se non proprio il fenomeno di pressione sociale estrema, con profonde spaccature indotte nel mondo cattolico. Si potrebbe anche dire, in effetti, che sono legati solo dall’esasperazione del sottoscritto.

Comincio dalla seconda questione, che per certi versi è più semplice. Neanche quand’ero bambino e passavano in TV Rabin e Arafat capivo perché mai quell’angolo di mondo dovesse occupare tanto spazio nei telegiornali; ben presto ho sviluppato l’abitudine di cambiare canale o pensare ad altro ogniqualvolta sentissi “processo di pace in Medio Oriente”, essendomi convinto che non sarebbe mai approdato a nulla; adesso che sono un po’ più vecchio, cinico e inacidito mi chiedo quale sia, esattamente, il guadagno economico, o di altro genere, che i mass-media traggono dal destinare tanto spazio, tanta enfasi, tanta partecipazione ad ogni lancio di razzo, ad ogni sassaiola, ad ogni rappresaglia che si verifichi tra Gaza e le alture del Golan. Dopotutto, il mondo è pieno di conflitti ben più cruenti, più tragici, fors’anche più meritevoli di attenzione; quell’area lì ha un’importanza cruciale, unica, insostituibile soltanto se la chiamiamo “Terra Santa” e la consideriamo in un’ottica religiosa. Ma la società occidentale, di cui i mass-media sono espressione e artefici, non necessariamente in quest’ordine, di religioso non ha quasi più nulla… a parte l’amor sui usque ad contemptum Dei,       il cui nesso con l’attenzione per la Terra Santa non mi riesce di cogliere neanche volendo tenere in considerazione il pur notevole fenomeno del turismo religioso. Non posso che concludere che due lobby, l’una filoisraeliana, l’altra filopalestinese, abbiano lavorato molto bene.

Questo, ovviamente, non dice nulla e nulla vuol dire sul merito delle posizioni sottostanti, sulle ragioni e sui torti. Vedendo però come i cattolici, almeno in questa recentissima occasione, abbiano preso a spaccarsi e aggredirsi, quasi che la militanza per gli uni o per gli altri fosse un articulus stantis aut cadentis Ecclesiae, non posso fare a meno di dichiarare che, per me, quelli possono continuare ad ammazzarsi finché non ne resterà vivo nemmeno uno o possono firmare un accordo anche domani, ma gradirei che in entrambi i casi lo facessero senza reclamare l’attenzione del mondo, perché 1) sono soltanto affaracci loro, 2) nessuno ha la possibilità materiale di risolverli al posto loro, 3) l’interessamento straniero, di qualunque fonte o segno, fa molto più male che bene, 4) se anche fosse predicabile in concreto un dovere di intervento della Comunità internazionale (posto poi che esista qualcosa del genere), sarebbe un intervento armato nello stile di mia nonna rispetto ai litigi tra bambini e agli “È stato lui!” incrociati: un ceffone per uno, tutti zitti e camminare!

Da quest’ultimo punto si sarà compreso che, secondo me, dare ragione a questo o quello dei contendenti è impossibile da un lato e, oserei dire, intrinsecamente ingiusto dall’altro. Posizione di cui vorrei dar conto ai cattolici, se non altro per spiegare perché leggere articoli “d’area”, diciamo così, che impiegano etichette come “sionisti” e “terroristi” mi faccia cadere le braccia e pure venir l’orticaria.

L’ubi consistam teologico, che io sappia, si riduce a questo: la fine del mondo incombe, ma è sospesa fino alla conversione di Israele, che non può attendersi un ristabilimento del Regno temporale prima di aver riconosciuto il proprio Re eterno, il Messia già venuto, e anche così lo otterrà forse per un’ora soltanto, dopodiché Caeli movendi sunt et terra. Prospettiva che già di per sé dovrebbe sminuire un tantino l’importanza delle dispute terrene su chi debba comandare dove; eppure, da queste premesse alcuni traggono la conseguenza dell’illegittimità dello Stato di Israele (altri, invece, pare abbiano voluto incoraggiarne la costituzione proprio pesando che ciò accelerasse in qualche modo la Parusia, o comunque ne costituisse un antecedente necessario). Direi piuttosto che Dio ha revocato l’assegnazione della Terra Santa al popolo ebraico, senza però assegnarla a nessun altro, neppure ai cristiani, che sono bensì il nuovo Israele ma, destinati a diffondersi in tutto il mondo, non vantano diritti divini su alcun territorio specifico, si tratti di Gerusalemme o di Roma. In altre parole, l’appartenenza politica della Terra Santa è passata da un regime speciale di assegnazione ex parte Dei a quello normale, di ordinaria contendibilità si potrebbe dire, e la Fede ci dice che uno Stato specificamente ebraico non potrà mai vivere in pace, non però che la sua esistenza o i tentativi di istituirlo siano illegittimi in sé e per sé.

Se poi scendiamo al fatto concreto e agli eventi storici dal 1948 in poi (o anche prima se includiamo il preludio del movimento sionista), dobbiamo anzitutto fare i conti con una molteplicità di fattori come un diritto internazionale imperniato sul principio di effettività, una filosofia politica tradizionale che riconosce la guerra come modo legittimo di acquisizione del dominio su un territorio e il principio giusnaturalistico per cui perfino la refurtiva non va restituita in natura se nel frattempo è stata trasformata a tal punto da diventare un’altra cosa (“specificazione” in senso giuridico): tutti fattori pro-Israele, se volessimo esprimerci in questi termini da tifo allo stadio. Dall’altra parte, però, non mancano quelli pro-palestinesi, perché solo una guerra giusta o un trattato di pace “non troppo forzato” possono legittimare una conquista – e non è facile che in concreto una guerra sia giusta, soprattutto in circostanze simili – in caso di acquisto per specificazione gli obblighi restitutori non si estinguono ma cambiano solo di oggetto, trasferendosi al controvalore, e si può sostenere che sia stato violato perfino il diritto internazionale moderno, sub specie delle risoluzioni ONU, nella misura in cui si possano considerare fonti di diritto… misura senz’altro controversa a sua volta. Di sicuro ho dimenticato qualcosa, ma credo che questo basti a chiarire perché io reputi impossibile un giudizio netto del tipo “Hanno ragione questi qua”: sarebbe intrinsecamente ingiusto perché ignorerebbe    troppe ragioni dell’altra parte, oppure dovrebbe includere tante condizioni e sfumature da non essere più l’opzione netta da tifoserie che, invece, sembra accomunare tutti in una triste smania di parteggiare. E non ho nemmeno sfiorato il problema religioso!

Venendo infine, dopo una premessa forse troppo lunga ma necessaria, agli episodi più recenti… dico, come si fa anche solo a pensare ad una guerra giusta?!

Supposto per un momento che abbiano arciragione i palestinesi (e che Hamas in qualche modo li rappresenti, il che è assai discutibile per plurime ragioni), lanciare razzi contro un nemico che non hai speranza di sconfiggere sul piano militare e che di sicuro reagirà provocando gravi danni materiali è comunque un gesto tanto folle e controproducente che basterebbe da sé a rendere ingiusta, se non la guerra in sé, certo questa fase del conflitto.

Postulando viceversa che l’arciragione stia tutta dalla parte degli israeliani (che non sono necessariamente ebrei, ma qui non occorre addentrarsi in distinguo importanti ad altri fini), come si fa a definire proporzionata la reazione ad una minaccia risibile, quasi del tutto neutralizzata dal sistema di difesa missilistica… e soprattutto esacerbata da ogni nuovo morto, ogni nuovo palazzo in briciole? Diamo pure per egualmente colpevoli tutti gli abitanti di Gaza (e ci sarebbe molto da ridire), questa reazione è tafazziana quasi quanto l’attacco con i razzi.

Insomma, io qui vedo l’antitesi della giustizia. Vedo lo scontro tra due forme di odio puro. E allora, che ci nuotino dentro finché non annegano o non si stancano.

Non è troppo diverso il ragionamento riguardo alle pur variegate questioni Covid.

Non sono mai intervenuto pubblicamente su alcuna e non credo, in verità, che si sia sentita la mancanza della mia voce: urlavano già tutti più che a sufficienza. Soltanto in un caso, vedendo che dalla ben nota situazione stava scaturendo un errore teologico piuttosto grave, ho creduto di dover intervenire (temo senza effetto); per il resto, la mia attività non pubblica si è limitata al tentativo di assicurare ai fedeli Summorum la possibilità di non ricevere la S. Comunione sulla mano senza rischiar rappresaglie da nessuna delle due “società perfette” (mai come oggi è doveroso virgolettare) e alla proposizione di ricorsi in tutti i – pochi – casi concreti di sanzioni Covid approdati alla mia scrivania, casi in cui, potrei aggiungere, secondo me l’illecito non sussisteva neppure a termini di indicazioni normativo-governative.

Ma con l’andar del tempo, e in modo abbastanza indipendente dalla percezione pubblica dell’emergenza e dal suo andamento, la lotta intestina senza quartiere in seno al mondo cattolico ha raggiunto livelli che solo un anno fa mi sarebbero parsi inimmaginabili. Senza che sia cessata la polemica iniziale in merito ai provvedimenti restrittivi, già abbastanza complessa di suo, si è aggiunta quella sui vaccini, nel caso specifico per la nota questione “feti abortiti” e pure in generale, visto che – ho scoperto con l’occasione e non senza una certa sorpresa – esiste tutto un movimento di opinione che contesta le vaccinazioni in quanto tali, non soltanto sul piano tecnico.

Personalmente, debbo misurare che questo è il primo caso in vita mia in cui mi sia dovuto misurare con l’ignoranza invincibile.

Com’è noto e comunque evidente, in astratto non esiste ignoranza che sia invincibile: basta studiare abbastanza bene, abbastanza a lungo, e si può arrivare a capire tutto. Forse perché a me lo studio è sempre riuscito facile e piacevole, non ero mai neppure riuscito a figurarmi un’ipotesi in cui ciò non fosse possibile in concreto, tranne forse la mancanza di fonti di informazione. Qui però, posto semmai dinanzi al problema del loro eccesso, ho dovuto rassegnarmi al fatto che, per poter esprimere una valutazione mia, con cognizione di causa, su aspetti come la natura del virus, la gravità del morbo causato, l’entità del rischio e la presumibile efficacia delle misure preventive del contagio avrei dovuto impiegare come minimo due anni di studio “matto e disperatissimo” senza occuparmi di nient’altro. Ma se anche l’avessi potuto fare (e non potevo) le mie conclusioni sarebbero arrivate troppo tardi per essere utili sul piano pratico, anche soltanto a me stesso. E il discorso non mi pare molto diverso rispetto alla querelle sui vaccini, data se non altro la complessità degli elementi fattuali.

Sembra, però, che io sia l’unico ad aver ragionato in questi termini: mi piacerebbe sbagliarmi, eppure vedo il resto dell’Universo allegramente spaccato in tifoserie opposte. Stavolta per una ragione ben precisa: versando appunto in ignoranza invincibile come me, ne fossero consapevoli o meno, tutti quanti hanno risolto il dubbio pratico rifacendosi ad uno dei princìpi riflessi applicati per situazioni simili in teologia morale, precisamente Sua in dubiis standum est in arte peritis. Senonché, ciascuno ha scelto i suoi esperti di cui fidarsi e, non potendo evidentemente ponderarne l’autorevolezza scientifica, è andato “a pelle”, a simpatie, o a presunzioni più o meno generali, più o meno sensate. In particolare, alcuni hanno applicato un principio riflesso distinto e aggiuntivo, accordando la preferenza alle voci “ufficiali” degli esperti a vario titolo vidimati e cooptati dai governi; altri, partendo dall’ineccepibile rilievo che l’autorità politica non è e non può essere arbitra della verità scientifica, hanno capovolto il giudizio perché, in buona sostanza, giudicano sospetti a priori più o meno tutti i titolari di pubbliche funzioni del mondo occidentale, con eccezioni e infatuazioni per quelli che si esprimano in disaccordo dal paradigma dominante. Di qui anche l’intreccio con il tema, preesistente ma rilanciato proprio dalle vicissitudini covidensi, del c.d. “Grande Reset”, con annesse declinazioni in chiave ecclesiastico-apocalittica.

Pur essendo convintissimo che la Massoneria controlli, in maniera diretta o indiretta, i governi della Cristianità apostata, non a caso (s)battezzata dall’apostata Comte con il nome di “Occidente”; altrettanto convinto che la setta esecranda sia in realtà dedita al culto del Demonio, in maniera peraltro incomprensibile alla maggior parte degli adepti; e ben certo che, tra i suoi piani a scadenza più o meno lunga, rientri l’instaurazione di un governo unico mondiale onnipotente, in cui non sarebbe azzardato ravvisare l’Anticristo vero e proprio anziché uno dei tanti suoi precursori; nondimeno tali convinzioni non mi sembrano sufficienti a risolvere i dubbi pratici. Almeno se si assume che un virus esista e che l’obiettiva gravità del morbo corrispondente sia incerta: punti non pacifici, a onor del vero, in una guerra che d’altronde si presenta come totale.

Se però passiamo dalla lettura generale degli eventi al giudizio intorno alle misure preventive e/o alle vaccinazioni, il coro delle urla belluine contrapposte raggiunge livelli non solo assordanti, ma soprattutto significativi di contrapposti squilibri. E non solo i miei timpani, ma anche altre parti del corpo che ancor meno apprezzano i martellamenti sono stanche della retorica “Libertà, libertà, dittatura sanitaria, ci vogliono rovinare, oppressione anticristiana e anticristica!” quanto di quella “Ma allora ammettetelo, siete pro-eutanasia, vi sta bene che i vecchi muoiano, idolatri di Mammona e dello spritz! La salute prima di tutto! La vita, ma la vita di tutti!”.

In prima battuta, occorre prendere atto che il mondo cattolico sembra incapace di concepire la stessa possibilità che, su un argomento importante, possano esistere opinioni anche opposte, ma egualmente legittime. E questo è un errore madornale, almeno per il fatto che sia il probabilismo sia il probabiliorismo – e quindi l’unanimità morale dei teologi degli ultimi secoli – ammettono il contrario, differendo semmai sui criteri di preferenza: si tratta però sempre di scegliere tra opzioni che non sono dette a caso probabiles, ossia (tutte, in partenza) meritevoli di approvazione. In altre parole: l’esistenza di un diritto divino oggettivamente conoscibile, sia esso positivo o naturale, non trasforma affatto ogni giudizio morale concreto in una conclusione tanto necessaria quanto “2 + 2 = 4”. Chi afferma il contrario attribuisce all’intelletto dell’uomo capacità che superano forse anche quello degli Angeli.

Stringendo poi più da presso la sostanza del problema concreto, chi contesta gli esperti “governativi” può avere mille ragioni dal punto di vista scientifico (o forse no, non pretendo di capirlo), ma rischia di dimenticare che la convinzione anche ragionevole che l’autorità si sbagli non basta a far cessare l’obbligo di seguirne le disposizioni, almeno non quando si temono mali maggiori; certamente poi non basta a render lecita l’aggressione – si spera solo verbale – in danno di chi, riscontrato il contrasto tra soggetti prima facie esperti, nel dubbio si regola secondo le indicazioni autoritative. D’altro canto, però, neppure a questi può esser lecito vituperare il dissenso, specie se vituperato, o la stessa disobbedienza se giustificata – quantomeno – dal medesimo criterio del male maggiore.

Sicuramente, qui giocano un ruolo importante le opposte valutazioni di fatto: a torto o a ragione (Deus scit, non ego), per gli uni il Covid è una minaccia trascurabile, per gli altri invece è tanto seria da legittimare una logica emergenziale. La pur possibile terza via, improntata ad un rigoroso vaglio di necessità e proporzionalità sulle misure assunte, trova ben poco spazio e non mi pare che si sia discusso su spazi o ruoli da lasciare alla responsabilità individuale, all’autonomia privata o anche alle associazioni di settore; di conseguenza, è stato inevitabile uno scontro frontale.

Ma mentre sulla pericolosità del virus non sono in grado di esprimere un’opinione, credo di poter dire qualcosa sulle contrapposizioni – ulteriori – a livello di princìpi morali. E pure qui ce n’è per entrambe le parti.

Premetto, per doverosa trasparenza, di aver risentito assai poco del lockdown, sia in termini personali sia sul piano economico; al massimo posso dire di aver patito un fastidio moderato. In più, la mia spiccata misantropia mi fa rabbrividire, letteralmente, quando sento invocare la socializzazione e altri simili; lascio poi al lettore immaginare la mia reazione dinanzi alla frase di un collega edonista che, privato di cene, aperitivi e simili, ha commentato “Vedi? Muori un anno prima, ci han tolto un anno di vita!”. Le critiche all’edonismo, il richiamo all’importanza del sacrificio, della rinuncia ai piaceri in nome di valori più alti, tutto questo mi trova senz’altro d’accordo.

Eppure, non riesco a stare dalla parte “governativa”. Proprio per ragioni etiche, che prescindono dal pur evidente dilettantismo delle misure via via adottate o ripensate. Vedo infatti tre problemi principali:

  1. ci si dimentica che il bene non si limita all’onesto, ma include altresì l’utile e il dilettevole. La libertà di fare una passeggiata o prendere un aperitivo, anche considerata in sé stessa e senz’altri risvolti, è un bene. Questo non la rende intangibile, però le attribuisce un valore anche morale che dovrebbe essere riconosciuto anche, o forse soprattutto, nel momento in cui la si comprime. Così a maggior ragione la libertà di lavorare, che appartiene alla categoria dell’utile e serve ad un fine onesto come il mantenimento di sé stessi o della famiglia; al massimo, gli indennizzi possono mitigare le conseguenze peggiori, ma non rimediano al male arrecato, anche solo in termini di vulnus personale. Arrecarlo può essere stato necessario; ma il male necessario non va mai confuso con un bene.
  2. Soprattutto in ambito tradizionalista, l’equivalenza pressoché istintiva “libertà = liberalismo” ha portato tanti a squalificare in partenza ogni rivendicazione di libertà, con la possibile ma non certa eccezione del culto pubblico cattolico. Ma lo Stato onnipotente, lo Stato arbitro delle vite dei cittadini, lo Stato giudice di un imperscrutabile interesse pubblico nel cui nome può privare almeno della generalità dei beni temporali… tutto questo è estraneo ala dottrina sociale della Chiesa e, prima ancora, alla plurisecolare prassi della Cristianità. Sì, la logica dei diritti è moderna; ma l’idea deui diritti inviolabili è cristiana e nasce dalla trascendenza della persona rispetto alla polis, concepibile solo per chi sappia che il fine ultimo dell’uomo è il possesso di Dio nella visione beatifica.
  3. Che il bene comune possa comportare il sacrificio dell’individuale è certo, che la vita terrena sia più importante del denaro o dei minuti piaceri lo è altrettanto. Sul piano oggettivo, però, il bene comune è di due ordini: spirituale e temporale; il bene spirituale di una sola anima è superiore al bene temporale di tutto l’Universo, ma altrettanto non può dirsi della vita terrena di ogni singolo uomo. Infatti bisogna sempre muovere mari e monti per la pecorella smarrita, ma al singolo può essere legittimamente chiesto di esporre la propria vita anche a protezione di un bene di rango inferiore, p.es. la guardia giurata che protegge averi, non esseri. Pensare che ogni discorso di accettazione del rischio, o di rischio consentito, sia incompatibile di per sé con il valore della vita (terrena) significa fare di quest’ultimo l’imperativo categorico kantiano che, per un cattolico, non potrà mai essere. Ma se poi passiamo al piano soggettivo, a questo mondo ateo, indemoniato e disperato, allora signori, ricordiamoci bene che o il senso della vita sta nel nostro rapporto con Dio, oppure ciascuno di noi avrà, e di fatto in genere ha anche se cattolico, qualcosa che per lui è vitale perché lo aiuta a sopportare il peso dell’esistenza: può trattarsi delle chiacchierate con gli amici, delle passeggiate, dei libri, degli scacchi o di qualsiasi altra cosa sotto il sole, lecita o illecita. Privare per lungo tempo la quasi totalità delle persone di beni che probabilmente assolvono ad un ruolo simile (certo deprecabile in termini ascetici) per molti di loro equivale, a sua volta, ad accettare un rischio sul piano della salute: il loro crollo psicologico. Si può fare? In astratto, certamente. Ma forse, in concreto, sarebbe il caso di discutere senza logiche talebane.

Sia chiaro: questa non è una presa di posizione in favore di Tizio o di Caio, di una linea o di un’altra, ancor meno sul se, quanto e come alleviare le restrizioni, o sul supposto dovere di vaccinarsi. Il diritto di infischiarmene è, innanzitutto e soprattutto, il diritto di non lasciarmi trascinare in dispute di tal fatta. L’articolo vuol essere, molto più modestamente, un richiamo forte alla considerazione di alcuni punti necessari al dibattito proprio dal punto di vista morale cattolico… anzi, mi verrebbe da dire, all’esistenza stessa di un dibattito e non di un campionato di urla.

E per stasera penso di essermi guadagnato nemici a sufficienza. Li ringrazio fin d’ora dell’attenzione, beninteso se sono arrivati fin qui, e attendo serenamente le cannonate: tanto, pressione sociale più pressione sociale meno, che volete che mi cambi?


Foto di Zakaria Boumliha da Pexels