di Luca Fumagalli

Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.

Per le precedenti puntate: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata

Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di G. K. Chesterton e quella di molti altri scrittori cattolici britannici si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.

I tre strumenti di morte (The Three Tools of Death) è il racconto conclusivo de L’innocenza di Padre Brown (1911), la prima raccolta dedicata alle indagini del singolare sacerdote detective nato dalla penna del grande polemista inglese G. K. Chesterton. La storia, a differenze delle precedenti, ha per protagonista unicamente Padre Brown, mentre il nome di Flambeau, l’ex ladro gentiluomo nel frattempo divenuto suo collaboratore, è menzionato solo en passant quale amico comune del sacerdote e di Merton, un giovane agente di polizia. Nell’insieme si tratta di un racconto paradossale, pieno di buon umore e di speranza – «Persino i più micidiali errori non avvelenano la vita, come i peccati» – ma al contempo attraversato dalla cupa ombra dello sconforto che avvolge tanto il cuore duro del protestante quanto quello vuoto dell’uomo di mondo. I tre strumenti di morte si risolve dunque in una messa in guardia contro il pericolo dell’evasione a ogni costo, contro il rischio di ridurre la propria esistenza a una perenne vacanza, priva di senso e significato.

La vicenda, costruita quasi esclusivamente sui dialoghi, ruota attorno al misterioso assassinio di Sir Aaron Armstrong, il cui cadavere viene rinvenuto nei pressi della sua dimora di Hampstead, al fondo di una scarpata, con l’osso del collo rotto dopo essere caduto da una finestra. I sospetti ricadono inizialmente sul servitore Magnus, un tipo decisamente losco, ma non vi è nessuna prova che lo possa incastrare. Oltre a lui, con Sir Armstrong vivevano la figlia Alice e il segretario, Patrick Royce, «un irlandese di nascita; un cattolico occasionale, di quelli che non ricordano la propria religione se non quando si trovano veramente in un grosso guaio».

Sulla scena vengono recuperate tre probabili armi del delitto, ovvero un coltello, una corda e una pistola, e se le dinamiche dell’omicidio non sono affatto chiare, è pure strano che qualcuno volesse la morte di Sir Armstrong, un filantropo che ha salvato tanti uomini e donne dalla strada, tra cui Magnus, noto in tutta l’Inghilterra per il suo inguaribile buonumore: «La storia della sua conversione era familiare a tutte le tribune e i pulpiti più puritani: come, ancora ragazzo, avesse lasciato la teologia scozzese per il whisky scozzese, e come si fosse liberato da entrambe le cose e fosse diventato (com’egli diceva modestamente) quello che era. Tuttavia la sua barba bianca, il volto da cherubino e gli scintillanti occhiali, agli innumerevoli pranzi e congressi dove apparivano, rendevano in qualche modo difficile credere che fosse mai stato qualcosa di così morboso come un alcoolizzato o un calvinista. Era l’uomo più seriamente gaio di questo mondo».

Eppure il clima freddo e opprimente che si respira tra le mura di casa Armstrong – con Magnus che ha consegnato immediatamente i soldi del padrone alla polizia, non fidandosi nemmeno di Alice – instilla a Padre Brown il dubbio che dietro tutta quella storia confusa si nasconda semplicemente la perfetta logica del male: «Lei dice che a nessuno può essere saltata alla mente l’idea di uccidere un vecchio così allegro, ma io di ciò non sono sicuro; ne nos inducam in tentationem. Se mai dovessi uccidere qualcuno […] sceglierei probabilmente un ottimista. […] Alla gente piace ridere spesso, […] ma non credo che piaccia un sorriso continuo. L’allegria priva di umorismo è molto fastidiosa». Più avanti, conclude: «Naturalmente il bere non è una cosa né buona né cattiva in sé; ma non posso fare a meno, talvolta, di pensare che uomini come Armstrong avrebbero bisogno di un bicchierino di vino per divenire tristi».

Dopo una lunga meditazione, interrotta solo da un colpo di scena che vede Royce accusarsi del delitto per salvare l’onore di Alice, di cui è innamorato, il sacerdote giunge alla conclusione che Sir Armstrong soffriva di mania depressiva: «La religione dell’allegria è una religione crudele. Perché non lo lasciarono piangere un poco, come i suoi padri prima di lui? I suoi progetti s’irrigidirono, le sue vedute si raggelarono; dietro a quella gaia maschera c’era lo spirito desolato di un ateo. Alla fine, per mantenere il suo livello di ilarità in pubblico, ricadde nel vizio dell’alcool che aveva abbandonato molto tempo fa. Ma l’orrore dell’alcoolismo in uno che fu astemio è questo: che egli s’immagina e si attende quell’inferno psicologico dal quale ha messo in guardia gli altri. Armstrong ne fu ben presto preda, e questa mattina era in condizioni tali che stava qui seduto a gridare che era all’inferno, con una voce così alterata che sua figlia non la riconobbe. Voleva furiosamente morire, e nel modo complicato dei pazzi aveva sparso intorno a sé la morte in molte forme: un nodo scorsoio, la rivoltella dell’amico e un coltello. Royce entrò per caso e agì in un lampo. Gettò il coltello sul tappeto dietro di sé, afferrò la rivoltella e, non avendo il tempo di scaricarla, sparò un colpo dopo l’altro sul tappeto. Il suicida scorse allora una quarta forma di morte, e si precipitò alla finestra. Il salvatore fece la sola cosa che poteva: lo rincorse con la corda e cercò di legarlo mani e piedi. Fu allora che la disgrazia ta ragazza arrivò di corsa e, fraintendendo il motivo della lotta, cercò di liberare il padre. Dapprima ferì soltanto le nocche del povero Royce, da cui è venuto quel po’ di sangue di questa faccenda; avrà certo osservato che il suo pugno lasciò del sangue, ma nessuna ferita, sulla faccia di quel servitore? Solo, prima di svenire, la poveretta riuscì a liberare il padre, cosicché egli precipitò dalla finestra nell’eternità».

Al pari dell’apertura del racconto, in cui si allude alla dignità dei morti, la conclusione è ironica, e Padre Brown si allontana dal luogo del delitto, dopo aver risolto il caso, giusto in tempo per vedere arrivare il giudice istruttore: «Mi spiace, ma non posso fermarmi per l’inchiesta».