di Luca Fumagalli
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di Graham Greene e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.
Nello scorso secolo Graham Greene è stato certamente tra gli scrittori meno insulari del cattolicesimo inglese. Letto e amato pure all’estero, aveva un profondo debito culturale nei confronti della Francia e dell’Europa intera, e fu solo per un soffio se mancò l’appuntamento con il Nobel. Soprattutto fu un instancabile viaggiatore, perennemente in fuga da se stesso e dalle sue nevrosi, al contempo attratto da quei luoghi “di confine” dove splendore e miseria si confondono senza soluzione di continuità, gli stessi luoghi che fanno da sfondo ai suoi romanzi migliori e che qualche critico ha ipotizzato essere manifestazioni diverse della medesima “Greeneland”.
Il Messico che Greene visitò nel 1938 offriva, in tal senso, uno scenario ideale: il governo massonico, sebbene con metodi generalmente meno violenti rispetto a quelli impiegati all’epoca della sollevazione dei Cristeros, proseguiva la sua opera di persecuzione della Chiesa cattolica, mentre l’inetta e corrotta classe dirigente impediva che si registrassero significativi miglioramenti in campo economico e sociale. Le stesse truppe federali, quando non impegnate a favorire la salita al potere del demagogo di turno, erano costrette a intervenire di continuo per sedare le ribellioni dei vari governatori locali. Se a ciò si aggiunge il caldo insopportabile – o il freddo lancinante delle altitudini più elevate – il sincretismo paganeggiante della cultura campagnola, la sfuggente minoranza india, le rovine maya, le antiche cappelle spagnole, il proliferare di dentisti e denti d’oro, i rifiuti ammassati ai lati della strada, i mendicanti e la profonda devozione del popolo ecco che si hanno tutti gli ingredienti per un affascinante racconto di viaggio che Greene pubblicò l’anno successivo. Il titolo, Le vie senza legge (Lawless Roads), veniva da una poesia di Edwin Muir.
L’idea del libro era stata di Tom Burns, pregiata firma del «Tablet», il più importante periodico cattolico d’Inghilterra, che aveva chiesto a Greene di raccontare la dura condizione della Chiesa in Messico. Lo scrittore si era dunque messo d’impegno per riordinare gli appunti raccolti nel corso di una lunga traversata che lo aveva portato dalla città di Laredo, al confine col Texas, fino alle provincie meridionali, passando per Monterrey, Città del Messico, Vera Cruz, Frontera, Palenque, Las Casas, Tuxfla e Oaxaca. Optò per lo stile che aveva già sperimentato in Viaggio senza mappe, filtrando le percezioni psicologiche attraverso le descrizioni di un paesaggio alieno, il tutto arricchito da brani dedicati ai sogni e ai libri letti, nonché da qualche accenno fugace alla depressione. Una delle epigrafi del volume, una lunga citazione in cui il cardinal Newman si scaglia contro la moderna società secolarizzata, suona invece come una messa in guardia sulle possibili conseguenze di quel clima di crescente tensione internazionale che, di lì a poco, avrebbe portato allo scoppio del Secondo conflitto mondiale: «Se esiste un Dio, e dal momento che un Dio esiste, il genere umano è colpito da qualche terribile calamità naturale».
Nel prologo, diviso in due parti distinte intitolate rispettivamente “Gli anarchici” e “La Fede”, Greene giustappone la sua frustrante esperienza alla scuola di Berkhamsted – descritta con toni disperanti alla Brighton Rock – con la storica scena della fucilazione di Padre Pro, il più famoso e celebrato martire della guerra cristera, e con il tentativo da parte dello Stato di estirpare il cattolicesimo in Messico: «All’epoca in cui partì […], Calles era stato eliminato da alcuni anni, trasportato in esilio dal suo rivale Cárdenas. Le leggi antireligiose erano ancora in vigore salvo in uno Stato, San Luis Potosí, ma la pressione della popolazione cattolica cominciava a farsi sentire. Era stato concesso di riaprire le chiese, ora proprietà pubblica, nella maggioranza degli Stati; salvo quelle centinaia che erano state trasformate in cinematografi, redazioni di giornali, autorimesse. Una certa percentuale di preti, calcolata in relazione al numero della popolazione, era stata ammessa a funzionare dai Governi dello Stato. Di rado la percentuale era più favorevole di un prete ogni diecimila abitanti, ma la legge, specialmente nel distretto federale di Città del Messico, era fiaccamente applicata. Però in alcuni Stati la persecuzione era mantenuta». L’agrodolce delle prime pagine, oltre a fornire le coordinate fondamentali entro cui comprendere gli sviluppi della vicenda, esplicita la duplice natura dell’approccio di Greene alla questione messicana.
Difatti, una volta superata la frontiera, a colpirlo sono innanzitutto i bisogni materiali di un popolo affamato, misero, abbandonato da politicanti impegnati a farsi la guerra tra loro per accaparrarsi uno strapuntino di potere. Nel Paese vige una sorta di legge della giungla, con poliziotti violenti e omicidi a cadenza giornaliera. Le condizioni igieniche non sono certamente migliori, così come fanno accapponare la pelle le pance gonfie di tanti ragazzi stremati dalla stitichezza e dai vermi intestinali. Solo l’Azione Cattolica pare essere interessata a difendere i diritti dei lavoratori, associata a vescovi che condannano con pari asprezza sia il comunismo che il capitalismo. Nonostante le buone intenzioni, i risultati continuano però a essere scarsi: «Il cattolicesimo, lo si vedeva, doveva riscoprire la tecnica della rivoluzione» (un principio che rimase saldo nella mente di Greene per i successivi cinquant’anni). Più avanti, dopo un rimando al Trollope de Le torri di Barchester, le figure di Padre Pro e del gesuita Edumund Campion – un martire dell’epoca elisabettiana – vengono evocate non tanto per marcare delle analogie tra il Messico del XX secolo e l’Inghilterra del XVI, quanto per ribadire come la storia non sia altro che un’eterna lotta tra le forze del bene e quelle del mare. Ecco che allora il Messico si fa paradigma universale: «Forse l’unico organismo che nel mondo odierno efficacemente – e a volte con successo – avversi lo Stato totalitario è la Chiesa cattolica».
Ciononostante anche il ritratto del cattolicesimo messicano che Greene consegna al lettore non ha nulla del panegirico incondizionato. Con la consueta lucidità, l’inglese ne sonda i chiaroscuri e le contraddizioni, narrando storie di preti eroici e quelle di vili traditori, descrivendo le sentite pratiche religiose del popolo ma anche le sue superstizioni (proprio da questo materiale l’inglese attinse a piene mani per Il potere e la gloria, da molti giudicato il suo miglior romanzo).
Quello che ne emerge è un bilancio comunque positivo, una testimonianza di Fede e di passione che, al netto dei limiti umani, non ha eguali in nessun’altra parte del mondo. Greene se ne rende pienamente conto quando raggiunge per la prima volta il santuario di Guadalupe: «La Vergine di Gudalupe, come Giovanna d’Arco in Francia, si identificò non soltanto con la Fede, ma col Paese; fu un simbolo patriottico, anche per gli increduli». Pure Evelyn Waugh in Robbery Under Law (1939) – un racconto di viaggio simile a quello dell’amico, ma incentrato più che altro sui problemi economici del Messico – arrivò a sostenere che quella religiosa era la questione «unica ed essenziale» del Paese.
Nel finale, in mare verso Lisbona, Greene e i suoi compagni di viaggio sperano ingenuamente di potersi lasciare alle spalle gli orrori di cui sono stati testimoni nel Nuovo Mondo. Tuttavia, ormai sull’orlo del conflitto, nemmeno l’Europa è un posto più tanto sicuro: «La violenza si è avvicinata. Il Messico è uno stato d’animo».