di Luca Fumagalli
Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celebre sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.
Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo a questo link.
Per le precedenti puntate… da “L’innocenza di Padre Brown: 1. La Croce azzurra / 2. Il giardino segreto / 3. Il passo strano / 4. Le stelle volanti / 5. L’uomo invisibile / 6. L’onore di Israel Gow / 7. La forma errata / 8. Le colpe del Principe Saradine / 9. Il martello di Dio / 10. L’occhio di Apollo / 11. All’insegna della spada spezzata / 12. I tre strumenti di morte. Da “La saggezza di Padre Brown”: 1. L’assenza del Signor Grass / 2. Il paradiso dei ladri / 3. Il duello del dottor Hirsch
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di G. K. Chesterton e quella di molti altri scrittori cattolici britannici si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.
È un dato di fatto che G. K. Chesterton non scriva detective stories classiche. Nei racconti di Padre Brown, ad esempio, non è offerta quasi mai la possibilità di intuire chi possa essere il colpevole del delitto – e le sue ragioni – prima dello smascheramento finale. Mancano infatti quei piccoli dettagli, semi-nascosti tra le righe, che potrebbero guidare alla soluzione il lettore più accorto, e anche nel caso de L’uomo nel passaggio (The Man in the Passage), quarta storia della raccolta La saggezza di Padre Brown (1914), gli elementi cruciali sono presentati solo nell’epilogo. Certamente, andando a ritroso, tanti pezzi del puzzle trovano la loro giusta collocazione, ma la sensazione è che manchi sempre qualcosa di essenziale. D’altronde il racconto risulta nel complesso macchinoso, poco riuscito, e questo nonostante l’idea interessante di dividerlo in due parti, ovvero quella del delitto vero e proprio e quella del processo al presunto omicida. Davvero curiosa appare poi la scelta di accennare solamente al movente dell’assassinio senza chiarirlo mai fino in fondo. Si potrà forse obiettare che a Chesterton simili dettagli interessano poco, ed è verissimo, ma la qualità globale della storia ne viene inevitabilmente intaccata. Nonostante ciò, L’uomo nel passaggio ha anche i suoi acuti e, ancora una volta, lo scrittore inglese riesce a trovare il modo di infilare le sue riflessioni sull’uomo e sulla modernità senza minare la godibilità dell’intreccio.
Il caso prende le mosse da un gruppo di ammiratori che si ritrovano assiepati nel camerino della bella e acclamata attrice Aurora Rome, in scena a Londra con Sogno di una notte di mezza estate. Intenti a corteggiarla con regali e belle parole sono Sir Wilson Seymour – «Egli era l’unico intelligente su venti persone di un comitato, in ogni campo. […] Onnipotente, specialmente nell’ambiente artistico» –, il Capitano Cutler, eroe nazionale per le sue vittoriose campagne militari in Asia, e Isidore Bruno, compagno di scena della Rome, un attore americano talmente alto e muscoloso da apparire «un dio barbarico»: «I suoi occhi neri e vivaci roteavano, il suo volto bronzo e bello dimostrava più che mai, in quel momento, la combinazione di una fronte prominente e di una chiostra di denti candidi, che richiamava certi sospetti americani circa la sua origine nelle piantagioni del Sud». Con loro vi è anche «l’abietto Parkinson», il domestico dell’attrice, che «la seguiva per la camera con gli occhi e con i piedi, con la silenziosa adorazione di un cane», e, in ultimo, Padre Brown, fatto chiamare d’urgenza dalla Rome stessa: «Era un ometto piccino, nel nero abito del clero secolare romano, che, specialmente in presenza di Bruno e di Aurora, appariva piuttosto simile ad un goffo Noè uscito dall’Arca».
Poiché l’attrice ha tutta l’aria di dover parlare urgentemente col prete, si adopera per congedare con tatto i suoi spasimanti: «Era evidente che la grande Aurora, benché non fosse per nulla indifferente all’ammirazione dell’altro sesso, voleva, in quel momento, liberarsi di tutti gli uomini che la ammiravano per essere lasciata sola con l’uomo che non l’ammirava in quel senso». Uno alla volta Cutler, Bruno e Seymour sono fatti uscire dal camerino che, al pari di quello del collega americano, dà direttamente su un sottopassaggio discreto, usato dagli attori più conosciuti per «incontrarsi con gli amici, o per sfuggirli». Mentre Padre Brown, «abbandonato a quelle meditazioni astratte che lo divertivano sempre», osserva gli specchi che tappezzano il camerino dell’attrice in attesa del suo ritorno, si sente un grido acuto e soffocato provenire dall’esterno. Tutti accorrono sul posto e la Rome viene ritrovata distesa nel sottopassaggio, ferita a morte da una lama. La polizia, immediatamente avvertita, non ci pensa due volte ad arrestare Bruno: si fida della testimonianza di Cutler, il quale, con Seymour, sostiene di aver visto una strana figura aggirarsi nel passaggio poco prima che il delitto venisse compiuto (anche se, per la verità, le descrizioni non coincidono affatto). Ad aggiungere tragedia alla tragedia, Parkinson, segnato profondamente dalla scomparsa della sua padrona, muore di crepacuore.
Data la notorietà delle persone coinvolte nella triste vicenda, il clamore mediatico è inevitabile, un clamore che si intensifica con l’avvicinarsi del processo. Chesterton, memore delle sciagure giudiziarie del fratello Cecil che, nel 1912, venne condannato ingiustamente per un’inchiesta giornalistica in cui si rivelavano i loschi traffici di certi politici, pare cogliere a questo punto la palla al balzo per levarsi qualche sassolino dalle scarpe. L’ipotesi è più che probabile dal momento che il racconto, prima di essere inserito ne La saggezza di Padre Brown, apparve per la prima volta sul «McClure’s Magazine» nell’aprile del 1913, quindi proprio a ridosso del processo a Cecil.
La prima stoccata è rivolta alla stampa: «Secondo le politiche editoriali dei quotidiani moderni, le notizie più oneste e più importanti sono quelle di cronaca. Se è vero che nel xx secolo viene dato più spazio all’omicidio che alla politica, è per l’eccellente ragione che l’omicidio è un argomento assai più importante […]. Così ampio fu l’interesse che, per alcune settimane, la stampa disse solo la verità; e i resoconti degli interrogatori e dei controinterrogatori, interminabili anche se intollerabili, furono almeno veritieri. Il vero motivo, ovviamente, era la figura delle persone coinvolte. La vittima era una popolare attrice, l’imputato era un popolare attore, e l’accusato era stato colto con le mani nel sacco – così pareva – dal più popolare soldato di quella stagione patriottica. In quelle straordinarie circostanze, la stampa era costretta a usare veridicità e accuratezza, e il resto di quella alquanto singolare vicenda può essere praticamente evinto dai resoconti del processo Bruno». La seconda stoccata tocca invece ai giudici: «Il giudizio venne presieduto dal Giudice Monkhouse, uno di quelli che vengono scherniti con la definizione di giudici arguti, ma che sono generalmente molto più seri dei giudici seri, perché la loro allegria deriva da una totale insofferenza nei confronti della solennità professionale, mentre il giudice serio è davvero pieno di frivolezze, perché è pieno di vanità». A tutto ciò va aggiunto che durante il processo, mentre Padre Brown sta parlando dal banco dei testimoni, il Pubblico Ministero si distingue per un astioso pregiudizio di marca protestante nei confronti di qualunque minoranza, siano essi “papisti” o neri: «Sir Walter si era in qualche modo ficcato in testa (principalmente a causa di alcune implicazioni religiose della sua famiglia) che Padre Brown stesse dalla parte dell’imputato, perché questi era malvagio, straniero e persino in parte di colore».
Al sacerdote investigatore tocca infine svelare le dinamiche dell’omicidio: «Anche le lance hanno delle lame corte. Qualunque lancia si attacca alla punta di acciaio proprio come un pugnale, se si tratta del tipo di lance usate nei teatri; come quella che il povero vecchio Parkinson ha usato per uccidere sua moglie proprio quando lei mi aveva mandato a chiamare per risolvere i loro problemi familiari, e io sono giunto troppo tardi. Dio mi perdoni! Però è morto pentendosi: è proprio morto di pentimento. Non è riuscito a sopportare quello che aveva fatto». Come si accennava in precedenza, sul movente dell’assassinio e sull’inquietante Parkinson non viene detto altro.
E la misteriosa ombra? Qualcuno degli specchi del camerino poteva essere fatto scivolare all’estero, nel sottopassaggio. Ecco perché Sir Wilson Seymour «quando vide quella strana cosa con le curve, l’acconciatura dei capelli femminile e i pantaloni da uomo, quello che vide era Sir Wilson Seymour»; medesimo discorso per la figura mostruosa intravista dal Colonnello che, altri non era, che egli stesso.
È così, con una nota comica finale che rimanda al socratico “Conosci te stesso”, che si chiude il racconto. Solo Padre Brown, profondamente consapevole della natura umana e tutt’altro che vanaglorioso, poteva capire cos’era veramente successo: «Il giudice si appoggiò nuovamente allo schienale della sua sedia con una ridondanza in cui era difficile separare il cinismo dall’ammirazione. “E potete dirci perché”, chiese, “avreste dovuto riconoscere la vostra figura in uno specchio, quando due simili distinti gentiluomini non lo hanno fatto?” Padre Brown socchiuse gli occhi ancora più dolorosamente di prima; poi balbettò: “In realtà, signore, non saprei… a meno che non sia perché non la guardo così spesso”».