di Luca Fumagalli
Continua con questo articolo l’approfondimento sulla vita e le opere dello scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), tra gli autori più interessanti e originali del panorama letterario cattolico del Novecento. Per i contributi precedenti:
- Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown – QUI
- La comunità tradizionale e la lunga ombra del progresso nichilista: leggendo “Greenvoe”, il primo romanzo di George Mackay Brown – QUI
- “Magnus” di George Mackay Brown: note a margine di un capolavoro della letteratura cattolica scozzese – QUI
- “Lungo l’oceano del tempo”: il ritorno al reale in un romanzo dello scozzese George Mackay Brown – QUI
- “In quella grotta” di George Mackay Brown: le radici e la memoria in uno splendido romanzo per ragazzi – QUI
- «Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown, tra i più grandi autori scozzesi del XX secolo – QUI
Per chi fosse interessato ad approfondire la figura di G. M. Brown e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.
Introduzione
Pubblicata nel 1997, un anno dopo la scomparsa di George Mackay Brown, For The Islands I Sing è un’autobiografia breve e avvolgente, stesa in prima battuta nel 1985 e ampliata di poco nel 1993. Anche se procede in ordine cronologico, il volume è talmente zeppo di incisi e parentesi – compresi alcuni inserti poetici o narrativi – che la cosa si avverte appena. Lo scorrere degli anni sta, per così dire, sullo sfondo, limitandosi a dare coerenza a un testo che rischierebbe altrimenti di franare in una giustapposizione confusa di riflessioni sparse. Difatti in For The Islands I Sing Brown, tra i più grandi poeti e prosatori scozzesi del XX secolo, si dedica soprattutto ad analizzare la propria parabola creativa, mettendo in risalto gli elementi essenziali di una poetica del radicamento dal sapore decisamente antimoderno, che trae linfa vitale sia della piccola patria orcadiana che dalla Fede. Nelle sue opere protagonista indiscusso è proprio il microcosmo delle isole Orcadi, non un mondo a parte ma un riflesso, seppur in scala decisamente più piccola, dell’universo intero. Qui contadini e pescatori vivono in armonia con il creato, nutrendosi pure di racconti e antiche leggende. A minacciare la comunità, con i suoi legami secolari, vi è però costante la presenza del “progresso”, un nemico senza volto, tecnologico e omologante, votato unicamente alla distruzione per un meschino tornaconto economico.
Tralasciando le parti dedicate alla conversione al cattolicesimo – di cui si è già discusso in un precedente articolo – e quelle più schiettamente biografiche, è possibile individuare in For The Islands I Sing quattro nuclei tematici principali, ovvero le Orcadi, la Orkneyinga Saga, il “progresso” e la scrittura, tutti ugualmente interessanti per apprendere qualcosa in più su Brown e sulla sua opera.
Le Orcadi e la sua gente
Brown era nato nel 1921 nella piccola cittadina costiera di Stromness, «chiamata dai vichinghi Hamnavoe, che significa “paradiso dentro la baia”». Lì, salvo una breve parentesi a Edimburgo, condusse una vita ritirata fino alla fine dei suoi giorni.
Al di là del paese natale, più in generale sono le isole Orcadi a costituire per Brown una fonte di ispirazione imprescindibile: «Mi sono dilungato molto su questo sfondo perché è l’ambientazione di quasi tutto quello che ho scritto. Le Orcadi sono un terreno particolarmente fertile per la narrativa e la poesia. Due orcadiani appartenuti a una generazione precedente la mia – il poeta, traduttore e saggista Edwin Muir e il romanziere Eric Linklater – si sono abbeverati a queste fonti, ognuno a suo modo. Un poeta lirico non molto conosciuto, perché i suoi lavori migliori sono stati scritti nel dialetto delle Orcadi, era Robert Rendall. Qualche volta penso che sia possibile che più o meno una dozzina delle sue liriche perfette sopravvivranno a tutto quello che noi abbiamo fatto».
Le Orcadi significano poi identità e senso di appartenenza: «Oggi l’onda sembra muoversi contro la cultura – specialmente la poesia – delle piccole nazioni. Un grande e grigio linguaggio universale potrebbe infine coprire ogni cosa. Ma ho fede che la lingua degli uomini sia più strettamente legata alle montagne e ai mari di quanto noi pensiamo; le forme naturali, i suoni e i silenzi genarono la poesia».
Tutto ciò spiega come mai nella topografia delle isole affondi pure parte dell’immaginario simbolico di Brown (a cui contribuiscono anche altri elementi come, ad esempio, la numerologia biblica). Emblematico è il caso del pozzo, quasi un correlativo oggettivo alla Eliot: «Vi era una fattoria nella parte sud di Brinkie’s Brae con un pozzo a lato della strada la cui acqua, stando a quello che si diceva una volta, aveva poteri miracolosi (un simile pozzo è un simbolo ricorrente nei miei scritti)».
Tuttavia le Orcadi sarebbero poca cosa senza i loro abitanti e ad essi Brown dedica numerose pagine di For the Islands I Sing.
I primi a venire menzionati sono i pescatori e i contadini, onnipresenti nelle opere dello scozzese. Sebbene imperfetti al pari di ogni altro essere umano, per Brown divengono emblemi di un legame sincero, sano e fecondo con la natura e con il prossimo: «Ho menzionato gli agricoltori e i pescatori perché sono figure spesso presenti nelle storie e nelle poesie che ho scritto. Nei miei lavori ho cercato di far entrare i due ritmi della terra e del mare; essi sono, in un certo senso, differenti ed opposti, eppure, una volta trasportati nell’immaginazione, creano uno schema e un’armonia». Qualche pagina dopo: «Per quanto gli scozzesi abbiano sempre affermato di essere le più democratiche delle persone, un certo classismo c’è sempre stato, di sicuro a partire dalla rivoluzione industriale. Secondo questo ideale, i lavori più degradanti sarebbero quelli legati alla terra e al mare. Contadini e pescatori, che sono stati così importanti nella società delle Orcadi (essendo la maggioranza), venivano considerati l’ultima ruota del carro». Secondo Brown, naturalmente, le cose stanno all’opposto: «Col passare degli anni sono giunto a considerare contadini e pescatori, e il loro lavoro, come i pilastri di una qualsiasi comunità. Dove sarebbero i generali, i poeti, i legislatori e i filosofi senza il loro lavoro fondamentale? D’altronde le persone migliori che abbia mai conosciuto, gli individui più ricchi e sinceri, erano agricoltori, pescatori e marinai. […] Senza i lavoratori della terra e del mare credo che non avrei mai scritto nessuna storia o poesia».
Ai vagabondi e ai beoni Brown assegna invece il compito di inscenare il dramma della normalità, quella giostra infinita di miseria e grandezza che, malgrado tutto, non riesce a nasconderei segni della presenza di una provvidenza divina: «I vagabondi e gli ubriaconi entrano frequentemente nelle mie storie e nelle mie poesie (troppo di frequente, secondo alcuni lettori). Un motivo, credo, è che simili persone sono possedute da una libertà selvaggia e precaria negata a molti di quelli che sono immersi nella routine del fare soldi e dei comportamenti accettabili, imprigionati in giorni grigi eternamente uguali. In realtà ho imparato che non è così; la vita di ognuno di noi è misteriosa e unica. Sotto il cumulo dell’abitudine, della noia e delle mode da qualche parte giace qual “diamante immortale” di cui parlava Gerard Manley Hopkins. Edwin Miur l’avrebbe chiamato l’ “Eden”, un’eredità puramente umana che risale direttamente al Creatore. Sono spesso stato affascinato dallo snobismo latente che molte persone, persino le più povere e derelitte, tengono nascosto da qualche parte dentro di loro; al minimo incoraggiamento ti diranno, in un segreto sospiro d’orgoglio, che loro non sono ciò che sembrano, che discendono da un antico lignaggio, che hanno legami con qualche duca di due secoli fa o, andando ancora più a ritroso nelle nebbie del passato, con un famoso capo vichingo. Potrebbe essere un frammento svelato di “Eden” – un simbolo davvero bello della poesia di Muir – o un bisbiglio distorto di certi accenni di immortalità alla Wordsworth. Io stesso mi meraviglio di questa preoccupazione per i frammenti sparsi di regni perduti, di questo guardare alle pietre come se fossero gioielli. […] E’ notevole come nella letteratura moderna sia l’uomo comune a custodire il tesoro più raro. Là, smarrito, vi è il “diamante immortale”».
Nei sui scritti Brown fu un attento indagatore delle dinamiche relazionali. Ai personaggi volle donare quella compiutezza che aveva tanto apprezzato nei capolavori di Shakespeare, Tolstoy, Mann, Forster e Molière: «Indossiamo delle maschere quando usciamo dalla nostra casa ed entriamo nella comunità. La vita in comune è complessa; indossiamo una maschera diversa per ciascuna persona che incontriamo […]. Simili misteri non li ho certo dimenticati quando ho iniziato a scrivere. In tutti i rapporti umani ci sono intrecci complicati, come gli strumenti musicali in un quartetto o in un’orchestra». Ancora: «Sin dalla riapertura dei pub, un nuovo elemento entrò nei miei scritti: il cambiamento, positivo o negativo, procurato dall’alcol sulle persone. Mi fornì l’opportunità di studiare dall’interno i meccanismi della mente: come al di sotto della grigia complessità della superficie esistesse un semplice mondo ritualistico di gioia e rabbia».
L’anelito alla compiutezza non è accantonato da Brown nemmeno quando nei protagonisti delle sue storie sono ravvisabili caratteristiche che tendono a ripresentarsi con poche variazioni: «La relazioni tra uomini e donne è spesso esplorata nei miei lavori, e la tendenza è sempre quella di associare gli uomini al pericolo, al rischio, alla rottura e all’abbattimento, e le donne all’attesa infinita, alla pazienza e alla consolazione».
Una storia norrena
Al cuore dell’ispirazione dello scrittore scozzese, oltre alle isole e alla sua gente, vi è anche l’ Orkneyinga Saga, «un meraviglioso esempio di letteratura». Si tratta di una delle più celebri saghe norrene che abbraccia la storia delle Orcadi a partire dal IX secolo, quando i norvegesi conquistarono l’arcipelago, fino ad arrivare al XIII secolo, epoca degli Jarl: «Questi fatti storici formano lo sfondo di molte delle opere narrative e dei versi che ho scritto. Senza la bellezza violenta di questi avvenimenti di otto secolo e mezzo fa, la mia scrittura sarebbe stata piuttosto differente». Dall’amore di Brown per la Saga deriva inoltre la convinzione che racconto e memoria siano intimamente connessi: «Mi ha colpito una frase di Thomas Mann, cioè che l’arte in qualche modo è “anonima e della comunità”».
Quella del conte Magnus Erlendsson, ucciso a tradimento dal cugino e in seguito venerato come Santo – a lui è dedicata la cattedrale orcadiana di Kirkwall –, è la figura della Saga alla quale l’autore scozzese si sentiva maggiormente legato. Incarnazione del sacrificio provvidenziale, a lui Brown dedicò svariati scritti tra cui il romanzo Magnus (1973), il suo prediletto: «Alcuni sezioni di Magnus credo siano tra le cose migliori che abbia mai scritto. Pochi lettori sono d’accordo con me. Ma, penso, sia sempre così. “Ciò che tu ami sopra ogni cosa” è spesso guardato con freddezza dagli altri».
La Saga – un classico che, al pari di ogni buon libro, «appartiene a tutte le età, è un’oasi di acqua e verde, è custodito dal suo stesso spirito generoso» – è stata per Brown un modello anche dal punto di vista stilistico: «La struttura e la forma delle storie che compongono una saga sono magnifiche. Penso di aver imparato da esse l’importanza di una forma pura. Ma dalla parte di mia madre, quella celtica, ho tratto il piacere anche per il decorativismo. Si pensi alla complessità della prima arte gaelica. Se sia o meno desiderabile coniugare la “pura narrativa” con una decorazione elaborata non sta a me dirlo. Io scrivo come devo». Sempre a proposito dell’ispirazione: «Non vi è dubbio che gli scrittori prediletti da qualcuno entrino nella sua immaginazione creativa e lo influenzino; tuttavia nessuno deve essere così stupido da imitarli».
Luci e ombre del tempo che verrà
La definizione che Brown dà di “progresso” è abbastanza semplice: «Si tratta di quella religione dell’uomo del XIX secolo – quella forza irresistibile – che distrugge e sradica ogni cosa che gli si para innanzi. Niente è sacro o bello; contano solo il denaro e i profitti». Triste esempio di un simile atteggiamento è la fine della ricca cultura gaelica, «quasi del tutto annientata». Ma, come si suol dire, non tutto il male viene per nuocere se altrove Brown scrive che «dalla desolazione delle Highland ho forse ottenuto il mio talento poetico».
Di nuovo le Orcadi forniscono allo scrittore una geografia simbolico-valoriale all’interno della quale dare sostanza narrativa al suo monito: «Alla fine della strada c’è la vallata marina di Rackwick. […] Una volta era una valle popolosa, ma già aveva parso la maggior parte dei suoi abitanti. Molte delle piccole abitazioni erano abbandonate; la decadenza stava iniziando a cibarsi di ogni cosa. […] Ho rivisto Rackwick parecchie volte dal 1946. Il simbolo ritorna in molte delle mie storie e delle mie poesie migliori, donando loro splendore e forza». A titolo esemplificativo Brown cita Fishermen with Ploughs (1972), ciclo poetico in cui si narra dell’abbandono della vallata di Rackwick e del suo successivo ripopolamento quando, a causa di una guerra nucleare, persone di ogni sorta vi ritornano nella speranza di un nuovo inizio. Lo stesso tema si ripropone anche nel suo primo romanzo, Greenvoe, pubblicato sempre nel 1972 (tra l’altro in Greenvoe fa la sua comparsa il personaggio preferito di Brown, ovvero Elizabeth MacKee, anziana madre del ministro locale che, tormentata dal rimorso per aver condotto il figlio verso l’alcolismo, diviene vittima di uno strano processo inquisitorio in cui a puntare il dito contro di lei sono i fantasmi della sua memoria).
Ciononostante lo scrittore scozzese è perfettamente consapevole del pericolo di idealizzare il passato, di trasformarlo in un’epoca d’oro che, in verità, non è mai esistita: «Può essere che l’arte, guardando indietro e avanti, esista per celebrare un buon modo di vivere che è andato scomparendo e che potrebbe tornare. Dobbiamo stare sempre all’erta dal pericolo di romanticizzare: la vita in luoghi come Rackwick deve essere sempre stata dura, pericolosa e scomoda». Un giudizio identico è ravvisabile altrove: «Gli architetti moderni hanno molto di cui rispondere, ma almeno alcuni di loro hanno costruito delle scuole pensate per essere luoghi di gioia per i fanciulli»; oppure: «E’ il mondo moderno che ha spinto Edwin Muir e me verso la poesia […] Ma dobbiamo andarci piano. Il nuovo mondo, se in una mano porta una coppa di veleno, nell’altra porta i benefici della scienza. […] C’è stato un tempo, un secolo e mezzo fa, in cui la vita era pericolosa, il linguaggio ricco e la comunità aveva un suo aspetto cerimoniale. Le persone vivevano vicini alle fonti della poesia e della narrativa, e non ne erano consapevoli. Tutta l’arte che ho la devo ai nonni dei miei nonni e alle generazioni ancora prima; riconosco il dono e il debito, ma non avrei mai voluto vivere una vita difficile come la loro».
Il mestiere di scrivere
Se «la storia era l’unica materia a scuola mi affascinava. […] Accrebbe la mia immaginazione», uno dei poeti che più influenzò la carriera letteraria di Brown fu senza dubbio il gesuita Gerard Manley Hopkins, a cui lo scozzese dedicò una tesi post-laurea: «Ho sempre amato i componimenti di Hopkins. […] L’immagine che si avvicina maggiormente a Hopkins è quella del fabbro. […] Nessun rimatore inglese ha mai maneggiato il linguaggio con simile abilità, dolcezza e audacia».
Hopkins fu pure un uomo tormentato, in perenne lotta con se stesso e con il mondo; d’altronde, come ricorda lo stesso Brown, tutte le poesie, sebbene tendano alla contemplazione – «Il silenzio è sempre stato prezioso per me» – «nascono dalla violenza e dall’odio; nella società perfetta non verrebbe recitata alcuna poesia: le persone stesse sarebbero sillabe nel coro universale di gioia, l’armonia di tutte le cose create». Tra i compiti dello scrittore vi è quindi quello di cogliere quanto di buono si nasconde dietro la cortina del male dilagante e del caos: «La prima battuta di Shakespeare che ho letto mi ha subito colpito: “Non so davvero perché sono tanto triste. E questa tristezza mi stanca”. Queste parole andrebbero scolpite sull’architrave della mia porta: in un certo senso esprimono alla perfezione la mia vita e il mio modo di guardare alle cose – una malinconia tremante, un mistero attraverso il quale si intravedono e si indovinano di tanto in tanto forme di bellezza e di gioia. A volte mi sembra che “Sia fatta la tua volontà” sia l’unica preghiera che valga la pena recitare poiché essa comprende ogni cosa».
Per quanto appagante, la scrittura rimane comunque un mestiere difficile, soprattutto per un puntiglioso come Brown che, perennemente insoddisfatto, sottoponeva i propri lavori a un’incessante opera di labor limae. Ecco perché, quando ci si avventura nella bibliografia dello scozzese, non è raro incappare in versioni differenti della medesima poesia e dello stesso racconto: «Il disgusto che ho per quasi tutto quello che ho pubblicato continua. Perfino mentre scrivo queste righe avverto una sorta di inibizione: non è come dovrebbe essere». Diverse pagine dopo: «Il mestiere di scrivere è, sotto molti aspetti, un affare spiacevole; non è come certi lavori quali l’artigiano o il muratore dove, una volta imparati i rudimenti, si può solo migliorare col tempo. Per lo scrittore il vento soffia dove vuole. Molti giovani cari alle muse sono abbandonati da esse o tenuti a un severa distanza». Per affermarsi è molto importante contare pure sulle persone giuste: «Senza l’aiuto di altri poeti, sarei rimasto un oscuro scrittore delle Orcadi; oppure qualsiasi riconoscimento più ampio sarebbe magari stato posticipato di anni».
Dopo una stoccata al giornalismo sensazionalista – «La poesia è eternamente in guerra con il giornalismo» –, agli idolatri dell’arte e a quei critici dal facile giudizio che non hanno mai tempo di cogliere la vera essenza di un libro, la conclusione di For the Islands I Sing si risolve in un panegirico a favore della fantasia di contro a certo sterile realismo modero che, a conti fatti, altro non è se non un «nemico dell’immaginazione creativa»: «Ogni volta che ho fatto delle ricerche per ambientare al meglio una storia che stavo per iniziare a scrivere, ho notato che lo spirito della storia finiva per essere schiacciato da un eccessivo accumulo di fatti e di cifre. So che oggigiorno lavorare così non è di moda tra i romanzieri e i drammaturghi, ovvero usando l’intangibile e il libero gioco dell’immaginazione. Oggi gli scrittori devono andare e vedere di persona. […] Molto umilmente posso solo fare appello ai grandi spiriti del passato. Omero è mai stato a Troia?»