di Luca Fumagalli
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Evelyn Waugh e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.

In un futuro non troppo lontano l’Inghilterra si è tramutata in uno stato socialista simile a quello descritto da Orwell in 1984, un tentativo d’utopia finito male dove i cittadini – rigorosamente distinti in classi – conducono una vita grigia e triste, costretti a indossare uniformi e a sopravvivere con poco. Ascensori malfunzionanti, brutture edilizie e un esperimento governativo di controllo climatico conclusosi in farsa sono solo alcuni esempi di una modernità incamminata di gran carriera sul viale del tramonto. Il cristianesimo è stato ridotto a mero mito – ora si usano formule alternative quali «Che lo Stato sia con voi» oppure «Stato mio!» – così come i valori morali tradizionali sono stati completamente ribaltati da psicologismi assurdi; il divorzio è diventato ormai una moda e «uno dei princìpi della Nuova Terra insegnava a non ritenere nessuno responsabile delle conseguenze delle proprie azioni» (un simile concetto sta alla base del romanzo L’uomo che voleva essere colpevole del danese Henrik Stangerup, un piccolo gioiello del genere distopico pubblicato nel 1973). Ecco perché i più privilegiati finiscono per essere gli orfani – per la cui istruzione lo Stato spende enormi somme di denaro – e i delinquenti: «Nella Nuova Inghilterra che stiamo edificando non ci sono criminali. Ci sono soltanto delle vittime di servizi sociali inadeguati» .
Ad entrambe queste categorie appartiene Miles Plastic, reduce da quasi due anni di detenzione al Castello di Mountjoy per aver dato fuoco al campo d’addestramento presso il quale lavorava e aver causato la morte di diversi aviatori. Miles rappresenta il primo successo di un nuovo metodo riabilitativo basato sul dialogo e la comprensione. Dopo essere stato munito del «certificato di personalità umana», le autorità gli assegnano perciò un incarico impiegatizio al Dipartimento dell’Eutanasia. I suoi colleghi lo considerano un privilegiato dato che l’eutanasia statale è «l’unico servizio in via di sviluppo»: difatti, ogni giorno, un numero crescente di disperati si affolla davanti all’ingresso della Cupola di Sicurezza di Satellite City per chiudere definitivamente la partita con una vita di miserie e umiliazioni.

Un giorno Miles incontra Clara, un ex ballerina che ha dovuto appendere al chiodo le scarpette per via della «lunga, biondissima barba bionda come seta» che le è cresciuta a seguito di un’operazione di sterilizzazione andata male. I due si innamorano e Miles inizia a passare sempre più tempo nella baracca della ragazza, un’abitazione diversa da tutte le altre perché arredata con quadri antichi – e non i soliti Picasso e Léger approvati dal ministero dell’arte –, con uno specchio incorniciato in fiori di porcellana e con altri oggetti di quella civiltà da tempo dimenticata. Dopo qualche mese Clara rimane incinta. Volendo tornare di nuovo a ballare, senza dire nulla a Miles si reca in ospedale per abortire e per farsi rimuovere la barba con la chirurgia. Il risultato, però, è tragicomico, e quando l’amante giunge finalmente da lei non può che rimanere inorridito: «Gli occhi e le sopracciglia erano tutto quanto era rimasto del suo bel visino. Sotto, era qualcosa di inumano, una maschera lucida e tesa, di un rosa salmone» (l’episodio ricorda l’analoga e iconica scena del film Brazil di Terry Gilliam). La separazione a questo punto è inevitabile. Per dare sfogo a quel senso di delusione che lo opprime, Miles appicca un incendio al Castello di Mountjoy: «Il sistema della terra bruciata aveva avuto successo. Aveva creato nella sua immaginazione un deserto che poteva chiamare pace. […] Ora la sua breve vita di adulto era cenere. L’incantesimo che aveva circondato Clara aveva fatto la fine delle bellezze di Mountjoy. La grande barba bionda era scomparsa insieme alle lingue di fuoco che avevano serpeggiato e si erano spente tra le stelle».
Nell’epilogo – apoteosi di quell’umorismo nero che permea l’intera vicenda – Miles viene incaricato di tenere un ciclo di conferenze in tutto il Paese per testimoniare il buon risultato ottenuto dal governo grazie al nuovo metodo penale. Tuttavia, dal momento che «la cittadinanza completa deve comprendere il matrimonio», è prima costretto a sposare la poco avvenente signorina Flower, appositamente scelta per lui dal Ministro del riposo e della cultura. All’ufficio della stato civile, prima del fatidico “sì”, Miles è però colto dallo sconforto e decide infine di darsi fuoco con un vecchio accendino ritrovato per caso in una delle sue tasche: «Schiacciò lo scatto e subito, cosa rara, ne uscì una fiammella, scintillante come rubino, nuziale, di buon augurio».
Com’è facile intuire dalla trama, Amore tra le rovine (Love Amogn the Ruins), è uno dei racconti più strani e controversi di Evelyn Waugh, pubblicato nel 1953 in un piccolo volume corredato dai disegni dell’autore. In esso la satira e il grottesco tipici dello scrittore britannico raggiungono vette di distorsione caricaturale inedite, al limite del surreale. Se, stando a quanto scrive Humphrey Carpenter, «la tecnica compositiva di Waugh è quella di imporre una schema classico a un mondo che è talmente caotico da risultare incoerente», in Amore tra le rovine l’effetto complessivo è reso ancora più stordente da un analogo impego delle illustrazioni, ispirate alle opere di Canova. Nell’immagine di copertina, ad esempio, Miles e Clara appaiono nei panni di Cupido e Psiche (con la barba), ma in un mondo emozionalmente sterile come quello descritto da Waugh Cupido perde inevitabilmente le sue ali.

Ecco perché il volume, certamente di non facile decifrazione, lasciò sbigottito più di un recensore. Per difendersi dalla critiche, sulle colonne dello «Spectator» Waugh si limitò a derubricare il proprio racconto a mero intrattenimento. Si trattò comunque di una strategia poco credibile, che forse tentava di ridimensionale quell’elemento di critica sociale che egli stesso, col senno di poi, giudicava evidentemente poco riuscito. Del resto svariati studiosi hanno avanzato l’ipotesi che Amore tra le rovine volesse costituire una sorta di risposta tardiva al piano utopico di stampo socialista teorizzato da Cyril Connolly nel 1946 sulle colonne della rivista «Horizon». Connolly immaginava un’Inghilterra retta da un governo di coalizione laburista-conservatore in cui l’eutanasia è offerta gratuitamente ai richiedenti dal sistema sanitario nazionale e in cui lo Stato ha smantellato le prigioni per sostituirle con lussuosi centri di riabilitazione.
Indipendentemente dalla veridicità o meno di una simile suggestione, l’origine di Amore tra le rovine risale al 1951, quando Waugh aveva iniziato a tratteggiare una storia sul tema dell’eutanasia provvisoriamente chiamata “A Pilgrim’s Progress”. Inizialmente il progetto doveva risolversi in un testo più lungo, ma lo scrittore mutò opinione nel momento in cui si accorse che i personaggi mancavano della sostanza necessaria. Il titolo di Amore tra le rovine, precedentemente impiegato da Warwick Deeping (1904) e Angela Thirkell (1948) per i loro romanzi, fu scelto per riecheggiare quello di una poesia di Browning, “Love Among the Ruins”, in cui un pastore osserva con malinconia una città desolata, mandata in rovina da abitanti che non sono stati capaci di amare. Nel racconto di Waugh, infatti, al di là di un libertinaggio diffuso simile a quello descritto ne Il mondo nuovo di Huxley, è messo alla berlina tutto ciò che lui detestava, a partire dai politici e dal welfare state fino ad arrivare alla psicanalisi, all’arte astratta, alla plastica e all’architettura del dopoguerra.
Il risultato, come si diceva, è un pastiche assurdo, quasi un freak show caratterizzato da personaggi irrazionali e da situazioni ancora più impensabili. Miles Plastic, emblema dell’«Uomo Moderno», prodotto di quel «Progresso» che tanto inorgoglisce i membri del governo, è solo un povero disilluso che sfoga il suo niente incenerendo ogni cosa, persino se stesso. In ciò è molto simile all’Alex di Arancia meccanica, un criminale “guarito” solo in apparenza. Più in generale, in Amore tra le rovine ogni cosa è segnata dal medesimo destino di decadenza, tanto che pure il Castello di Mountjoy, al contrario delle altre magioni signorili che compaiono nelle opere di Waugh, emblema di un’epoca d’oro purtroppo scomparsa, è ridotto a un resort per delinquenti (Mountjoy, tra l’altro, è il nome del carcere di Dublino).

A salvare il racconto da un epilogo altrimenti disperante resta unicamente la sua natura distopica, il voler essere innanzitutto un monito, una messa in guardia contro l’inveramento degli incubi politici, culturali e morali che affollavano la mente di Waugh (alcuni dei quali, sia detto per inciso, sono diventati oggi una triste realtà). Dietro una patina di facile divertissement, Amore tra le rovine nasconde dunque una sostanza polemica nient’affatto disprezzabile, la stessa che rende la storia meritevole di essere letta e meditata.
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