di Luca Fumagalli
Continua con questa terza puntata lo speciale agostano dedicato alle migliori opere teatrali di Graham Greene. Per le precedenti puntate: L’ultima stanza; Il capanno degli attrezzi
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Greene e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.

Dopo L’amante compiacente (The Complaisant Lover), commedia del 1959 incentrata su un bizzarro triangolo amoroso, nel 1964 Graham Greene tornò al teatro con Scolpire una statua (Carving a Statue), terza e ultima pièce dello scrittore inglese – dopo L’ultima stanza e Il capanno degli attrezzi – ad affrontare apertamente questioni legate alla religione. Nonostante l’interessante intuizione di mischiare farsa e tragedia, il risultato fu abbastanza deludente e già in concomitanza della prima all’Haymarket Theatre di Londra cominciarono a fioccare le stroncature da parte della critica.
La storia, divisa in tre atti, è ambientata nello studio di un artista ossessionato dalla propria creazione. Greene dichiarò di essersi ispirato per il personaggio a Benjamin Robert Haydon, pittore d’inizio XIX secolo che ambiva a dipingere grandi soggetti religiosi, ma che purtroppo finì per togliersi la vita. Similmente lo scultore dell’opera di Greene sta lavorando da sedici anni alla creazione di un’immensa statua di Dio di cui in scena si possono scorgere solo le gambe e la parte inferiore del torso. Il progetto appare sin da subito troppo ambizioso per essere portato a termine, tant’è che nel secondo atto, quando la testa della statua viene collocata a terra grazie a delle carrucole, si scopre essere poco più che un abbozzo.
Il tema centrale dello spettacolo è se «Dio è stato creato a immagine dello scultore (o dell’uomo) o è lo scultore a essere stato creato a immagine di Dio». L’azione è dunque costruita attorno a un caratteristico interrogativo greeneiano: come può l’artista definire Dio se non attraverso la sua peccaminosità, che è tutto ciò che un uomo decaduto può realmente conoscere? La statua è il culmine della carriera di uno scultore squilibrato che nemmeno il figlio – un adolescente trascurato che fatica a scuola – riesce a comprendere. Il padre, indifferente a tutto e a tutti, vive perso nei suoi pensieri, all’interno di un mondo di paradossi teologici di difficile conciliazione: «Lui non è solo potere. Non è solo malvagità. […] Ama? Non ama? Cos’è l’amore? È questa la domanda difficile». Più avanti: «Come si scolpisce una contraddizione? Lui deve essere malvagio e amorevole allo stesso tempo».

Nella prefazione dell’edizione cartacea, intitolata significativamente “Epitaffio per uno spettacolo”, Greene ammise di aver avuto parecchi problemi a scrivere Scolpire una statua e ad avviarne la produzione. Colse comunque l’occasione per difendersi da chi lo accusava di aver «saturato l’opera di simboli», preferendo piuttosto parlare di «associazione di idee». Se in generale i suoi argomenti sono abbastanza validi, il discorso si fa invece scivoloso quando lo scrittore inglese sostiene che nella pièce non vi sia «nulla di teologico». La cosa suona ancora più sospetta dal momento che solo qualche riga prima lui stesso aveva confessato che «la teologia è l’unica forma di filosofia» che ancora provava piacere a leggere.
In ultima analisi Scolpire una statua mette a confronto l’ipotesi di un Dio amorevole con quella di una divinità fredda, distaccata, del tutto disinteressata agli esiti delle propria creazione. Il nome dei personaggi principali – il padre, il figlio, la prima ragazza, la seconda ragazza e la statua del Padre – hanno una precisa risonanza biblica e, non a caso, lo scultore protagonista è assillato dalla visione creatrice di Dio. Ciò che lo preoccupa sono in particolare i due occhi della statua che paiono guardare al mondo con indifferenza. È il medesimo atteggiamento che lui riserva al figlio e alla prima ragazza di quest’ultimo. Mentre parla con loro, abbassa la testa della statua ed esclama: «Ora posso vederlo di nuovo chiaramente con la sua testa in mezzo alle nuvole. Domani tornerò al lavoro su quell’occhio sinistro. Così dovette accadere quando Lui osservò il mondo amando ciò che aveva creato». Tuttavia l’uomo finisce per sedurre la ragazza senza troppi complimenti, mentre la seconda fidanzata del figlio, gracile e sordomuta, viene investita da un auto dopo che il viscido dottor. Parker l’ha violentata (quest’ultimo parrebbe implicato in qualche modo anche nella morte della madre del giovane, avvenuta vent’anni prima a causa del cancro).
Per l’intero corso della pièce il padre, tutto assorto nei suoi progetti, non si rende conto della crescente vulnerabilità di un figlio che, pur tra mille limiti, sta cercando di crescere. La sua arroganza lo spinge a presumere che Dio sia un artista del tutto simile a lui e nel secondo atto proclama trionfalmente: «Non devo preoccuparmi dell’amore. Dio non ama. Lui comunica, questo è tutto. Lui è un artista. Non ama». Ecco perché a una domanda del ragazzo, il padre può solo rispondere che Dio non ama né odia il suo figlio, ma che «lo ha usato come modello. Questo è il motivo per cui il Figlio è stato creato».

L’epilogo di Creare una statua è dunque all’insegna dell’amarezza con uno scultore che continua ottusamente a coltivare ridicole aspirazioni inevitabilmente destinate al fallimento: «Tutto ciò di cui avevo bisogno era una nuova idea!». In una grottesca riproposizione del famoso episodio della Torre di Babele, il sipario si chiude mentre questi si appresta a salire sulla scala per continuare a lavorare a una statua ora simile a Lucifero, l’orgoglioso «conquistatore del mondo». Nel frattempo intorno a lui il poco che resta di bello e di buono appassisce rapidamente.
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