di Luca Fumagalli
Come promesso, ecco la prima puntata dello speciale agostano dedicato alle migliori opere teatrali di Graham Greene.
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Greene e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.

Complesso, tormentato e provocatorio, Graham Greene rimane uno degli scrittori più importanti del Novecento. Nell’alveo della cultura cattolica britannica – e non solo – si incaricò di indossare gli scomodi panni della coscienza critica, quasi “eretica”, sfornando opere in cui i protagonisti camminano sull’orlo del baratro, costantemente in bilico tra salvezza e dannazione. Nei suoi lavori migliori i paradigmi del “Catholic Novel” vengono scardinati un pezzo alla volta per lasciare spazio a storie in cui l’animo dei personaggi è sviscerato in tutte le sue sfumature e contraddizioni. Dunque niente bozzetti consolatori o Santi da cartolina, men che meno facili prediche o fredde esposizioni dottrinali, ma un’umanità dolente alla ricerca di una felicità che pare sempre sfuggire.
Se Greene è celebrato in tutto il mondo per i romanzi, i racconti e per le sceneggiature degli adattamenti cinematografici di diversi suoi libri, meno nota è la produzione teatrale. Si tratta di un vero peccato, anche perché nel teatro Greene si mostra particolarmente abile nel mostrare la complessa psicologia dei protagonisti, al contempo vili e gloriosi, lacerati da dubbi e incertezze. Anche in questo caso è inutile cercare nello scrittore manifestazioni di una Fede dottrinalmente ortodossa. Ciò che è chiesto allo spettatore – o al lettore – è piuttosto di abbandonarsi agli eventi raccontati e di cogliere in essi l’occasione per fare i conti con la propria vita.
L’ultima stanza (The Living Room) è la prima pièce teatrale scritta da Greene, composta da due atti di un paio di scene ciascuno e dedicata alla sua amante di allora, Catherine Walston (la burrascosa vita sentimentale dell’autore inglese è cosa nota). L’esordio sulle scene avvenne nell’autunno del 1952, a Stoccolma, mentre per i teatri inglesi – e per la pubblicazione in volume – fu necessario attendere l’anno successivo. In L’ultima stanza Greene esplora con rinnovato vigore i temi del tradimento, degli scrupoli di una coscienza cattolica e del suicidio, già presenti nei suoi migliori romanzi del dopoguerra come Il nocciolo della questione e Fine di una storia. Sullo sfondo vengono analizzate anche antinomie del tipo amore/morte, gioventù/vecchiaia, cattolicesimo/ateismo, Fede/scienza e colpa/innocenza.

La vicenda ruota attorno alla giovane Rose Pemberton che, dopo la morte della madre, inizia una relazione clandestina con uno psicologo di mezza età, Michael Dennis, già sposato con una donna schizofrenica. Quest’ultimo, il cui legame con la moglie si basa più sulla pietà che sull’amore, è pure l’esecutore testamentario della defunta. Con Rose si reca allora a casa delle anziane prozie di lei, Teresa ed Helen Brownie, entrambe devote cattoliche e particolarmente affezionate alla figura di Santa Teresa di Lisieux. Con loro vive anche il fratello invalido, Padre James, un sacerdote costretto sulla sedia a rotelle da un incidente avvenuto vent’anni prima.
L’impianto della pièce è quello tipico del dramma, ma l’organizzazione della scena è caratterizzata da una forte connotazione simbolica di stampo teologico. Teresa, Helen e James abitano infatti in un vecchio e grande edificio di cui però occupano solo una strana stanza al terzo piano arredata a mo’ di soggiorno. Il resto dei locali è stato chiuso a chiave e reso inaccessibile semplicemente parchè qualcuno vi è morto all’interno. Tutto questo non rappresenta altro che la paura della morte e il limite fisiologico dell’esperienza umana; soprattutto il soggiorno – che una volta era la stanza da gioco dei bambini – è l’incarnazione architettonica della negazione di qualunque possibile legame tra il mondo dei vivi e l’aldilà.
Sebbene James vanti certi connotati del classico “whisky priest” greeneiano – si considera un povero sacerdote storpio e inutile, «che non può dire Messa, confessare o visitare i malati» – presto assume il ruolo di guida, quantunque imperfetta, per quelle persone spiritualmente claudicanti che lo circondano. Ad esempio avverte Michael che, tradendo la moglie, non sta ferendo solo la donna, ma pure se stesso e «il Dio in cui non credi», e rincuora Teresa allontanando da lei l’infondato terrore della dannazione eterna: «Non conosco nessuno grande abbastanza per l’Inferno eccetto Satana».

La profonda devozione di Padre James per San Giovanni della Croce rimanda invece alla “lunga notte dell’anima” e all’incapacità d’amore della famiglia Brownie, con le porte della casa che vengono progressivamente chiuse dalla morte. Al soggiorno – ovvero la “stanza della vita” secondo l’intraducibile gioco di parole del titolo inglese – è lasciato il compito di fare da spaccato esemplare di un mondo decaduto, la cui essenza è efficacemente descritta dal sacerdote mentre parla di Teresa ed Helen: «Sono brave persone, dubito che abbiano commesso qualche grave peccato nella loro vita; forse sarebbe stato meglio se lo avessero fatto. Ho notato, nei vecchi tempi, che erano i peccatori ad avere maggiore fiducia. Nella misericordia. Le mie sorelle non sembrano averne affatto».
Tragicamente la più influenzata dall’aria claustrofobica che si respira nella casa è Rose, un tempo dinamica e solare, che pare invecchiare sensibilmente mano a mano che lo spettacolo procede (in realtà tra il primo e il secondo atto passano solo tre settimane). A lacerarla è la difficoltà di fare ciò che in qualche misura percepisce essere la cosa giusta, ovvero abbandonare l’uomo di cui è follemente innamorata: «Credi che se lasciassi Michael potrei davvero amare un Dio che pretende tutto quel dolore prima di offrire Se stesso?». Non vale a nulla nemmeno l’appello di Padre James alla Misericordia divina e all’intercessione dei Santi: «Non credo nella tua Chiesa e nella tua Madre di Dio. Non ci credo. Non ci credo». Al culmine della disperazione Rose si uccide in soggiorno ingoiando le pillole lasciate dalla moglie di Michael che, in precedenza, aveva minacciato il suicidio. Poco prima di morire, l’ultima preghiera della ragazza è un aggrapparsi all’innocenza dell’infanzia: «Padre nostro che sei… che sei… Benedici mia madre, la bambinaia e Suor Marie-Louise, e ti prego, Dio, fa che la scuola non ricominci mai più».

Nell’ultima scena, una riflessione sull’amore di Dio e il perdono, il pubblico è quindi invitato, al pari dei personaggi, a speculare sulla salvezza o la dannazione di Rose, nonostante sulla sua coscienza gravino peccati mortali quali l’adulterio e il suicidio. Attraverso la saggezza di Padre James, Greene riporta in primo piano il motivo, a lui caro, della “terribile” natura della Grazia divina, e il sacerdote cita un libretto devozionale letto anni addietro in seminario: «Più i nostri sensi sono in rivolta, incerti e disperati, più la Fede dice con fermezza: “Questo è Dio: tutto va bene”». Helen, la sorella più forte e carismatica, continua a nutrire una profonda paura nei confronti della morte e vorrebbe perciò chiudere definitivamente anche il soggiorno. Tuttavia Teresa per la prima volta ha il coraggio di opporre un netto rifiuto, in questo sostenuta da un Padre James ancora scosso dal dolore per non essere stato in grado di aiutare la nipote: «Per più di vent’anni sono stato un prete inutile. Avevo una reale vocazione per il sacerdozio. […] E per vent’anni il desiderio di aiutare è stato imprigionato su questa sedia. […] La scorsa notte Dio mi ha dato la possibilità. Ha portato questa bambina, qui, presso le mie ginocchia, che implorava aiuto, che implorava speranza. […] Ho chiesto a Dio, “Metti le parole nella mia bocca”, ma Lui mi ha dato vent’anni su questa sedia senza nulla da fare se non prepararmi per quel momento, perciò perché Lui dovrebbe intervenire? E tutto quello che ho detto è stato: “Potresti pregare”».
L’ultima stanza si conclude con le parole di Teresa che costituiscono una riaffermazione della Fede nella Vita eterna tra le macerie e i limiti dell’umano: «Per me non c’è stanza migliore dove poter addormentarmi per sempre che quella in cui è morta Rose».
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