Volentieri offriamo ai lettori un estratto del libro La Compagnia della Croce – Viaggio al cuore della Terra di Mezzo, di Isacco Tacconi, prefazione Paolo Gulisano. Buona lettura!


A conferma di quanto detto nei paragrafi precedenti riguardo la «contingenza» del male, Tolkien stesso conferma che:

“«Sauron naturalmente non era “malvagio” in origine. Era uno “spirito” corrotto dal Primo Signore delle Tenebre (il primo subcreatore ribelle) Morgoth. Gli venne offerta una possibilità di pentirsi, quando Morgoth venne sconfitto, ma non poté affrontare l’umiliazione di ritrattare e di implorare il perdono; e così il suo temporaneo sembrare buono e benevolo terminò in una ricaduta peggiore, finché non diventò il maggior rappresentante del Male nelle epoche successive. Ma all’inizio della Seconda Età era ancora bellissimo d’aspetto, o meglio poteva assumere una bellissima forma visibile – e non era ancora del tutto malvagio, così come non tutti i riformatori che vogliono affrettare la ricostruzione e la riorganizzazione sono completamente malvagi, anche prima che l’orgoglio e la brama di imporre la loro volontà li divori…»”.

Da queste premesse dobbiamo riconoscere che a Tolkien importa sottolineare a più riprese nelle sue opere che il male, in quanto tale, non può creare nulla ma può solo rovinare, deturpare e abbrutire ciò che già esiste, snaturare e sovvertire ciò che Dio ha creato. Caratteristica, per così dire, “ontologica”del Male è il «nulla», perché esso è privazione di essere, assenza di un bene che dovrebbe esserci ma che viene strappato al luogo cui esso è destinato. San Tommaso, sulla scia di Sant’Agostino, insegna che «malum est privatio boni debiti»: il male è la privazione di un bene dovuto ad una cosa per la sua stessa natura. Ad esempio, la vista è dovuta all’occhio e gli occhi a loro volta sono dovuti all’essere umano, appartengono cioè alla sua natura di uomo. Non appartengono invece al lombrico, per cui è un male per l’uomo essere cieco ma non lo è per il lombrico. Allo stesso modo la morte è la privazione della vita come l’oscurità è la privazione e l’assenza di luce, la malattia una mancanza di salute, la stupidità una deficienza di intelligenza e l’immoralità una mancanza di virtù e così via. Pertanto il male è sempre un difetto e una deficienza di natura poiché presuppone la nozione di bene e dipende essenzialmente da esso poiché non esiste il male senza il bene, mentre esiste il bene assoluto senza che debba esistere, per pura ipotesi, un “male assoluto”. Il bene infatti non ha bisogno del male per poter sussistere mentre non avremmo neppure la nozione del male se non avessimo prima la nozione e la conoscenza del bene. Con questo bisogna comprendere che il male non potrebbe essere oggetto del pensiero se non ci fosse il bene che lo subisce e a cui inerisce, (es. la morte presuppone la vita, il non–essere suppone l’essere) poiché se il male è la deficienza di un bene, come potrebbe esistere se anzitutto non esistesse quel bene di cui il male è una sottrazione? Per questo anche nell’ordine morale si dice che «malum est privatio ordinis ad finem debitum», ovvero che il male è la privazione dei mezzi giusti ordinati al fine debito (es. gli atti umani compiuti secondo ragione e secondo virtù rappresentano il giusto mezzo per raggiungere il fine proprio della vita dell’uomo che è l’essere pienamente uomo, ovvero essere «uomo buono»).

A questo discorso sulla essenziale vacuità e inconsistenza ontologica del male si riallaccia la rappresentazione del male in Tolkien, dagli scritti del quale emerge una concezione solidamente metafisica del misterium iniquitatis. Prendiamo ad esempio la descrizione dei Nazgûl, gli spettri dell’Anello. Costoro, come tutti gli esseri tanto della Terra di Mezzo che del mondo reale, in origine furono creati buoni; erano infatti grandi re degli uomini prima che Sauron desse loro i Nove Anelli con i quali li rese schiavi. 

“Coloro che adoperarono i Nove Anelli – narra il Quenta Silmarillion – divennero potenti in vita, e furono gli antichi re, stregoni e guerrieri. Conquistarono gloria e grandi ricchezze, ma tutto questo si volse poi a loro danno. Avevano, a quanto sembrava, vita imperitura, pure la vita divenne loro intollerabile. […] E uno a uno, prima o poi, a seconda della loro forza innata e del bene o del male che ne caratterizzava in origine le volontà, caddero sotto il giogo dell’anello che portavano al dito e sotto il dominio dell’Unico, che era di Sauron. […] E divennero per sempre invisibili se non a colui che portava l’Anello di Dominio ed entrarono nel reame delle ombre. Erano essi i Nazgûl, i Fantasmi dell’Anello, i più temibili servi dell’Avversario; tenebra li accompagnava, ed essi urlavano con la voce della morte”. 

Queste figure terrificanti ci riportano alla mente le paure più primordiali ed ancestrali della nostra fanciullezza, paure antiche radicate negli abissi dell’animo umano di cui quel sentimento di terrore comune a gran parte dei popoli indoeuropei che va sotto il nome di «horror vacui» (l’orrore del nulla) è espressione eloquentissima. Il non essereche ingoia l’essere, il “nulla” che appare come un immenso e terrificante buco nero che fagocita l’universo, questo è ciò che più riempiva di timore tanto greci e latini quanto norreni e semiti. Tutti i popoli antichi hanno conosciuto e rappresentato un “mondo delle ombre”, ed anche se lo definivano ognuno a modo loro (ad esempio gli Egizi lo chiamavano Earu, i Babilonesi Arallu, i greci Ades, i romaniAverno o Orco, gli antichi gallesiAnnwvyn, i norreni Niflheimr o Hel), nonostante dunque le diversità dei nomi, ciò che accomunava tutte le culture erano i principali tratti che descrivevano questo luogo. In ogni religione si può trovare infatti un luogo oscuro ultraterreno dove le anime di coloro che un tempo erano i vivi soggiornano eternamente, non di rado immersi in un lago di fuoco fra tormenti indicibili in uno stato di prigionia tenebrosa, sospesi fra un vuoto abisso e un’apparente esistenza che sbiadisce persino il ricordo di coloro che un tempo vivevano. Il luogo dell’oblio, lo sheōl di cui ci parla l’Antico Testamento, corrisponde al mondo dei morti, la prigione di “chi confida in se stesso, lavvenire di chi si compiace nelle sue parole”.

Tutto questo ha a che fare con gli Spettri dell’Anello poiché essi al contempo sono e non sono, esistono ma senza vivere, incatenati all’oscurità ne sono assorbiti. Di loro dice la Scrittura: “I vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla; non cè più salario per loro, perché il loro ricordo svanisce. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole. […] non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù nel soggiorno dei morti”. Questi sventurati non sono più uomini ma, come si dice nell’Amleto, sono semplicemente «morti». Morti nel corpo, ma ancor più nell’anima, questi infelici rappresentano coloro che volgendosi alla brama di potere pèrdono se stessi nel tentativo di attraversare la soglia delle tenebre per afferrare l’effimero miraggio dell’albero della vita. Esca fatale che conduce i loro piedi tra le spire del peccato, fredde e stringenti come morse paralizzanti, mentre sui loro occhi cala il triste velo della morte che tutto avviluppa nella più cupa oscurità. Per questo, ci dice la Scrittura, “come pecore sono avviati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà ogni loro parvenza: gli inferi [lo sheōl] saranno la loro dimora”. A tale descrizione corrisponde la condizione degli Spettri dell’Anello, svuotati della loro consistenza essi sono divenuti delle entità incorporee e cupe, ombre vuote che resterebbero indistinguibili dall’oscurità che le avvolge se non fosse per la cappa che li ricopre, e che conferisce loro una certa forma di “Cavalieri neri”. Coloro che discendono nello sheōl in ebraico vengono detti refaim, letteralmente “spettri” od “ombre”. Nella Scrittura dunque “i refaim sono rappresentati come una specie di replica degli uomini, delle ombre povere ma reali della loro esistenza terrena, un nucleo personale semiconsapevole, letargico e totalmente inattivo. Si parla dei refaim in modo generalmente collettivo, dal momento che i morti vivono senza una individualità personale. Non possono lodare Dio e sono appena consapevoli di esistere (1Sam 28,819)”. Nei loro sibili e nelle loro grida acute e raggelanti possiamo scorgere un riferimento al lamento della banshee figura appartenente alle tradizioni popolari scozzese e irlandese. Questo spirito generalmente femminile comincerebbe ad intravedersi, secondo la leggenda, lamentoso e cupo sulle colline dopo il crepuscolo quando qualcuno si avvicina alla morte. La presenza di questi spiriti oscuri nella varietà delle tradizioni culturali e religiose di tutto il mondo antico ci rende manifesta, seppur in maniera indiretta, l’esistenza di esseri spirituali maligni, ombre oscure prigioniere del tormento e araldi di un mondo tenebroso che vuole sprofondare i mortali nei propri abissi. Uomini maledetti, creature un tempo sotto la luce ma che sono state inghiottite dalle tenebre perdendo così il loro volto, la loro identità e la loro anima, sospesi in uno stato di non vita né di completo annientamento, costoro sono i Nazgûl, gli spettri né vivi né morti. 

Noti anche come Úlairi (in elfico “spettri del male”), sono rappresentati da Tolkien come dei vuoti mantelli, “buchi neri nellombra scura che li circondava”, esseri inconsistenti, pure ombre sussistenti, difficili a descriversi poiché sono nulla. Nessun termine è capace di definirne la natura meglio di “spettri”, poiché solo nel male essi sussistono come ombre riflesse in uno specchio infranto in una notte senza luna. Tale rappresentazione ci può tornare di grande utilità per comprendere il paradosso del male, ossia l’effetto duraturo che il male produce su colui che con le proprie azioni se ne rende schiavo. Difatti, un’anima che vive in uno stato di peccato mortale abituale, reiterato e radicato ha perso la capacità di distinguere il bene dal male e la luce dalle tenebre, ed è immersa già in questa vita nel mondo delle ombre patendo fin da ora la pena interiore della lontananza da Dio. Il luogo di oscurità e tormento, che è l’Inferno eterno, invero non è altro che il logico e necessario prosieguo di come si è vissuto sulla terra, il prolungamento della vita temporale che sbocca nell’eternità, niente più che il suggello definitivo del servigio che l’uomo ha liberamente prestato sulla terra: «non potestis Deo servire et mammonæ». Per questo motivo “la morte, – scriveva Marco Anneo Lucano – se è vero ciò che insegnate, è il punto intermedio di una lunga esistenza”, la porta che segna il passaggio da uno stato transitorio ad uno stato permanente. Pertanto la vita futura dipende da come si è vissuta quella presente, perché i due modi di esistere nel tempo e nell’eternità, come dice Lucano, sono espressioni di una medesima e coerente esistenza. Per questo motivo il Verbo Incarnato dichiara: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”. Per dirla nel linguaggio di Arda, o serviremo Ilùvatar o serviremo Sauron e, di conseguenza, avremo la nostra ricompensa dall’uno o dall’altro: tertium non datur

Peraltro, nelle figure dei Cavalieri neri possiamo individuare il tragico esito di quello che va sotto il nome di «pneumatismo», o spiritualismo, ossia quella visione religiosa e antropologica essenzialmente dualista che odia il corpo e che intende condurre l’uomo ad uno stadio superiore dell’essere (o della coscienza), per renderlo totalmente spiritualizzato, appunto, «pneumatico». Questa teosofia (o antroposofia) nel corso della storia ha assunto forme differenti mutando il proprio nome a seconda delle epoche storiche, apparendo una volta sotto il titolo di gnosticismo o di manicheismo, altre di catarismo, di umanesimo e di illuminismo, ed ultimamente in quello che viene definito «transumanesimo». Tutte queste dottrine riassumibili nel «non serviam» luciferiano, puntano alla completa spoliazione dell’elemento corporeo per elevare l’iniziato allo stato divino di «puro spirito». Per raggiungere questo obiettivo non si disdegnano le peggiori pratiche di perversione sessuale di tipo iniziatico–esoterico ricorrendo anche a riti sadomasochisti. Tuttavia ciò che più importa è giungere alla consapevolezza che in ultima istanza la vita deriva dalla morte, che il bene è insito nel male, che la luce è figlia delle tenebre e che in definitiva tutti gli opposti finiscono per coincidere nell’unico essere degno di adorazione, Lucifero la “Stella del Mattino”. In fondo, non bisogna far altro che prestare il culto di adorazione al Signore delle Tenebre per poter ricevere da lui la capacità di elevarsi sugli altri uomini e diventare come un dio. 

“Nella mia storia – scriverà Tolkien in una bozza destinata a W.H. Auden – Sauron raffigura quanto di più vicino esista alla totale malvagità” soprattutto “per quanto riguarda l’orgoglio e la brama di dominio, essendo in origine uno spirito immortale (angelico). Nel Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia è compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini. Gli Eldar e i Numenoreani credevano nell’Unico, nel vero Dio, e consideravano un abominio la venerazione di qualunque altra persona. Sauron desiderava essere un Dio–Re e i suoi servitori lo consideravano tale; se avesse vinto, avrebbe preteso onori divini da tutte le altre creature razionali e il potere temporale assoluto sul mondo intero”. 

Ecco che dunque, attraverso questo breve commento, Tolkien ci svela la chiave di lettura non solo del suo Signore degli Anelli ma addirittura dell’intera storia dell’umanità e, quindi, della Storia della Salvezza che troverà il suo compimento nella Parusia. Una chiave che ci consente di schiudere uno spiraglio sul mistero di iniquità che come un groviglio inestricabile si svolge e ci avvolge come le ragnatele di Ungoliant in un labirinto di oscurità impenetrabile e soffocante. Invero, ciò che al di sotto delle alterne vicende del mondo, ciò che nel più profondo sostrato metafisico muove gli andirivieni dei popoli nello scorrere indefinito delle ere e che si cela agli occhi dei più, è niente meno che uno scontro terribile e ammirabile tra il culto che satana rivendica per sé stesso e il culto che ogni creatura deve a Dio in quanto Creatore e Signore dell’Universo. Potremmo quasi dire che ci sono due “liturgie” che si oppongono, due popoli che prestano un culto di adorazione radicalmente opposto l’uno all’altro, due “padroni” che rivendicano a sé l’obbedienza del mondo, uno che ne ha il diritto e l’altro che lo usurpa come un nemico sleale. Nel substrato spirituale del mondo Due Torri se ne contendono il dominio, Minas Morgul e Minas Tirith, due signori si affrontano sul campo di battaglia, l’uno è l’Oscuro Signore, il Signore delle mosche e del niente, l’Altro è il Pantocratore dell’Universo, l’«Orbis Factor», il solo vero «Kyrios» a cui il nemico può soltanto insidiare il calcagno fintanto che ne sarà schiacciato definitivamente nell’Ultimo Giorno, il giorno della retribuzione. 

A questo proposito trovo che la narrazione evangelica delle tentazioni subite da Nostro Signore nel deserto possegga un tenore epico straordinario, specialmente nel punto in cui si rivela l’intenzione più profonda e perversa del demonio: scimmiottare la gloria di Dio. “Di nuovo il diavolo – dice la Scrittura – lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»“. È questa la scelta che ogni uomo si trova innanzi durante il tempo della sua vita terrena, prendere su di sé il dolce giogo di Cristo militando sotto lo stendardo della Croce, o servire in ceppi fra le orde di Baal–Peor. 

I Nove re degli uomini scelsero di adorare la Tenebra, e della Tenebra divennero preda. Illusi di poter esercitare un qualche dominio attraverso i loro miseri Anelli ne vennero invece sopraffatti divenendo Cavalieri Neri, schiavi dell’Unico Anello. Nessuno, poi, può tornare indietro una volta attraversato il baratro delle tenebre esteriori, cioè della morte eterna. Tuttavia possiamo fare esperienza, in un certo senso, di quello che è lo stato di miseria e oscurità dei dannati ogni qual volta preferiamo all’amore di Dio l’amore per noi stessi, infilandoci indebitamente l’Anello del Potere simbolo della tentazione e del peccato. Nel peccato mortale, invero, l’uomo fa l’esperienza della morte interiore immergendosi volontariamente in quel mondo di ombre infelici e senza speranza divenendo in certo senso simile ad esse. Pregustando quell’amarezza pungente del piacere, svanito non appena si è cominciato a provarlo, egli comincia a sentire già da ora il lavorio interiore del verme della colpa che nell’altra vita non cesserà mai di rosicchiare ad un tempo le viscere e la coscienza dolosa. Questa esperienza degli effetti mostruosi del peccato Frodo poté vederli direttamente quasi a mo’ di “rivelazione”, analogamente, se così si può dire, alla visione dell’Inferno che ebbero i tre pastorelli di Fatima o Santa Veronica Giuliani e molti santi ancora. Frodo infatti ebbe la possibilità di vedere lo stato reale delle anime di quei Nove re sventurati entrando egli stesso nel mondo dei morti, come quando vinto dall’attrazione irresistibile infilò l’Anello a Collevento. “Immediatamente – narra Tolkien – le forme diventarono chiarissime, benché tutto il resto rimanesse tenebroso e scuro. Egli riusciva a vedere al di sotto dei manti neri; […] Nei loro visi bianchi fiammeggiavano occhi penetranti e spietati; sotto le cappe, portavano un abito lungo e grigio, e sui capelli grigi, un elmo dargento; le loro mani scarne stringevano spade dacciaio”. Questa brevissima descrizione, al di là dell’intento narrativo, credo possa giovare come spunto di riflessione sulle terribili conseguenze del peccato sull’anima. Infatti, uccidendo la vita della grazia, il peccato mortale immerge l’anima nello stagno buio e gelido della morte nel quale l’uomo, perso ogni contatto con la luce, cioè con la realtà, la verità e il bene, diventa in qualche modo simile ad uno spettro, uno sventurato prigioniero dell’Oscuro Signore. Per questo il dannato non può più lodare il Signore, come dice l’Ecclesiaste, poiché egli è totalmente e irrimediabilmente «morto». Ed è logico che quanti appartengono al regno dei morti non possano più avere Dio per padre, giacché egli “non è Dio dei morti, ma dei vivi”.

Tuttavia, e questo è importante ricordarlo a noi stessi, solo il bene crea e dura per sempre. Una realtà questa che abbiamo già avuto modo di affrontare eppure credo sia una delle verità più consolanti a cui la retta ragione ci possa condurre. Infatti, tutto ciò che esiste è buono, viene dal bene e ad esso rimanda come al suo fine ultimo. A questo bene conosciuto razionalmente la fede permette di rivolgersi non più solo come a una entità impersonale e indistinta ma ce ne schiude il segreto, svelandocene il volto amoroso che incontriamo nella persona del Cristo Crocifisso. Questa consapevolezza ci apre la mente a due aspetti della realtà di vitale importanza: solo il bene crea ed è creato, il male non può né creare né essere creato. Nella versione cinematografica de Le Due Torri Samwise dice a Frodo: “Alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare”. Questa affermazione già pregna di significato nell’economia del racconto, fa da eco alla promessa divina che soltanto la Parola del Signore resterà in eterno, e con essa tutti coloro che l’avranno ascoltata e messa in pratica portando frutto a suo tempo. Solo con questa consapevolezza possiamo essere liberati dal peso insopportabile dell’apparente ineluttabilità del male ridimensionandone il potere, che talvolta ci appare così esiziale ed invincibile.

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Immagine in evidenza: One of the Nazgûl, fictional characters from the novel The Lord of the Rings, by J. R. R. Tolkien, looking at the sunset from a hill / User The Artifex from flickr, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons.