Volentieri offriamo ai lettori un estratto del libro La Compagnia della Croce – Viaggio al cuore della Terra di Mezzo, di Isacco Tacconi, prefazione Paolo Gulisano. Buona lettura!
La grandezza di un vero artista, sia esso scrittore, pittore, poeta o musicista, risiede nell’immortalità dei valori che riesce ad esprimere con la sua arte e non tanto nelle sue capacità tecniche, tantomeno nella “originalità” delle idee che esprime. Non di rado le sue opere trascendono la sua stessa comprensione e consapevolezza degli effetti che esse producono, o potrebbero produrre. Un artista autentico, proprio in virtù del dono che possiede, è in certo senso investito di una vera e propria missione spirituale, un compito che possiamo definire, senza esagerazione, davvero «profetico». Questo perché, al pari del poeta e del profeta, deve farsi portavoce di una realtà più grande e trascendente, riflettendo sugli uomini come attraverso spiragli e frammenti, il mondo del soprannaturale, alla maniera in cui i rosoni delle cattedrali gotiche frangono l’unico raggio di luce filtrandolo attraverso le forme i colori della Religione. Nella misura in cui sarà impregnato del soprannaturale mediante la contemplazione dei Misteri della Santa Fede Cattolica, l’artista potrà diventare un canale, un “mediatore tra Dio e gli uomini”, tra la realtà increata e il mondo creato, tra l’Essere per essenza e gli enti per partecipazione, illustrando, come in un quadro, “la realtà in trasparenza”. “Infatti, come è meglio illuminare che non semplicemente brillare, così è meglio comunicare agli altri ciò che si è contemplato che non contemplare soltanto”. Questo è il cuore della dottrina di san Tommaso d’Aquino: «Contemplari et contemplata aliis tradere», con la quale si rende più chiaro il dovere morale di trasmettere agli altri il bene e la bellezza che si è contemplati. L’uomo infatti è per natura “animale sociale”, ciò comporta la comunicazione e la condivisione del proprio essere, dei propri sentimenti, delle proprie convinzioni e, di conseguenza, delle proprie virtù o dei propri vizi. Chi infatti vive immerso nelle trivialità, chi pone costantemente dinanzi ai propri occhi il male, il vizio e la perversione, progressivamente, e inevitabilmente, si andrà conformando all’immagine in cui si specchia quotidianamente, diventando egli stesso un ulteriore “specchio riflettore” del male, che diffonderà attorno a sé. Ecco la ragione della bruttezza intrinseca della cosiddetta “arte contemporanea”: la bruttezza interiore che si riflette all’esterno con opere in genere prive di significato, e che non di rado raggiungono la ripugnanza. Difatti, se ci si trova a proprio agio nel mondo, i suoi legami si stringeranno più saldamente attorno a noi fino a che saremo divenuti, a tutti gli effetti, “cittadini del mondo”.
Viceversa, chi pone continuamente dinanzi ai propri occhi il Cristo Crocifisso si andrà conformando sempre più all’immagine sostanziale dell’Amore, divenendo, a poco a poco, “cittadino del Cielo”. “«Abbiamo visto il Signore!»” esclamano i Discepoli dopo aver “veduto” realmente il loro Maestro Risorto, che solo tre giorni prima avevano, da lontano, “veduto” morto. La “visione” è quindi allo stesso tempo la condizione previa e il punto di arrivo della conoscenza. Ma bisogna almeno essere disposti a vedere altrimenti non si riuscirà a scorgere dietro l’albero che abbiamo dinanzi lo splendore lussureggiante della foresta, né intravedere tra le fessure della nebbia notturna, il chiarore delle stelle. Colui che si pasce e sostenta, quindi si “sostanzia”, della Bellezza, della Verità e della Bontà racchiuse nell’Unità dell’Essere fungerà da “portatore” di un tesoro non fatto da mani d’uomo, pur essendo egli un fragile vaso di creta, divenendo un riflesso nobilitato di una realtà più grande, eterna, immutabile. Il vero artista potrà dunque trasmettere agli uomini la Bellezza della Verità, lo Splendor Veritatis che egli stesso ha contemplato e amato: «Et vidimus gloriam eius, gloriam quasi Unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis».
John Ronald Reuel Tolkien (1892–1973), nato a Bloemfontein in Sud Africa, a soli quattro anni resterà orfano di padre. Trasferitosi in Inghilterra con la mamma e il fratello Hilary, dovrà soffrire anche l’abbandono dei nonni e di tutta la famiglia materna. L’imperdonabile colpa di mamma Mabel fu l’essersi convertita dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Ma d’altra parte, entrando nella Chiesa Romana “papista”, ella sapeva fin troppo bene a cosa andava incontro: “sarete odiati da tutti a causa del mio nome”. E il Divin Maestro così aveva preconizzato la condizione dei suoi seguaci: “Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”. Questo abbandono non solo affettivo ma anche economico, comportò la miseria per mamma Mabel la quale visse un profondo martirio esteriore ed interiore che, aggravato dalla malattia, la condurrà ben presto alla morte lasciando il piccolo Tolkien, ancora dodicenne, insieme al fratello minore Hilary, orfano anche di madre. Conservando nel loro cuore il luminoso esempio di virtù cristiana e di eroico sacrificio della madre, John ed Hilary furono accolti ed adottati da un sacerdote, l’oratoriano anglo–spagnolo padre Francis Xavier Morgan il quale diverrà il loro vero padre, soprattutto nella fede. Di lui Tolkien scriverà: “era stato come un padre, più di un padre vero, pur senza esserci obbligato”.
Il giovane Tolkien si formerà anzitutto alla scuola del servizio dell’altare come chierichetto, studiando la Dottrina, il latino e il greco, e soprattutto abbeverandosi a quella fonte inesauribile di grazia e di forza interiore che è la Santa Messa. Proverà il rigoroso diletto del canto pregato, il gregoriano, imparando ad amare la bellezza, per così dire, “alla scuola degli angeli”, assistendo e facendo suo lo spirito della Sacra Liturgia della Chiesa. Assimilerà dunque il latino, lingua consacrata dall’uso bimillenario della Chiesa nella celebrazione dei Sacri Misteri. Amerà le lettere e la letteratura, una passione che la madre infuse in lui fin dalla più tenera età, quand’ancora la sua anima si lasciava docilmente modellare dall’irresistibile autorità della carità. Orfano, senza nessuno al mondo, odiato dai suoi unici parenti a causa della sua fede cattolica, e per questo ancor più amato da Colui che rende giustizia ai suoi santi, Tolkien troverà nella Chiesa Cattolica “La Madre”; in un sacerdote pio riceverà un padre, immagine del Padre Eterno che non abbandona mai la vedova e l’orfano, e in Nostro Signore, e nei Sacramenti da Lui istituiti, la fonte della Vita.
“Io devo molto – confidò Tolkien al figlio Michael – al fatto di essere stato trattato, sorprendentemente per quell’epoca, in un modo più razionale. Fratello Francis ottenne il permesso di farmi conservare la mia borsa di studio per la King Edward’s School e per continuare lì, e così ho usufruito del vantaggio di un’ottima scuola (allora) e di una «buona casa cattolica» – in excelsis: in pratica ero un membro giovane nell’Oratorio, che comprendeva molti dotti padri (in gran parte convertiti). L’osservanza delle regole religiose era stretta. Hilary e io dovevamo, e di solito lo facevamo, servire Messa prima di inforcare le nostre biciclette per andare a scuola in New Street”.
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Immagine in evidenza: Tom Hall, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0, via Wikimedia Commons