di Luca Fumagalli
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Eric Stenbock e quella dei più importanti scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.
Come spesso accade per i tipi stravaganti che, in Inghilterra, bazzicarono le periferie del panorama culturale fin de siècle, la verità e le leggende sul loro conto si confondo a tal punto da renderle indistinguibili. Questo è anche il caso del conte Eric Stenbock (1860-1895), i cui eccessi, oltre ad averne minato la creatività, sono diventati col tempo più popolari delle sue stesse opere, numericamente poche e liquidate sovente con parole squalificanti.
Stenbock era l’ultimo esponente di una famiglia aristocratica russo-scandinava la cui dimora principale era la bellissima magione di Kolga, in Estonia. Trasferitosi a Brighton dopo la morte del padre, si iscrisse al Balliol College di Oxford. La sua esperienza universitaria fu breve e fallimentare, caratterizzata non solo da eccessi di ogni sorta ma pure dalla conversione al cattolicesimo. Al suo nome decise allora di aggiungere quello di Stanislaus, in onore di San Stanislao Kostka, un novizio gesuita del XVI secolo, figlio di una nobile e potente famiglia polacca, morto a soli 17 anni per una grave malattia (a San Stanislao, di cui vi è una splendida statua nella Chiesa romana di Sant’Andrea al Quirinale, è dedicata la Cattedrale di Łódź). Vale la pena notare che i libri che Stenbock pubblicò in vita sono tutti firmati con il nuovo nome, in forma estesa, ovvero Stanislaus Eric Stenbock.
Sulle ragioni della conversione, non avendo documenti di prima mano al riguardo, è possibile solamente avanzare delle ipotesi. Se è vero che l’amicizia del conte con i gesuiti e, in particolare, con padre Edward Ignatius Purbrick, fu così solida da far preoccupare persino la sua famiglia, e se è altrettanto vero che Arthur Symons lo descrisse nel mezzo di una processione, mentre «portava con sincera riverenza dei rami di palma», tuttavia pare che Stenbock abbia sempre vissuto la propria Fede con eccessiva leggerezza, non facendosi troppi scrupoli a contaminarla con elementi pagani e orientali (secondo John Adlard, «Eric, con il suo oppio, con la sua religione sincretista e i suoi vestiti stravaganti, fu naturalmente un tipo abbastanza tipico della generazione decadente»). Stando alla testimonianza di Ernest Rhys, nella sua abitazione il conte conservava un altare colmo di immagini sacre, candele e piume di pavone. Su di esso vi era pure un busto di Shelley e una piccola scultura di legno raffigurante Budda. Si narra che Oscar Wilde abbia acceso una sigaretta a questo altare, e che un simile atto blasfemo abbia provocato lo svenimento del padrone di casa. Al pari di altri artisti coevi, ciò che spinse Stenbock verso la Chiesa di Roma fu, con molta probabilità, la semplice voglia di atteggiarsi ad anticonformista, unita a un’attrazione per i fasti della liturgia. Di sicuro intravedeva nella religione una qualche verità, altrimenti nelle sue prove letterarie non sarebbe tornato così insistentemente sul tema – a volte persino con intuizioni per nulla disprezzabili –, ma questa non fu forte a sufficienza da allontanarlo dal mondo e dalle sue tentazioni.
Anche il suo terzo e ultimo volume di poesie, The Shadow of Death (1893), pubblicato per i tipi della Leadenhall Prefs un paio d’anni prima della sua prematura scomparsa, fu definito della «Pall Mall Gazette» una parodia dello stile fin de siècle, «un ridicolo miscuglio di neopaganesimo e cattolicesimo, di Verlaine e della Vulgata». Ciononostante, nelle sue infinite contaminazioni e contraddizioni, The Shadow of Death risulta al fondo una raccolta crepuscolare, in un certo senso più sincera delle precedenti, in cui Stenbock apre con maggior convinzione il proprio cuore al lettore per rivelare quell’intrico di rose e spine – non a caso immagine di copertina – che è la sua anima. Data la vicinanza del conte agli ambienti preraffaeliti, è poi possibile che il titolo della raccolta non sia (solo) la trita riproposizione di uno stereotipo decadente, ma una velata allusione all’omonimo quadro del pittore William Holman Hunt, risalente a circa vent’anni prima, in cui un giovane Gesù, ritratto nelle vesti dell’umile falegname, allarga le braccia proiettando sulla parete della stanza l’ombra inquietante della croce.
Ecco perché tra i componimenti di The Shadow of Death si notano alcune prove, come il “Sonnet XIV” dedicato a San Stanislao Kostka, che spiccano sul resto, se non per qualità letteraria, almeno per quell’ipotesi di sincera conversione che paiono adombrare (va comunque sottolineato, a proposito di infinite contraddizioni, che il “Sonnet” è preceduto da una lirica omoerotica e seguita da una traduzione di Saffo e da una di Meleagro del medesimo tenore).
Di seguito il testo del sonetto, per la prima volta proposto in italiano:
1 Oh! Ci sono gigli eletti nella casa di Dio;
2 Le onde si dividono innanzi ad essi, quando con piedi lucenti
3 Camminano sulla loro strada sereni e dolci.
4 La luce del Divino incornicia il loro sguardo,
5 Non hanno visto o conosciuto il seme della ribellione;
6 Né le loro orecchie potevano sopportare nulla che non fosse dolce,
7 Erano la stessa cosa, il chiostro o la strada;
8 Per loro il serpente non era un pericolo.
9 Oh Santo! Mio Santo! Oh grandemente e divinamente giusto!
10 Come oserò rivolgermi al tuo volto puro?
11 Si dice che il tuo aspetto avesse una volta una tale Grazia,
12 che gli uomini che lo guardavano erano spinti a una profonda devozione.
13 Oh, facci sentire, noi deboli e pieni di paure,
14 La gloria e la bellezza delle tue lacrime.
Al netto di un effetto un po’ troppo enfatico determinato dall’uso sovrabbondante dell’interiezione “Oh” – con il conseguente pericolo di franare nel mieloso e nello stucchevole –, il sonetto trae la sua forza dal sapiente tessuto di immagini evangeliche – a partire dai gigli del primo verso, un rimando a Mt 6, 28 – che Stenbock riesce a intrecciare con sufficiente abilità. Nelle quartine (vv. 1-8) il Santo è descritto come un pellegrino il cui cammino verso Dio non conosce ostacoli anche perché la strada percorsa fino a quel momento, con tutto il carico di fatiche e imprevisti, lo ha ormai condotto a una perfezione morale estranea al resto dell’umanità, una perfezione verso cui l’io lirico nutre una genuina ammirazione (irresistibile una proposta di accostamento ai versi montaliani: «Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico»). Nelle terzine (vv. 9-14) si passa invece all’invocazione diretta di San Stanislao, capace, al solo sguardo, di suscitare la devozione di un penitente che è insicuro e tremante al suo cospetto (un’eco di Mt, 8, 8: «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito»). L’esaltazione dello spirito saldo del giovane – «grandemente e divinamente giusto» (v. 9) – che, al contrario, la malattia ha reso fisicamente fragile, guida alla paradossale conclusione, in cui sono proprio le lacrime belle e gloriose di un San Stanislao in fin di vita, imago Christi, a ridonare forza e coraggio a coloro che si professano «deboli e pieni di paure» (v. 13). Il sonetto – a cui, secondo Timothy d’Arch Smith, si ispirò il giovane Montague Summers per la sua lirica dedicata a Santa Caterina da Siena – termina col contrasto salute fisica/salute spirituale in un gioco al capovolgimento dove a contare è solamente il bene dell’anima e dove il dolore di un’esistenza conflittuale può finalmente trovare senso e riscatto nella certezza della redenzione (che ogni cosa sia ricondotta allo spirito è avvallato anche dal fatto che, a differenza di un ambiguo topos decadente, nulla è detto a proposito degli attributi fisici del Santo, la cui età, tra l’altro, nella lirica non è mai esplicitata).
Le opere di Stenbock, al pari di quelle di molti altri autori della cosiddetta “generazione tragica” – la definizione è di W. B. Yeats –, meriterebbero dunque una maggiore attenzione da parte degli studiosi, anche di quelli di formazione e cultura cattolica, il cui compito, in simili casi, dovrebbe essere innanzitutto quello di separare il grano dal loglio (sebbene sia un lavoro difficile e frutto di una grande pazienza). Una maggiore perizia contribuirebbe inoltre a valorizzare la specificità del singolo autore e a offrire un’immagine meno stereotipata o ideologica di un periodo storico e culturale, come quello degli anni Noventa dell’Ottocento, particolarmente aggrovigliato, al crinale di quel “secolo lungo” che terminò tragicamente tra le trincee della Grande guerra. Ne vale davvero la pena anche perché – ne è proprio un esempio il “Sonnet XIV” – vi sono ancora molte perle nascoste che attendono solamente di essere dissotterrate.