di Ilaria Pisa (articolo pubblicato su La Tradizione Cattolica, anno XXXIII, n. 3/2021)
Introduzione
C’è una caratteristica della modernità che salta agli occhi delle anime semplici ed è la contraddizione. In assenza della bussola veritativa del Cattolicesimo verace, privo di adulterazioni e di compromessi, ciascun individuo diventa legge a se stesso e vaga anarchicamente tra eccessi opposti pur di seguire ora il ventre, ora l’orgoglio. La ragione, non più guidata dalla fede, pensa che la contraddizione sia accettabile, forse non la riconosce nemmeno più.
Il tema della modestia nell’abbigliamento e nel contegno non fa eccezione a questa anarchia neppure tra chi si professa cattolico, e sebbene la società odierna promuova più il nudismo e l’impudicizia che il suo contrario, la reazione corretta non è un integralismo di segno opposto. Proverò qui a sintetizzare come l’insegnamento della Chiesa abbia sempre perseguito il “giusto mezzo”, il modus (donde l’etimo della parola stessa), collocando la modestia in seno alla virtù cardinale della temperanza. Al contempo, non volendo parlare ex professo, invito il lettore a considerare queste pagine come strumento divulgativo e a scusare le inevitabili deficienze di approfondimento e di bibliografia[1].
Temperanza, moderazione e modestia[2]
La virtù di temperanza, come riferisce San Tommaso d’Aquino, governa le concupiscenze relative ai piaceri del tatto: si tratta dei desideri che è particolarmente difficile moderare perché ineriscono a operazioni naturali, come mangiare, bere, i piaceri venerei. La modestia ne costituisce parte potenziale perché riguarda invece le materie in cui moderarsi e osservare la giusta misura è un po’ meno difficile. S. Tommaso vi fa così rientrare: l’umiltà che si contrappone alla superbia, la studiosità che si contrappone alla sregolata curiosità di conoscenza, e la modestia propriamente detta (o decoro), riguardante cioè gli atteggiamenti esterni del corpo e l’abbigliamento, che si oppone ad un ventaglio di vizi contrari (vanagloria, mollezza, negligenza, ostentazione…).
In quest’ultima e più comune accezione, la modestia è “resa sacra dal fatto che il corpo umano è membro di Cristo e le membra umane tempio dello Spirito Santo (I Cor 5, 15 e 19: cf. Eccli 19, 26). Essa quindi esige rispetto al corpo proprio ed altrui ed urbanità in ogni atto e vieta ogni scompostezza, come il comportamento molle ed effeminato, la rigidità ed affettazione nello stare, nell’appoggiarsi, nel muoversi, nel cibarsi; quanto agli occhi (cf. Mt 6, 22-23), vuole non solo che si evitino gli sguardi colpevoli o pericolosi, ma in generale che si tengano composti e si mortifichi la curiosità di vedere; quanto all’udito ed alla parola, che nulla si ascolti o si dica di dannoso o di inutile (cf. I Cor 15, 33; Iac 1, 26)”[3].
È per noi consolante che già ai tempi dei Padri della Chiesa vi fosse chi provava a sostenere che solo gli atti interni contano, e che a quelli esterni non va attribuito più di tanto peso. Oggi la retorica sentimentalista ripropone simili argomenti, invitandoci a non giudicare una persona da come si offre, a vedere oltre gli atti esterni, reputati un indifferens che nulla può dire sulla realtà intima della persona.
Sbagliato! Già S. Ambrogio ribatte efficacemente che la virtù e l’onestà hanno una bellezza che la compostezza esterna è obbligata ad esprimere. Pensare che l’uomo possa comportarsi come un essere disincarnato e perdere interesse, nel bene e nel male, per ciò che gli capita di vedere; oppure illudersi che possa immergersi nell’impudicizia e nella bruttezza senza esserne sfiorato, è teologicamente erroneo, nonché smentito dai fatti[4]. La persona è un tutt’uno, non è scissa: S. Tommaso spiega che i moti esterni altro non sono che l’espressione delle passioni interne, da disciplinare in ogni campo per mezzo della virtù morale, che consiste nel regolare tutti i nostri atti secondo ragione.
Questa razionalità è vieppiù necessaria se si considera che i moti esterni possono offendere non soltanto Dio, ma anche l’altrui sguardo, essendo oggetto di inevitabile giudizio da parte di chi ci circonda. Se dunque da un lato è necessario proporsi agli altri senza ipocrisie, per come veracemente si è, dall’altro questo non scusa i nostri difetti e non ci esime dal correggerli assiduamente, anche per non essere di scandalo al prossimo. Andrà quindi tenuto sempre a mente che la prima modestia e il primo pudore germinano nel nostro cuore e che a nulla varrà la nostra decenza d’abito, se i nostri pensieri, le nostre parole, i nostri gesti parleranno di tutto tranne che di misura.
Per lui e per lei
S. Tommaso tratta della modestia sia per l’abbigliamento maschile sia per quello femminile (con il semplice distinguo che vedremo oltre). Questo può suonare inusuale alle nostre orecchie moderne: oggi è sostanzialmente sdoganato il nudismo femminile, figurarsi il maschile; ma appare più che ragionevole se si pensa che, prima della contemporaneità (e dei social) era l’uomo a mostrarsi in pubblico con frequenza maggiore.
Secondo S. Tommaso, il vestiario – in quanto cosa esterna di cui l’uomo fa uso – è moralmente neutro laddove non ne avvenga un abuso che può riguardare il decoro personale o il contesto (sociale, geografico) in cui ci si trova e le usanze delle persone con cui si vive. Ecco quindi che un discernimento razionale per individuare il giusto modus è necessario, e non consente di stilare un canone completo, valido per tutte le epoche e per tutti i contesti, di quanti centimetri di pelle possano essere scoperti, di quali aderenze siano accettabili[5].
L’abuso nell’abbigliarsi dipende da affetti disordinati e può avvenire, benché raramente, per difetto (negligenza e pigrizia nella cura di sé, oppure ostentazione di abiti dimessi, col pretesto dell’osservanza religiosa), ma ben più frequentemente per eccesso (vanagloria, volontà di spiccare e di stupire a tutti i costi, eccessiva mollezza e delicatezza, oppure semplicemente una smodata attenzione a ciò che si indossa, anche senza fini cattivi).
Per la donna, naturalmente più incline alla vanità in ciò che riguarda l’aspetto e lo stile, si aggiunge l’ulteriore, ovvio e più grave pericolo di incitare col proprio abbigliamento l’uomo alla lussuria.
Gusti o standard?
Nella loro saggezza, i Padri della Chiesa e lo stesso S. Tommaso non si cimentano in un prontuario dettagliato e vincolante di come la donna cattolica debba vestirsi, affidandosi al buon gusto e al senso della decenza di coscienze ben formate (o che devono avvertire l’obbligo di formarsi meglio). Quello che è imprescindibile e soprattutto oggettivo è però il dovere tassativo di coprire tutto ciò che nel corpo riconduce in maniera più o meno diretta alla dimensione dei piaceri venerei, il che automaticamente porta a circondare il corpo femminile di più cautele di quanto non sia necessario per l’uomo.
Se infatti per un uomo pudico può essere sufficiente coprire tronco e mezza gamba ed evitare aderenze sconvenienti, la verecondia femminile presterà attenzione anche all’entità della scollatura, alle spalle, alle trasparenze, a quanto salga l’orlo della gonna se ci si siede, e così via. Questo perché l’area femminile connessa all’intimità sponsale e alla generazione è indiscutibilmente più ampia.
Non si tratta di meri gusti o sensibilità personali, quando si suggerisce di evitare gonne che non coprano il ginocchio da sedute, di censurare scollature inappropriate o schiene e pance scoperte, di riservare le spalle a vista a contesti balneari o sportivi, di evitare i pantaloni, che nella stragrande maggioranza dei casi sottolineano proprio ciò che non andrebbe sottolineato. In tutti questi casi, lo standard è oggettivo e non soggettivo: la scelta di indumenti inappropriati, a prescindere dal fatto che qualcuno ne rimanga poi effettivamente tentato, è peccaminosa[6].
Che possano esistere persone così assuefatte al nudismo contemporaneo da rimanere sostanzialmente indifferenti di fronte a violazioni di questi paletti, non scusa comunque l’oltrepassarli. Analogamente, non bisogna commettere l’errore opposto e, per scrupolo sregolato, ritenere che ci si debba coprire indiscriminatamente, o risultare ripugnanti alla vista, solo perché possono esistere persone di malizia particolare, che si fanno tentare anche da abbigliamenti oggettivamente modesti.
Le indicazioni pastorali di Pio XII
Specchio dei tumultuosi e tragici mutamenti di pensiero e di costume (e intraecclesiali) avvenuti sotto il suo pontificato, diversi sono i discorsi di Pio XII sul tema della modestia femminile o appositamente dedicati alle mode estetiche.
Leggendo l’Allocuzione tenuta alla gioventù femminile di Azione Cattolica (22 maggio 1941) troviamo che “il movimento della moda non ha in sé nulla di cattivo […]. Dio non vi chiede di vivere fuori del vostro tempo, così noncuranti delle esigenze della moda da rendervi ridicole, vestendovi all’opposto dei gusti e degli usi comuni alle vostre contemporanee, senza preoccuparvi mai di ciò che loro garba.
Onde anche l’Angelico san Tommaso afferma che nelle cose esteriori, di cui l’uomo usa, non vi è alcun vizio, ma il vizio viene da parte dell’uomo che immoderatamente ne usa […]. E lo stesso Santo Dottore arriva perfino a dire che nell’ornamento femminile può esservi atto meritorio di virtù, quando sia conforme al modo, alla misura della persona e alla buona intenzione, e le donne portino ornamenti decenti secondo lo stato e la dignità loro, siano moderate in ciò che fanno secondo la consuetudine della patria: allora anche l’ornarsi sarà atto di quella virtù della modestia, la quale pone modo nel camminare, nello stare, nell’abito e in tutti i movimenti esteriori (4b In Isaiam prophetam, 3 in fine).
Anche nell’attenersi alla moda, la virtù sta nel mezzo. Ciò che Dio vi domanda è di ricordarvi sempre che la moda non è, né può essere, la regola suprema della vostra condotta; che al di sopra della moda e delle sue esigenze vi sono leggi più alte e imperiose, principi superiori e immutabili, che in nessun caso possono essere sacrificati al libito del piacere o del capriccio, e davanti ai quali l’idolo della moda deve saper chinare la sua fugace onnipotenza. Questi principi sono stati proclamati da Dio, dalla Chiesa, dai Santi e dalle Sante, dalla ragione e dalla morale cristiana, segnali dei confini, di là dai quali non spuntano né fioriscono gigli e rose, né spandono nembo di profumi la purezza, la modestia, il decoro e l’onore femminile, ma spira e domina un aere malsano, di leggerezza, di obliquo linguaggio, di vanità audace, di vanagloria non meno dell’animo che dell’abbigliamento”.
“Non vedete dunque che vi è un limite che nessuna foggia di moda può far oltrepassare, quello, oltre il quale la moda si fa madre di rovina per l’anima propria e per l’altrui? Alcune giovani forse diranno che una determinata forma di vestito torna più comoda, ed è anche più igienica; ma, se diventa per la salute dell’anima un pericolo grave e prossimo, non è certo igienica per il vostro spirito: voi avete il dovere di rinunciarvi. […] E se, per un semplice piacere proprio, non si ha il diritto di mettere in pericolo la salute fisica degli altri non è forse ancor meno lecito di compromettere la salute, anzi la vita stessa delle loro anime? Se, come pretendono alcune, una moda audace non fa su di loro alcuna impressione cattiva, che cosa mai esse sanno dell’impressione che ne risentono gli altri? Chi le assicura che altri non ne ritraggano mali incentivi? Voi non conoscete il fondo della fragilità umana […]”.
E infine: “Moda e modestia dovrebbero andare e camminare insieme come due sorelle, perché ambedue i vocaboli hanno la medesima etimologia, dal latino modus vale a dire la retta misura, al di là e al di qua della quale non può trovarsi il giusto (Oraz. Serm. 1, 1, 106-107). Ma la modestia non è più di moda! Simili a quei poveri alienati che, avendo perduto l’istinto della conservazione e la nozione del pericolo, si gettano nel fuoco o nei fiumi, non poche anime femminili, dimentiche per ambiziosa vanità della modestia cristiana, vanno miseramente incontro a pericoli, ove la loro purezza può trovare la morte. Esse subiscono la tirannia della moda, anche immodesta, in maniera tale che sembrano non sospettarne più nemmeno la sconvenienza; esse hanno perduto il concetto stesso del pericolo, l’istinto della modestia. Aiutare queste infelici a riprendere coscienza dei loro doveri, sarà il vostro apostolato, la vostra Crociata in mezzo al mondo. Modestia vestra nota sit omnibus hominibus (Fil 4,3)”.
In occasione del Congresso internazionale dei maestri sarti (10 settembre 1954) leggiamo: “Invece di elevare e di nobilitare la persona umana, l’abbigliamento talvolta tende a degradarla e ad avvilirla. […] Lungi dal favorire la tendenza già troppo spiccata all’immodestia, siate sempre solleciti di rispettare le norme della decenza e del buon gusto, di una eleganza sanamente intesa e perfettamente onesta. In una parola, invece di seguire la corrente materialistica che trascina tanti contemporanei, mettetevi deliberatamente al servizio di fini spirituali. Non è possibile dividere la vita umana in compartimenti stagni, di fissarvi alcuni tratti ove la morale avrebbe qualcosa da dire. L’abbigliamento esprime in un modo troppo immediato le tendenze e i gusti della persona per sfuggire ad alcune regole molto precise che sorpassano e regolano il semplice punto di vista estetico”.
Nel discorso ai partecipanti al I Congresso internazionale promosso dalla Unione Latina Alta Moda (8 novembre 1957) il Santo Padre è ancor più esplicito: “palese, quale origine e scopo del vestito, è l’esigenza naturale del pudore, inteso […] soprattutto come tutela della onestà morale e scudo alla disordinata sensualità. La singolare opinione che attribuisce alla relatività di questa o quella educazione il senso del pudore; che, anzi, lo considera quasi una deformazione concettuale della innocente realtà, un falso prodotto della civiltà, e perfino uno stimolo alla disonestà e una fonte di ipocrisia, non è suffragata da nessuna seria ragione […]. Il pudore, atteso il suo significato strettamente morale, qualunque sia la sua origine, si fonda sulla innata e più o meno cosciente tendenza di ciascuno a difendere dalla indiscriminata cupidigia altrui un proprio bene fisico, affine di riservarlo, con prudente scelta di circostanze, ai sapienti scopi del Creatore, da Lui stesso posti sotto l’usbergo della castità e della pudicizia. Questa seconda virtù, la pudicizia, il cui sinonimo «modestia» (da modus, misura, limite) esprime forse meglio la funzione di governare e signoreggiare le passioni, particolarmente sensuali, è il naturale baluardo della castità, il suo valido antemurale, poiché modera gli atti prossimamente connessi con l’oggetto proprio della castità. […] la pudicizia fa sentire all’uomo il suo monito fin da quando acquista l’uso della ragione, anche prima che egli apprenda la nozione di castità e del suo oggetto, e l’accompagna per l’intiera vita, esigendo che determinati atti, in sé onesti, perchè divinamente disposti, siano protetti dal discreto velo dell’ombra e dal riserbo del silenzio, quasi per conciliare loro il rispetto dovuto alla dignità del loro grande scopo”.
“È sempre arduo indicare con norme universali le frontiere tra l’onestà e la inverecondia, poiché la valutazione morale di una acconciatura dipende da molti fattori; tuttavia la cosiddetta relatività della moda rispetto ai tempi, ai luoghi, alle persone, alla educazione non è una valida ragione per rinunziare «a priori» a un giudizio morale su questa o quella moda che nel momento oltrepassa i limiti della normale pudicizia. […] Ma per quanto vasta ed instabile possa essere la relatività morale della moda, esiste sempre un assoluto da salvare, dopo aver ascoltato il monito della coscienza, nell’avvertire il pericolo: la moda non deve mai fornire un’occasione prossima di peccato”. “L’immoralità di talune mode dipende, in massima parte, dagli eccessi, sia d’immodestia che di lusso. Quanto ai primi, che praticamente chiamano in causa il taglio, questi debbono essere valutati non secondo l’estimazione di una società in decadenza o già corrotta, ma secondo le aspirazioni di una società che pregia la dignità e la serietà del pubblico costume”.
Casistica concreta
Alla luce dei criteri illustrati in queste brevi pagine, la nostra coscienza è aiutata ad orientarsi nelle scelte che riguardano noi e i nostri figli. Concludiamo provando a fornire risposte ad alcuni frequenti interrogativi pratici.
– La modestia nell’abbigliamento e nel comportamento varia a seconda dello stato della persona: una religiosa che ha abbandonato il mondo ha un abito, un decoro e una cura di sé che esprime tale distacco. Distacco che evidentemente non hanno né una donna in cerca di marito, né una donna sposata che legittimamente, anzi doverosamente, cura di piacere al consorte[7].
– Se il decoro e la decenza sono richiesti in qualunque circostanza della vita (anche quando si è a casa tra familiari, o in spiaggia, o a fare sport), essi sono particolarmente da curare in occasione di cerimonie religiose, vieppiù se in luoghi sacri. L’attenzione alla modestia in chiesa dev’essere maggiore, così come l’eleganza del “vestito della domenica” sarà superiore al resto della settimana.
– Sempre con riguardo a luoghi e celebrazioni sacre, non va dimenticata l’importanza simbolica e morale del velo muliebre (mai formalmente abrogato dalle norme ecclesiastiche), la cui opportunità è se possibile accresciuta dalla desuetudine a coprire modestamente il capo femminile in altri contesti.
– A proposito di spiagge e contesti similari (piscine), adottare costumi da bagno interi con una buona coprenza è senza dubbio preferibile.
– I pantaloni femminili andrebbero limitati a ipotesi di stretta necessità (S. Tommaso accettava un abbigliamento “androgino” solo in casi specialissimi, come la fuga da situazioni pericolose o la mancanza di vestiarii alternativi). La più parte risulta oggettivamente immodesta, anche se con attenzione si possono trovare modelli verecondi (pantagonne…). L’adozione del capo maschile per eccellenza pone in realtà problemi ulteriori rispetto al pudore: l’adesione implicita a un certo tipo di rivendicazioni femministe, o a tendenze uniformanti dell’abbigliamento verso una moda “unisex” e “gender fluid”, o l’adozione più o meno consapevole di attitudini e posture (nel sedersi ecc.) inadeguate a una donna. Vale quindi la pena di coltivare e stimolare la propria sensibilità anche su questo punto.
– Il trucco correttivo è sempre ammesso. Il trucco meramente estetico, se eccessivo, può risultare una contraffazione grottesca, ma costituisce peccato solo se adottato per impudicizia o disprezzo di Dio[8].
[1] Un sussidio divulgativo piuttosto completo sul tema è disponibile in forma di eBook (in lingua inglese): J. Black, Catholic Modesty. What it is, what it isn’t and why it’s still important.
[2] L’impalcatura teorica è qui fornita da S. Th., II – II, q. 141 ss.
[3] Enc. Catt., vol. VIII, col. 1198, Roma, 1952.
[4] Non mancano i tentativi, in ambito modernista, di dare dignità “teologica” a simili idee, avvalendosi di testate e riviste più o meno autorevoli e sovente richiamandosi a una “teologia del corpo” nella migliore delle ipotesi scivolosa, nella peggiore, spuria.
[5] La pretesa di fossilizzare atemporalmente il canone estetico, sia maschile sia femminile, è tipica di ambiti eretici (alcune sette protestanti) e acattolici (mormoni, ebrei osservanti, gruppi islamici radicali).
[6] Sebbene solo il Cielo possa conoscere i dettagli delle nostre colpe, in linea generale un abbigliamento oggettivamente inadeguato costituisce peccato veniale se adottato per vanità, superficialità, conformismo, mentre diventa mortale se adottato appositamente per piacere sensualmente agli altri.
[7] San Paolo, San Tommaso…
[8] S. Th., II – II, q. 169.