L’11 novembre 1918 aveva termine la Prima Guerra Mondiale, quel conflitto iniziato nel 1914 che aveva amareggiato a morte san Pio X e che il suo successore, Benedetto XV, Angelo di pace fra i belligeranti, condannò senza appello quale “inutile strage” e “suicidio d’Europa”. Appare quindi conveniente riprendere un saggio del Discorso che Benedetto XV rivolse al Sacro Collegio il 24 dicembre 1919 tracciando la via per godere in terra di una vera pace. Gli uomini del tempo non seguirono questa e gli orrori del secolo scorso e del secolo presente stanno a dimostrarlo,
La pace, a dire di Sant’Agostino, è «la tranquillità dell’ordine»: si comprende perciò agevolmente che pace non si può avere nell’individuo e nel consorzio civile senza che l’ordine, per avventura turbato, ritorni tranquillo nell’uno e nell’altro. Ora in quali rapporti consista l’ordine voluto da Dio nel mondo Ci è insegnato dalla Fede. Consiste in primo luogo nel pratico riconoscimento del supremo dominio del Creatore sopra tutte le opere della sua mano. Consiste in secondo luogo nell’affermata prevalenza dello spirito sopra i sensi. Consiste infine nell’amore, sincero e pratico, dei nostri simili. Senza questa triplice armonia non può aversi tranquillità di ordine; e chi non vede che l’ordine è sconvolto, oggi più che mai, nella società e nell’individuo, perché, più che per il passato, esso fu sovvertito dalla violenza delle passioni, che si levarono a negare i diritti di Dio sopra la umana società, l’impero dell’anima sul corpo, e il pratico amore del prossimo?
È desolante ciò che dai fratelli nell’Episcopato Ci viene riferito sulle devastazioni morali della guerra, scaltramente sfruttate da chi spia le sventure e le abiezioni, per volgerle a profitto della irreligione e dell’abbrutimento sociale. Oggi lo spirito di indisciplina, stato per lo innanzi tristo privilegio di pochi, ha invaso le masse e suggerisce anche ad esse l’antico «Non serviam». Oggi, l’umanità, avida di piacere, assetata di ricchezze, schiva del lavoro, non arrossisce, con insana e collettiva incoscienza, di sollazzarsi fra le gramaglie ed i lutti, e non si périta di intensificare l’abuso dei beni, proprio mentre ne inaridisce le fonti. Oggi, non pure nei rapporti delle nazioni, ma fra gli stessi cittadini una nuova e più terribile guerra, se non è scoppiata, è dichiarata; ed è guerra di invidia, di odio, di cecità, tanto essa inveisce contro il diritto, contro la carità, contro il sociale benessere delle stesse masse convulse.
E quello che l’individuo osa contro l’individuo, lo osa in più vasta scala la società contro Dio. Da libertà si giunse a tolleranza; da tolleranza a divisione; da divisione a dissidio; da dissidio ad ostracismo. Imperocché Iddio è divenuto un estraneo! la società vuole bastare a se stessa; la ragione vuole essere l’unica forza dell’umano progresso! Ma dove mena questa follia del naturalismo? La dimenticanza del soprannaturale, individualmente mena all’egoismo nei varii aspetti delle sue molteplici schiavitù; socialmente mena alla rivoluzione, all’anarchia, alla distruzione.
Dovremo dunque paventare per l’avvenire degli individui e della società? Paventeremmo, se non fosse giunto opportuno l’augurio del Sacro Collegio, che Ci ha lasciato sperare un rinnovamento di quei beni della pace, che cominciarono a splendere nel mondo quando nacque a Betlemme il Divin Salvatore.
Imperocché la fede ci dice anche oggi che «Ipse», cioé il nato Gesù, « est pax nostra », sol che opponiamo al male la medicina. Al male della ribellione a Dio opponga l’individuo la medicina della perfetta sottomissione ai divini decreti, predicata dal Fanciullo di Betlemme che venne al mondo «ut faceret voluntatem Patris»; al male della superbia opponga la medicina dell’umiltà di Chi, essendo Dio, apparve uomo mortale; finalmente al male dell’egoismo opponga la medicina della carità di Chi prese i nostri mali per darci i suoi beni. L’ordine voluto da Dio nella creazione sarà allora ristabilito, tornerà allora la pace a rallegrare gli individui, mercé lo spirito di fede, ravvivato dall’anniversaria ricordanza del Natale di Gesù Cristo.
«Ipse», cioè il nato Gesù, « est pax nostra » dovrà dire anche la Società, se al naturalismo oggi dominante contrapporrà la dottrina e l’esempio del Signor Nostro Gesù Cristo. Oh! il Fanciullo di Betlemme sarà anche pace della Società, se questa alla scuola di Lui, imparerà che il consorzio civile deve proporsi di agevolare l’ultimo fine dei cittadini, cioè l’eterna salvezza; sarà sua pace, se si inclinerà cogli organismi stessi alla sovranità indeclinabile del «Rex regum et Dominus dominantium»; sarà sua pace se, adottando la cristiana sapienza, si studierà di creare quella che l’intelletto di Agostino denominò «Città di Dio» in opposizione alla «Città del mondo».
Lungi pertanto dal paventare per l’avvenire degli individui e della Società, Noi ci associamo all’augurio del Sacro Collegio, desiderando prima che si ravvivi lo spirito della fede negli individui e nella Società, e che possano poi, così gli uni come l’altra, godere lungamente dei frutti di quella pace, che è figlia di una vera vita di fede.
L’Apostolo San Paolo, dopo di avere insegnato ai Romani, che «il regno di Dio non è cibo e bevanda, ma giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo», deduceva dal suo ammaestramento questa conclusione: facciamo dunque ciò che giova alla pace: «itaque quae pacis sunt sectemur». Anche Noi, come è piaciuto all’E.mo Decano del Sacro Collegio di rammentare, abbiamo testé cooperato, nella scarsa misura delle Nostre forze, all’estensione del regno di Dio, col promuovere la propagazione della fede in tutto il mondo. Ed oggi, raccogliendo da labbro autorevole una opportuna parola, possiamo aggiungere che lo zelo di evangelizzare i lontani presuppone nei vicini pratico amore all’inestimabile dono della fede.
Epperò, dopo di aver procurato di ravvivare lo spirito della fede col ricordo del Natale del Signor Nostro Gesù Cristo, affinché sia dato agli individui e alla Società, di gustare più copiosamente i frutti di quella pace che la sola Fede può dare, anche Noi dobbiamo con San Paolo ricordare l’obbligo di fare tutto ciò che giova a mantenere questo ineffabile bene: «itaque quae pacis sunt sectemur». Perché «pacis sunt», giovano alla pace gli atti di ossequio e di obbedienza alle leggi divine ed umane, che, in modo diretto od indiretto, riconoscono il supremo dominio di Dio sulla creatura; «pacis sunt», giovano alla pace, le mortificazioni e le penitenze con le quali assoggettansi i sensi allo spirito; «pacis sunt», giovano alla pace le condiscendenze che, nelle parole e negli atti, usiamo ai nostri fratelli, anche con sacrifizio di amor proprio. Che se dalla considerazione del bene individuale si passi a quella del sociale, dobbiamo un’altra volta ripetere l’esortazione di S. Paolo: «itaque quae pacis sunt sectemur». «Pacis sunt» gli atti pubblici coi quali si riconosca che né dalle scuole, né dai tribunali, né dalle pubbliche assemblee si deve mai dare ostracismo a Dio, che è Signore non pur degli individui, ma anche della Società; «pacis sunt» le industrie e le cure di poggiare l’alleanza dei popoli sulla base della giustizia; «pacis sunt» gli arbitrati e le sentenze che i popoli vinti condannano ad equa pena, non ad essere distrutti. Sarebbe superfluo insistere sugli insegnamenti della fede per dimostrare ognor meglio che la Società non potrà aver pace che in Cristo, e che l’individuo non potrà possederla che divenendo operosamente cristiano.
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Fonte: vatican.va
Fonte immagine: BeWeB – Beni Ecclesiastici in web / CEI – Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto