Mentre vediamo turbe di ecclesiastici farsi ubbidiente grancassa dei poteri del mondo, sempre più ribelle a Gesù Cristo, alziamo gli occhi all’esempio di San Carlo Borromeo, difensore intrepido della libertà e giurisdizione ecclesiastica contro le pretese non già di potestà anticristiane, ma dei ministri di Sua Maestà Cattolica Filippo II di Spagna.
Per restaurare la Arcidiocesi di Milano secondo i sacri dettati del Concilio Tridentino, il Borromeo intraprese una lotta durissima contro le varie forme di corruzione che attossicavano il giardino di quella Chiesa. Verso il 1566, non riuscendo ad ottenere nulla dall’autorità secolare, istituì dei tribunali ecclesiastici sotto la sua giurisdizione e iniziò ad esercitare questa incarcerando alcuni pubblici concubinari e ostinati adulteri.
I ministri del re di Spagna, sotto il cui dominio era al tempo Milano, videro nel una lesione della giurisdizione regia e intimarono al bargello della milizia arcivescovile, non potendo sollevarsi contro così prestigioso Arcivescovo, di non arrischiarsi ad arrestare laico alcuno e di deporre le armi.
Venuto a conoscenza di queste minacce san Carlo scrisse a papa san Pio V, allora regnante, relazionandogli del diritto della sua giurisdizione. Scrisse anche al re Filippo, significandogli che il suo agire ad altro non mirasse se non al servizio di Dio e all’adempimento dei suoi doveri episcopali.
Il re, che nella risposta a san Carlo, gli aveva scritto che la causa sarebbe stata discussa a Roma, scrisse pure ai suoi ministri milanesi per invitarli da un lato a difendere i diritti della Corona e dall’altro a conservare quelli della Chiesa.
San Pio V delegò la questione ad una speciale commissione e scrisse al Borromeo di mantenere ben saldo il diritto della sua giurisdizione. Scrisse inoltre un breve al Senato di Milano:
Diletti figliuoli. Ritornando a Milano Giovanni Paolo Chiesa vostro collega, volentieri ci siamo mossi e per carità e per giustizia insieme a farvi testimonianza della fedeltà e della diligenza singolare ch’egli ha usato con noi in trattare il negozio vostro pubblico; il qual negozio per essere della qualità e natura che sa ognuno, non si è potuto per ancora spedire. Questa causa non si tirerà più al lungo di quello che sarà necessario, perché udite e ben intese che saranno le ragioni d’ambedue le parti, faremo che il negozio si termini naturalmente. Frattanto vi esortiamo nel Signore con ogni affetto, che in tutte le cose aiutiate con sollecitudine l’arcivescovo vostro e gli altri vescovi della provincia a mantenere con decoro la cura e dignità dell’uffizio pastorale; imperciocché da niun’altra cosa più si stabilisce ed accresce la podestà secolare, che dalla grandezza ed autorità della giurisdizione ecclesiastica. Tutto quello che si aggiunge di stabilimento e vigore al patrimonio spirituale, serve grandissimamente per fortificare lo stato temporale: perciocché l’osservanza e pietà de’ principi e de’ magistrati verso i prelati ecclesiastici rende loro i popoli tanto ubbidienti, ch’è forza confessare che la salute de’ regni e de’ stati dipendi, come da fondamento, da quel solo aiuto della giurisdizione ecclesiastica. E Dio volesse che ciò non si scoprisse chiaramente dagli esempi contrari con rovina di molti. In questa lode furono tanto eccellenti i vostri maggiori, che per tal fatto furono ed essi famosi ed incitarono molte città e provincie a seguir così pio loro esempio. Dal che noi ancora per la grande affezione paterna che vi portiamo, siamo venuti in parere di esortarvi più a lungo di quello che per altro rispetto pensavamo non fosse bisogno, affinché continuiate vivamente in quella gloria che con sommo nostro piacere ritenete di giovare e favorire la giurisdizione ecclesiastica: perché i pastori animati da tale dichiarazione della volontà vostra a fare con maggior diligenza l’uffizio loro, procureranno di dare al Signore più abbondanti frutti de’ loro greggi.
Il Pontefice, che da Inquisitore conosceva bene come l’autorità secolare tenda spesso e volentieri a schiacciare la libertà della Chiesa, appoggiava evidentemente l’Arcivescovo Borromeo. Ma le parole del Papa non trovarono accoglienza oltre a quella delle forme cerimoniali.
Infatti per tutta risposta all’affermazione del possesso del potere giudiziario da parte dell’Arcivescovo, fu comandato al Capitano di Giustizia di arrestare il bargello della milizia arcivescovile per detenzione d’arma proibita. Ciò doveva servire da monito agli altri militi e allo stesso Borromeo.
San Carlo, addolorato per l’avvenuto, passò al contrattaccò. Avendo davanti agli occhi la difesa della Sede Apostolica oltraggiata nella disubbidienza ai brevi di San Pio V, la riforma ecclesiastica impedita dai lacci posti alla condanna dei malvagi, l’onore di Dio e la sua pastorale sollecitudine nel difendere la sacra giurisdizione ecclesiastica, fulminò la scomunica contro il Capitano di Giustizia, contro un fiscale regio, contro un notaio e contro il custode delle carceri dove era stato rinchiuso il bargello.
Quello che ne seguì fu una disputa che continuò per alcuni anni, con l’Arcivescovo costretto sempre sulla breccia in difesa della sua Chiesa, come di quella Universale, dell’autorità romana e della stessa sua persona, fatta bersaglio di infami calunnie d’ambizione. Quali fossero i sentimenti di san Carlo ce lo dice una lettera scritta a san Pio V nel 1568:
Santissimo e beatissimo Padre. Ho dato conto e prima alla Santità Vostra minutamente delle cose spettanti alla giurisdizione di questa Chiesa, ed ora ho commesso all’Ormaneto che rappresenti con diligenza tutto quello che si è trattato quivi col marchese di Seralvio, il quale se ne viene di presente a Roma. Avendomi egli richiesto che scrivessi a vostra beatitudine di accordare il negozio e di non far venire a Roma i șenatori, io dirò brevemente il mio sentimento intorno a questo particolare e quello che io avvisai prima e che fu risposto liberamente allo stesso marchese. Quanto a senatori, io non voglio che faccia risentimento di alcuna mia privata ingiuria; nel resto ella giudichi con molta rettitudine ciò che convenga alla dignità della Santa Sede Apostolica, perché n’è capo ed io picciol membro. Della ragione di questa Chiesa io protesto di non aver altra mira se non che mantenendosi l’autorità di essa, chiunque avrà per l’avvenire questo arcivescovado possa fare liberamente tutte quelle cose che concernono l’uffizio suo. Del resto a me basta di aver mandato le testificazioni e le ragioni che possono provare il possesso della Chiesa, alla Santità Vostra, la quale avendo appresso di sé uomini di eccellente bontà, dottrina e giudizio, e di quei che si trovarono presenti nel concilio di Trento a fare i decreti sopra simil materia e quello che più importa, essendo ella retta dallo Spirito Santo, parmi di non dover far altro che aspettare ciò the sua santità determinerà, ed accettare con prontissima volontà tutto quello ch’ ella ordinerà, tenendolo assolutamente per giusto e santa.
Fonte: G.P. GIUSSANO, Vita di San Carlo Borromeo
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