di Luca Fumagalli

C’era una volta

Il destino degli eredi (The Inheritors) costituì una sfida impegnativa per William Golding. Sebbene ancora lontano dal successo che, negli anni successivi, avrebbe investito il suo primo romanzo, Il Signore delle Mosche, fino a elevarlo a icona generazionale e a valergli il Nobel, lo scrittore inglese si trovava comunque nella difficile situazione di dover confermare le brillanti doti narrative ampiamente dimostrate con l’opera d’esordio. Dopo mesi di duro lavoro venne quindi alla luce, nel 1955, quello che lui stesso considerò sempre il suo romanzo prediletto, un lavoro che non mancò di attirare su di sé molte critiche, ma che, al contempo, consacrò Golding come uno dei nomi più innovativi del panorama letterario britannico.

La testimonianza, sofferta e radicale, dell’ansia e della crisi d’identità del Novecento si sposa, da questo momento, con una struttura narrativa calata in una griglia mitica e simbolica che, dalla linearità favolistica de Il Signore delle Mosche, si andò sempre più complicando nelle involute e cerebrali oscurità delle prove successive. Il nuovo stile che, ad esclusione di sparute eccezioni, rimase una costante negli anni, era sicuramente più congeniale all’autore, più vicino alla sua sensibilità, al suo gusto per l’allusione e per il mistero. Tuttavia, se nessuno dei suoi lavori bissò mai il successo de Il Signore delle Mosche, uno dei motivi principali è di imputare proprio alla diffusa oscurità che ostacola il lettore poco avvezzo a un’opera meno immediata e dalle vaste implicazioni filosofiche e teologiche.

Il destino degli eredi è forse l’esempio più calzante in tal senso e testimonia la sua peculiarità già a partire dalla trama, curiosa e ardita. Nel romanzo si racconta infatti la storia di un gruppo di uomini di Neanderthal che vengono sconfitti e cancellati dalla storia quando nel luogo in cui abitano giunge una tribù di Homo Sapiens. Più evoluti, intelligenti e spietati, i nuovi arrivati hanno facilmente ragione dei neandertaliani, imponendosi così come ulteriore gradino nella scala evolutiva.

Seppur distante da Il Signore delle Mosche per personaggi e ambientazioni, esiste però un forte legame tra i due libri: secondo Carey, «Entrambi parlano dell’incontro tra civiltà e ferocia e suggeriscono nuovi modi per interpretare i due termini. Entrambi narrano dell’omicidio di un innocente». Golding esplora dunque l’origine della colpa e lo sviluppo della violenza in concomitanza con l’apparire sulla terra di una nuova umanità. Traccia volontariamente una sorta di mitopoiesi, una mitologia fantastica che, sempre senza prescindere dal retrogusto favolistico, fonde Darwin con la Genesi. In un paesaggio lontano e isolato, un microcosmo simile a quello dell’isola di Jack, Ralph, Piggy e Simon, si compie un nuovo dramma che, questa volta, assume la caratura di un sovvertimento storico universale, un escalation di violenza che muta per sempre il destino del mondo e di cui anche noi siamo eredi diretti, come ricorda il titolo originale del libro (The Inheritors significa appunto “gli eredi”).

Anche se l’ambiente descritto appare distante, come se si trattasse di un universo con le proprie leggi e dinamiche, costruito dall’autore più attraverso la parola che l’azione, il lettore si immerge nelle pagine del romanzo come in uno specchio, e in quegli antenati non può non scorgere una scintilla di sé. Così lontani eppure così vicini: è forse questo il più grande miracolo che compie Il destino degli eredi, quello appunto di rendere prossimo il remoto, in un confronto complesso ma autentico e appassionante. Ed esattamente come ne Il Signore delle Mosche, chi legge si trova a sperimentare un’inquietudine che muove, porta a riflettere e a mettere in discussione ogni preconcetto. Il dibattito tra due poli opposti – ma, almeno in una certa misura, complementari – alimenta il libro e ricorda i celebri componimenti poetici di Blake; si potrebbe parlare, in ultima istanza, di una sorta di sfida tra innocenza ed esperienza, uno scontro che ha come conseguenze immediate la morte e il decadimento morale degli uomini. Il nuovo titolo scelto per l’ultima edizione italiana, targata Mondadori e datata 2021, a differenza del precedente, Uomini nudi, sembra quindi puntare su questo secondo aspetto. Si mostra la capacità dell’autore di smascherare l’uomo, descrivendo senza ipocrisia i suoi limiti e il male che è in grado di commettere: ogni retaggio di puerile ottimismo progressista è nuovamente il bersaglio di un attacco sistematico condotto da Golding con il metodo della narrativa.

In una gabbia strutturale che si muove per punti essenziali, in cui tutto ciò che è superficiale o secondario è eroso, la storia procede in modo rigorosamente lineare per quello che concerne anche i toni e il clima generale. Chi legge è invitato e entrare in un mondo che gli è fondamentalmente estraneo, tutto intessuto di immagini simboliche, spesso addirittura incomplete.

Ma ciò che più di altro contribuisce a rendere complessa una trama di per sé piuttosto semplice è il peculiare punto di vista adottato. La storia, pur raccontata da un narratore esterno, viene, in realtà, descritta attraverso gli occhi e le azioni di Lok, il protagonista neandertaliano, investito dalla matriarca della responsabilità di comandare la sua piccola tribù e, in senso lato, di farsi portavoce della tradizione degli sconfitti: «Ora c’è Lok!».

Nel tentativo di avvicinare il lettore all’esperienza cognitiva dei primi uomini, Golding tratta i fatti descritti vestendo i panni del Neanderthal, il quale sperimenta un rapporto con la realtà solo di tipo percettivo e non sempre è in grado di comprendere tutte le implicazioni connesse a quanto sta accadendo. I neandertaliani vivono attraverso i sensi, il loro grado di inferenza è minimo ed è per loro impossibile elaborare ragionamenti complessi o stabilire sistemi di pensiero. Lok è come un bambino, i suoi occhi sono privi di consapevolezza, sospetti o paure. Quando, ad esempio, uno dei nuovi uomini scaglia una freccia avvelenata contro di lui, nel tentativo d’ucciderlo, e Lok «aveva l’idea confusa che qualcuno stava cercando di fargli un regalo», chi legge assapora l’amaro calice di uno scacco disperante, venendo chiamato, in seconda istanza, alla grande scommessa di arrendersi all’immaginazione per sospendere il giudizio fino al termine della vicenda. Il narratore, tecnicamente onnisciente, lascia dunque ampio spazio allo sguardo del protagonista che propone una serie infinita di fatti inspiegabili, resi ancora più difficili da una scissione – che è momento di crescita – tra un Lok animato da puri sentimenti, e uno preda della paura e della confusione generata da una realtà in costante trasformazione.

Non manca inoltre un voluto effetto ironico che, pagina dopo pagina, fa apparire Lok come un osservatore sempre meno credibile e lo trasforma in una sorta di clown o in un fantasioso pittore dalla mente semplice. Il riso che segue naturalmente le goffe incomprensioni lascia presto spazio alla disperazione quando la leggerezza di una visione idilliaca viene messa in discussione dalla malvagità dei Sapiens: tale inadeguatezza sarà pagata da Lok e dai suoi con la vita.

La difficile riconciliazione tra i due poli tematici dell’innocenza e dell’esperienza avviene anche a livello di trama. Alla prima parte, inerente ai neandertaliani, si sostituisce la sezione conclusiva in cui i protagonisti diventano gli uomini nuovi e il ruolo di voce narrante passa a Tuami, l’alter ego di Lok. Artista e sciamano, membro della tribù dei Sapiens, a lui tocca vestire anche gli scomodi panni dell’antagonista. Progressivamente si viene così a conoscenza delle due tribù e il sapore della narrazione perde la naturale purezza per avvicinarsi allo spirito malevolo dei nuovi venuti. Lo stesso movimento, almeno implicitamente, anima il lettore. Come scrive McCarron, «normalmente, quando leggiamo un racconto, siamo compiaciuti della nostra abilità di comprenderlo […]. Il destino degli eredi non ci offre invece questo senso di superiorità sul testo […] perché siamo manipolati verso una posizione di complicità con la colpa». Anche se naturalmente si è portati a simpatizzare per Lok e la sua gente, lo scrittore conduce e sviluppa il racconto in modo tale da costringere chi legge a riconoscersi soprattutto nei Sapiens e a fare memoria del legame malvagio che lo unisce ad essi.

Il destino degli eredi, secondo una costante che attraversa tutta l’opera di Golding, si risolve quindi in un tentativo di pacificazione che invita all’integrazione degli opposti come acqua e fuoco, luce e tenebre, foresta e pianura, inclusione ed esclusione, anche alienazione e unità. Solamente alla fine del libro, quando scopre l’analogia, Lok acquisisce l’abilità di comprendere la realtà quale un tutto omogeneo. Quel “come” costituisce un raccordo tra i particolari, un principio che anche Tuami adotta quando, proprio in chiusura, scolpisce la sua arma dotandola di una forma nuova e innocua.

Il mutamento che il protagonista vive è qualcosa di scioccante. Nel corso della vicenda Lok si avvicina sempre di più al modello di pensiero espresso dai Sapiens. Ancora una volta, però, è complicato capire se si tratti di un’evoluzione o piuttosto di un’involuzione. Infatti, dopo che Lok, in una vampata d’entusiasmo, si lancia in una serie di analogie espresse ad alta voce, con tono compiaciuto, una convulsione improvvisa lo riporta alla realtà: «Giunse una confusione nella sua testa, un’oscurità; e poi fu nuovamente [lui]». Un piccolo indizio che anticipa il finale, in cui la visione globale in grado di abbracciare un orizzonte ampio e profondo verrà conquistata solamente a caro prezzo.

Ricordando La tempesta di Shakespeare, si potrebbe affermare che l’autore esalta il punto di vista di Calibano prima dell’arrivo di Prospero, trattando i neandertaliani come possessori di una felicità che i loro eredi non potranno mai assaporare». Se Dante loda il linguaggio come capacità degli uomini di elevarsi oltre la bestialità per occupare una posizione di poco inferiore a quella degli angeli, i primitivi de Il destino degli eredi posseggono invece una comunicazione intuitiva raffinata, che non necessita di parole, anch’esse ritenute un segno della colpa che ha contaminato il cuore dell’uomo minandone irrimediabilmente i fraterni legami spirituali.

La complessità del romanzo si mostra, più in generale, anche negli intenti che si prefigge. Da un lato può essere visto come una risposta ai lavori di H. G. Wells sugli uomini primitivi, contraddistinto pure da una certa accuratezza dal punto di vista archeologico e antropologico – come testimoniato, ad esempio, dalla precisa descrizione della sepoltura di Mal, la vecchia guida dei neandertaliani –, dall’altro Il destino degli eredi può  essere trattato più semplicemente come un’appassionante avventura in un mondo selvaggio e pericoloso, con ampio margine per l’invenzione e la licenza poetica.

A questi due livelli interpretativi si assomma quello allegorico che vuole i Neanderthal come una figurazione dell’innocenza, uomini non solo senza alcuna traccia di male, ma incapaci addirittura di comprenderlo quando si imbattono in esso: così corrono incontro ai loro carnefici con leggerezza e amore, ignari della distruzione che incombe. In questo caso, come ne Il Signore delle Mosche, il soggetto dominante sarebbe nuovamente quello della caduta adamitica, un viaggio dall’Eden verso il naturale epilogo della colpa.

La critica a Wells, la dimensione dell’avventura e il tema della caduta sono chiavi di lettura che possono offrire un quadro complessivo e fedele dell’opera solamente a patto che vengano integrate tra loro.

Come sempre in Golding la modalità di lettura più efficace è quella della scoperta; ma non si tratta solamente di vedere cose nuove, quanto di vedere in modo nuovo. Il confronto tra gli uomini moderni e i Neanderthal, nonostante i limiti, appare impietoso: le loro capacità di percezione sono così tanto più ricche delle nostre che il contrasto non può essere semplicemente quello tra “meglio” o “peggio” così come è intrinseco in Wells. La provocazione che l’autore lancia al razionalismo ottocentesco è quella di immaginarsi all’interno di uno stile di vita alieno, approccio che manca nella riduzione macchiettistica dei neandertaliani operata in Outline of History, in cui sono dipinti alla stregua di creature inferiori, probabilmente la fonte dell’orco mitologico delle storie popolari.

Nel dipanarsi della trama, Golding stesso è chiamato a una continua sfida, quella di rinunciare alle analisi, ai commenti e alla maggior parte delle opzioni di dialogo. Solo nelle descrizioni – assecondando la sensibilità unica dei personaggi – è concesso spazio alle ricche prolusioni che illustrano il mondo con frequenti antropomorfismi, il segno paradossale di un’esperienza viva, concretissima. È il volto della realtà  di chi, più che capirla, ne percepisce la forza vitale che fluisce in essa.

I dialoghi, ovviamente, sono l’elemento narrativo più sacrificato. Le parole di Lok superano di poco lo stadio dei rumori e il loro uso serve solamente ad accompagnare i gesti. La lingua però, lungi dall’essere qualcosa di statico, si evolve nel corso della trama e diviene più complessa mano a mano che le circostanze lo richiedono, come quando Lok e la sua amica Fa si trovano costretti ad affrontare i nuovi arrivati e la ragazza mostra un’inedita capacità di elaborazione del pensiero. La distanza tra Dante e Golding si misura anche in questo richiamo alla Genesi in cui la donna parla per prima e ha come interlocutore il diavolo.

Forse l’intuizione più brillante dell’intero romanzo si situa proprio a questo livello. Spinto dal desiderio di una narrazione che tenga conto della capacità dei Neanderthal e, al contempo, delle loro caratteristiche di purezza e benevolenza, Golding inventa, se così si può dire, lo strumento narrativo dell’ “immagine”. I membri del gruppo di Lok comunicano infatti condividendo immagini, cioè visualizzazioni e non concettualizzazioni, istantanee telepatiche non di un’idea ma di un evento intero.  Una condizione difficile da descrivere perché, nella mitopoiesi dell’autore, si tratta di una facoltà ormai perduta, al pari dell’acutezza dei sensi: «Quindi perlustrò la foresta con le orecchie e il naso in cerca di intrusi». Per Lok anche il più piccolo elemento è accompagnato da un’immagine, «una sorta di presenza vivente ma qualificata», e la gestualità si carica di empatia, marchio della natura che racconta un amore istintivo.

A metà tra la percezione e il vaticinio, l’immagine è l’anima che lega l’intero gruppo e ne costituisce il patrimonio collettivo. È una straordinaria dote, ma anche il segno più evidente di un pensiero astratto ancora lontano da quello moderno. Ci si trova così a fronteggiare una caotica lista di figure senza alcuna connessione, ma, al contempo, si è inconsciamente preparati alla confusione che alberga in Lok quando, da lontano, nota il fumo prodotto dai Sapiens.

Antropologie

Il destino degli eredi, come anticipato, valorizza e arricchisce le conclusioni a cui Golding era giunto con Il Signore delle Mosche, libro in cui, a partire dallo studio della natura del peccato, vengono messe in discussione le miopi asserzioni dell’ottimismo liberale.

Il Ballantyne di questo secondo romanzo, l’autore da confutare e sovvertire, è il famoso H. G. Wells. Tra i principali esponenti dello scientismo d’inizio novecento, nel saggio Outline of History, nei capitoli otto e nove, Wells descrive il presunto sterminio degli uomini di Neanderthal da parte dell’Homo Sapiens. I neandertaliani sono rappresentati come cannibali, esseri mostruosi, rozzi e feroci, e la scelta operata da Golding di porre un estratto del testo come epigrafe iniziale del romanzo è un’aperta dichiarazione di intenti, un atto di sfida nei confronti di quella mentalità che, nonostante le devastazioni prodotte dai totalitarismi e dalle due guerre mondiali, continuava a riporre fiducia nella ragione e nel progresso: «Possiamo dire, quindi, che Golding e Wells sono principalmente opposti nella visione che essi hanno dell’ “orco”; Wells, il razionalista, vuole separare questa figura terrificante dall’Homo Sapinese posizionarla in un corpo peloso, che suscita repulsione […]; Golding sostiene che l’orco è dentro di noi» (così Hynes). Sebbene Wells, verso la fine della sua vita, dopo la Seconda guerra mondiale, assunse una posizione ancora più radicalmente pessimista rispetto a quella dell’autore de Il destino degli eredi, è però indubbio che il giovane storico di Outline of History fosse erede di quella folgorazione vittoriana per cui il passaggio del tempo e il processo educativo sarebbero stati in grado, da soli, di condurre l’umanità al progressivo perfezionamento.

Nel breve racconto The Grisly Folk Wells descrive invece le avventure di un gruppo di nostri antenati, pacifici raccoglitori e cacciatori. Questa tribù, però, si vede rapire uno dei suoi bambini dal popolo pre-umano del titolo, una formazione più riconducibile al mondo animale che a quello degli esseri umani. Si tratta degli stessi neandertaliani di Outline of History, una genia che non si incrociò con il vero uomo.

Golding inverte sistematicamente il pensiero di Wells e in Il destino degli eredi è l’Homo Sapiens a rapire un piccolo neandertaliano e a portare la violenza e il cannibalismo sulla terra. Sono i nuovi uomini, quelli esaltati dal positivismo di ritorno, che, nel romanzo, vengono associati alla distruzione e alla morte; rispetto a Il Signore delle Mosche, dove è assente un modello di autentica purezza, il loro portato malvagio è ancora più evidente se confrontato all’immacolata pacatezza di Lok e dei suoi. L’assunto evangelico implicito nel titolo, «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt, 5, 5), viene anch’esso sovvertito: a ereditare il mondo non saranno i pacifici neandertaliani, ma il violento Homo Sapiens.

Nuovamente interessato all’esternazione del male, Golding propone quindi un viaggio nel passato, in una realtà a metà tra storia, mito e favola, in cui fondare una personale visione della caduta dell’uomo nell’oscurità e nella sofferenza. Il tentativo è accompagnato dalla messa in discussione di ogni pregiudizio allo scopo di ridestare un interrogativo sulla natura dei viventi, un punto di vista diverso che accomuna la critica alle teorie evolutive classiche alla contestazione del colonialismo. Infatti, nella partica coloniale – specialmente nel caso della Gran Bretagna – è implicito l’assunto che chi si trova sul gradino più alto nella scala evolutiva non abbia alcun obbligo morale nei confronti degli inferiori, nemmeno quello di rispettare i loro diritti e le loro vite. Molti romanzieri britannici hanno scritto al riguardo, e forse, con Il destino degli eredi, a questi nomi andrebbe aggiunto anche quello di Golding. Il libro, che mostra il popolo di Lok come colonizzato dai nuovi uomini, può dunque essere visto come un suggerimento dei modi in cui le costruzioni narrative, in particolare, siano suscettibili di una varietà di approcci diversi.

Se  i lavori di Wells costituiscono la fonte primaria del romanzo – in abbinamento a testi sacri come la Genesi e l’Apocalisse – l’universo narrativo è così magmatico e vario che mostra un ampio ventaglio di allusioni intertestuali tratte da autori piuttosto eterogenei: si va dal re del bosco ne Il ramo d’oro di James Frazer alla quercia del mito scandinavo di Balder, dal Beowulf al Tennyson degli Idilli del re (quest’ultimo soprattutto per quanto riguarda i nomi di alcuni protagonisti). Una gran messe di testi che cooperano a un disegno intricato e complesso che, come sempre, scatenò un acceso dibattito tra la critica.

Molti furono disturbati dal cambio di prospettiva finale, accusato di rompere inutilmente l’unità della trama, mentre la maggior parte dei commentatori si concentrò piuttosto sulla tecnica operata da Golding per descrivere il punto di vista di Lok. Se, soprattutto tra i primi recensori, fioccarono critiche per un lavoro troppo ambiguo – spesso etichettato come pessima antropologia o, al meglio, un sottogenere di fantastoria – al contrario, negli anni successivi, tanti furono positivamente colpiti dall’innovazione strutturale e linguistica promossa dal romanzo che, come conseguenza diretta, favorì l’elaborazione di diversi studi dedicati a tale novità.

Anche gli antropologi, generalmente poco ricettivi rispetto a romanzi come Il destino degli eredi, mostrarono un discreto interesse iniziale per l’opera, sebbene fosse chiaro come a Golding non interessasse affatto ricostruire con precisione archeologica l’epoca preistorica. L’ambientazione, del resto, era solo un pretesto per mettere in scena una nuova allegoria della vita. Nonostante sia generalmente corretta, la rappresentazione dell’uomo di Neanderthal che emerge dal testo, al pari della descrizione di Wells, non ha però alcuna reale corrispondenza con le più recenti acquisizioni della paleontologia (ad esempio non vi è parere unanime sulla capacità di parlare o meno dei neandertaliani) e, certamente, sarebbe sbagliato indicare il volume come un’immagine completa della vita dell’uomo primitivo sulla terra. La discussione fu breve e si esaurì rapidamente; l’impatto del libro in ambito scientifico fu, tutto sommato, trascurabile. D’altronde certe libertà narrative prese dall’autore allo scopo di vivacizzare la trama erano esplicite nella loro antistoricità: i neandertaliani di Golding non hanno ancora imparato a levigare le pietre che usano come strumenti, mentre i Sapiens sono in grado di creare vasi di creta, strumenti d’osso e canoe. Lo scrittore ha quindi voluto rappresentare i Neanderthal più primitivi, e gli Homo Sapiens più evoluti, così da enfatizzare il divario intellettuale e culturale tra le due specie e rendere ancora più esplicita le tesi di fondo del romanzo.

La suggestione di un’evoluzione dell’umanità che corrisponda a una sua involuzione morale catturò nuovamente l’attenzione di quanti avevano apprezzato l’analogo meccanismo ne Il Signore delle Mosche. L’iniziale impossibilità di collocare la realtà in uno schema unitario, segno dell’innocenza, della possibilità, cioè, di godere della vita in un mondo di fatti accettati, soccombe innanzi alla colpa che, come nel racconto biblico, associa il peccato alla conoscenza. Di queste prospettive, destinate in seguito a fondersi, sono testimonianza le due civiltà che abitano nel mondo de Il destino degli eredi.

La trama del romanzo è strutturata in due parti distinte: nella prima, che va dal primo al decimo capitolo, Lok descrive i fatti principali che hanno per protagonista il suo popolo, mentre negli ultimi due capitoli, dopo un passaggio di raccordo, il ruolo di narratore passa a Tuami che riesamina retrospettivamente quanto accaduto.

Sin dalle prime pagine si viene introdotti nel luogo in cui, come su un palcoscenico, è rappresentata la tragedia. Concepito come una sorta di correlativo oggettivo del dolore e dell’ansia che attraversano i protagonisti, l’ambiente naturale è dominato dalla figura della cascata. L’acqua che scorre impetuosa, quasi feroce, in un vortice fragoroso che rompe costantemente il silenzio del mondo circostante, è il simbolo centrale de Il destino degli eredi e corrisponde all’oggetto stesso del libro, quella caduta adamitica che, in un certo senso, è causa della nostra fragile umanità. Un’isola boscosa circondata da un fiume, una foresta, due cascate, una sporgenza, un terrazzamento, un paio di sentieri, vegetazione lussureggiante e animali feroci sono tutto ciò che compone la preistoria mitica di Golding. Pochi riferimenti, spesso percepiti vagamente solo attraverso le lacunose e imprecise descrizioni di Lok, sono tratteggiati dallo scrittore con afflato impressionistico non tanto allo scopo  di dotare l’azione di una geografia precisa o riconducibile al dato reale, quanto di creare un pretesto, un nuovo piccolo mondo in cui ambientare l’origine mitica del male e la sua evoluzione. Proprio in questo luogo, dopo un lungo viaggio, giunge la tribù dei neandertaliani, fiduciosamente convinta di poter trovare un posto sicuro per trascorrere la primavera. Ma le cose non andranno esattamente per il verso giusto e presto quell’Eden ancora intatto verrà macchiato dal sangue che, lavando la cortina dell’ignoranza, rivelerà un universo più simile all’Inferno che al Paradiso.

Nei capitoli iniziali i neandertaliani sono una comunità solida e stabile, incapace di proporre individualità spiccate; sono piuttosto un organismo complesso che, nonostante le differenze, si muove all’unisono, secondo le indicazioni dei capi: «C’era dell’empatia tra loro». Per tutto il libro sono indicati semplicemente come “il popolo”, un ulteriore indizio di questa stretta comunanza. La loro esistenza non mostra alcuna dimensione privata, ma tutto è pubblico e collettivo: con i loro corpi offrono riparo e protezione ai membri più deboli del gruppo – come quando Mal, il saggio anziano, cade nell’acqua gelata – e il neonato non è figlio di nessuno, ma è semplicemente chiamato “il nuovo”. La frugale esistenza che conducono è divisa tra il sostentamento fisico e la dimostrazione degli affetti, mentre la promiscuità sessuale è un termine che rivela soprattutto il pregiudizio moderno: «Dobbiamo trovare del cibo […] e dobbiamo fare l’amore». Il desiderio è semplice e naturale come la fame, e anche l’accoppiamento è descritto come il gioco tra due fanciulli e non come un rapporto ferino.

Nel luogo in cui il popolo è emigrato dopo l’inverno trascorso lungo la costa, si conduce una vita serena, essenzialmente statica, senza imprevisti. È, a tutti gli effetti, la loro casa e non vi è spazio per alcuna eccitazione a meno che non sia provocata da un agente esterno come un disastro naturale o un attacco da parte di animali feroci. Da alcune annotazioni si scopre che i membri rimasti della tribù sono i pochi sopravvissuti a un grande fuoco, un incendio dagli echi biblici che, come nel precedente romanzo, ha completamente devastato la foresta. Tra loro non vi è rancore o insofferenza, tutto il male che hanno subìto è sempre derivato da qualcosa di alieno e, fino all’arrivo dei nuovi uomini, la loro routine quotidiana non rivela alcun vero interesse dal punto di vista narrativo.

Il gruppo, composto da Lok, Fa, Liku, Ha, Nil e il nuovo nato, è guidato da Mal, l’indiscusso e anziano leader, che è anche il custode della tradizione. Pur rappresentando la mente più brillante della tribù, al contempo costituisce il segno evidente della loro intrinseca fragilità: «Iniziarono inoltre ad accorgersi della sua debolezza, anche se non si erano ancora resi conto di quanto fosse profonda». In lui è presente una natura paradossale, l’ombra della grandezza passata che lascia spazio a evidenti limiti dalle conseguenze nefaste.

Accanto a lui, in qualità di guida, vi è la vecchia donna, guardiana del fuoco – un elemento attorniato da un alone di preziosità e mistero – e sacerdotessa di Oa, la divinità che rappresenta la madre terra. L’idea più profonda che il popolo conserva della vita è che sia una continua creazione femminile, così come la memoria del disastro passato non è legata ad alcuna colpa, ma la perdita è vissuta come pura conseguenza di un fenomeno naturale. Oa è una madre benigna che ha partorito la terra dal suo ventre e, allargando le braccia e facendo rinascere nuovamente la natura dopo il letargo invernale, predispone tutto per i suoi protetti, regalando ai neandertaliani l’impressione che «tutto abbia aspettato loro, che Oa li abbia aspettati».

Se il governo assume una dimensione patriarcale, la religione dei neandertaliani è eminentemente matriarcale e la visione animista della natura è in stretta connessione con il lento e calmo scorrere della vita nel mondo, la casa del popolo, e in loro stessi. Nel tentativo di trasferire una storia precristiana in termini etici riferibili al cristianesimo, Golding capovolge l’assunto del Dio paterno della Bibbia, consapevole che la donna nella condizione primitiva era fondamentale per continuare la linea genetica: «Fino a quando c’era una donna c’era la vita». Nel nome scelto per la divinità si scorge la volontaria inversione del classico epiteto del Cristo, l’Alpha e l’Omega: poiché il popolo non ha chiara coscienza dello trascorrere del tempo e della causalità, Oa diviene la fine dell’inizio, l’Omega e l’Alpha.

Connesso al tema della natura è anche l’episodio della morte e della sepoltura di Mal, colto da febbri e tremori dopo essere caduto nell’acqua gelata del fiume. L’evento è accettato da tutti come qualcosa di naturale e, dunque, di intimamente positivo, non legato ad alcun peccato o colpa. Lo scomparso torna nel grembo della divinità, nella «calda terra presso il fuoco», e i bambini che giocano felici vicino alla tomba sono segno di un’innocenza che, anche nel confronto con la morte, non viene meno.

L’unica idea di male che il popolo possiede è associata alla violenza. I neandertaliani sono naturalmente non belligeranti e mangiano carne solamente se l’animale è stato ucciso per cause naturali o se vittima dell’attacco di un altro predatore. Quando i protagonisti entrano in conflitto con i Sapiens percepiscono una sensazione strana, innaturale e anche il linguaggio si carica di sgomento. La loro fame non è la violenta brama di sangue dei cacciatori de Il Signore delle Mosche, ma è solamente un istinto, un bisogno: «Il popolo era magro per la fame e loro dovevano mangiare. Non amavano il sapore della carne ma dovevano mangiare».

I neandertaliani godono dunque di una stabilità paradisiaca, di un’armonia senza tempo che induce Fa ad esclamare: «Oggi è come ieri e domani». La sentenza, un aforisma che racchiude la loro filosofia esistenziale e che rimanda a un forte senso di protezione, è anche un sarcastico presagio dell’imminente fine del popolo per mano dei nuovi arrivati.

La caduta

La descrizione dell’uomo naturale scaturita dalla penna di Golding è sicuramente affascinante, ma ancora più coinvolgente è il racconto del processo che porta alla disgregazione e all’annientamento della tribù dei Neanderthal.

Già nelle prime battute del romanzo si scopre che i neandertaliani, su errato consiglio di Mal, sono emigrati troppo presto nell’entroterra e i ghiacci non si sono ancora sciolti. Le stagioni stanno dunque mutando e anche loro, a prescindere dall’arrivo dei Sapiens, iniziano a cambiare maturando i primi segni d’intelligenza; ad esempio, Fa ha una prima chiara intuizione del processo agricolo: «Ho un’immagine. Il cibo buono sta crescendo». Naturalmente «on la nostra coscienza moderna siamo dalla parte di Fa, dalla parte del progresso, avversi al conservatorismo di Lok che, se paragonato alla ragazza, denuncia una certa lentezza d’intuito: la sua è ancora la solarità di chi vive costantemente nel presente. La vecchia donna, consapevole che l’innocenza dipende dai limiti della coscienza, non vede di buon occhio quel cambiamento di cui, acutamente, scorge i primi segni, così come nota con dispiacere gli indizi di una crescente instabilità delle relazioni tra i membri del gruppo.

Golding, con singolare intuizione, decide di sospendere, ancora per qualche capitolo, l’incontro tra i neandertaliani e i nuovi uomini. L’azione tragica è posta fuori scena e l’improvvisa sparizione di Ha è solo il primo passo verso la dissoluzione della tribù. Sebbene Lok percepisca la presenza di qualcun altro, per il momento non vi è alcun contatto, ma solo osservazione a distanza: «C’era del fumo sull’isola, c’era un altro uomo sull’isola». Chi legge inizia a comprendere che qualcosa di terribile è accaduto, ma non è ancora in grado di decifrare appieno le parole colme di ansia e paura di Fa: è la chiara indicazione della determinazione di Golding di prevenire un giudizio del lettore fino a che l’esperienza dei due tipi umani sia conclusa, fino a quando non si conosca tutto ciò che è necessario per un giudizio totalmente compassionevole.

Nuovi segni inquietanti sconvolgono i neandertaliani, e il tronco che usano come ponte per attraversare il fiume viene distrutto dai Sapiens per ben due volte. Poi, all’improvviso, la situazione precipita. Mentre Lok è lontano dal gruppo per procacciarsi del cibo, i nuovi uomini attaccano i Neanderthal e li sterminano. Liku, una giovane ragazza, e il neonato vengono invece rapiti e portati all’accampamento degli aggressori sull’isola. Fa è l’unica sopravvissuta e, dopo essersi congiunta con Lok, i due decidono di seguire le orme dei prigionieri per andare a liberarli. Nelle tracce, un misto di latte e sangue, ritorna nuovamente il tema della perdita della purezza e del sopraggiungere del male. Lo stupore che prova Lok quando gli viene scagliata contro una freccia ricorda poi l’impossibilità per l’innocente di sperare nella continuità: ormai la caccia è aperta e l’adattamento è l’unica strategia per sopravvivere. L’incubo si fa definitivamente largo quando Lok e Fa scorgono il cadavere della vecchia donna nei pressi del fiume – la saggezza antica che soccombe al male moderno – e, colti dalla paura, non trovano altra soluzione che osservare i nuovi uomini nascosti sulla cima di un albero morto che già di per sé rappresenta un simbolo teologico “realistico”.

L’ingresso dell’omicidio nel mondo è il punto di svolta, ciò che toglie dai loro occhi ogni traccia residua di inconsapevolezza. La cascata, l’acqua fredda e profonda del fiume e il fuoco sono infatti segni di una distruttività irreversibile che è giunta nella realtà come le iene che, nel frattempo, dissacrano la tomba di Mal. L’unità e il senso di comunità appartengono ormai al passato, sono lo spettro di un’umanità che non esiste più. Anche Lok, in un certo senso, non è più lo stesso e, nonostante quanto accaduto, mostra addirittura una sorta di combattuta attrazione nei confronti dei Sapiens: «Le altre persone con le loro molte immagini erano come l’acqua che incute timore ma, allo stesso tempo, sfida e invita l’uomo ad avvicinarsi. Era oscuramente consapevole di questa ammirazione indefinibile».

Solo dopo aver narrato lo sconforto dei neandertaliani, Golding passa alla descrizione dei Sapiens. La scena, che occupa quasi un quarto del romanzo, è quella a cui assistono Lok e Fa dal loro nascondiglio. Lo spettacolo che si mostra ai loro occhi è paragonabile a un girone dantesco in cui si alternano grotteschi esempi di ogni vizio umano come lussuria, crudeltà e cannibalismo, un’amara dimostrazione dei benefici di un’intelligenza simile alla nostra.

A differenza dai Neanderthal, i Sapiens indossano dei vestiti – segno di una natura percepita come estranea e da cui bisogna difendersi – e il taglio dei capelli mostra un’individualità spiccata, il desiderio di distinguersi dagli altri. Allo stesso modo gli occhi piccoli e scuri, le orecchie minute e le narici strette sono indicatori di sensi meno sviluppati, e i denti, che ricordano quelli del lupo, contribuiscono a gettare su di loro un’ombra sinistra. I nuovi arrivati, intelligenti e inventivi, costruiscono ripari contro il mondo, creano una staccionata come fortificazione, hanno delle sentinelle armate e usano manufatti offensivi come lance e coltelli. Il loro individualismo li rende spaventati, avari e orgogliosi; l’oro con cui i neandertaliani giocano incuranti viene impiegato dai Sapiens come ornamento e ad esso si accompagna un forte senso di proprietà.

Il quadro d’insieme potrebbe portare il lettore alla convinzione che i nuovi uomini possano costituire una comunità sul modello di quella estinta dei Neanderthal, ma le differenze tra i due gruppi sono troppo profonde: Tuami, l’intellettuale, si considera migliore degli altri, così come l’intera società è governata dagli uomini, mentre le donne sono reputate inferiori. La sessualità, violenta e animale, fa il paio con il liquore e con l’ebrezza di cui, più avanti, cadono preda anche Lok e Fa. La ragazza, spettatrice di tale dissoluzione, sempre più consapevole della differenza antropologica che li divide dai nuovi arrivati, commenta perentoriamente: «Oa non li ha generati dal suo ventre».

Anche la religione dei Sapiens è distante da quella dei neandertaliani poiché non più fondata sulla natura e la concordia, ma sulla paura e la politica della forza; è così diversa da apparire quasi una perversione della fede semplice in Oa. Marlan, lo sciamano del culto totemico del dio-cervo, il cui nome evoca il Merlino arturiano, è in grado di imporre la propria volontà solamente perché la sua figura incute timore. L’insubordinazione è infatti dietro l’angolo e quando i cacciatori tornano all’accampamento a mani vuote, nonostante gli incantesimi di Marlan, l’uomo tenta di addossare le colpe a Lok e Fa, dipinti come diavoli e orchi, nel tentativo di scongiurare la propria morte che, comunque, sembra essere solo posticipata di poco.

Nel confronto con l’uomo nuovo i protagonisti soccombono progressivamente. Non si tratta solamente della morte fisica, ma del graduale cambiamento che ha luogo in loro. La difficile situazione in cui sono incappati – con tanto di fallimentare piano per far evadere i prigionieri – li ha trasformati, resi simili ai Sapiens: «All’improvviso Lok scoprì in lui la forza del nuovo popolo. Lui era uno di loro, non c’era niente che avrebbe potuto fare».  Ma Lok e Fa, anche se mangeranno il loro cibo e berranno il loro liquore, non diventeranno mai come i Sapiens e, proprio per questo, incapaci di cogliere le sfumature di un mondo in costante cambiamento, alla fine periranno.

Ma in questa sconfitta germina una coscienza che può essere considerata come lo scarto decisivo del romanzo, un riscatto in extremis per i neandertaliani. Lok coniuga il progresso con la pietà per lo stesso, ma al contempo, pur sinceramente dispiaciuto per il male portato nel mondo dai Sapiens, è consapevole che quella malattia è diventata anche la sua.

Dopo la morte di Fa e la scoperta raccapricciante che il corpo di Liku è stato mangiato durante un’orgia cannibalesca, al protagonista non rimane che rassegnarsi e accettare la sconfitta. Nel mondo moderno non c’è più spazio per uno come lui e, mestamente, dopo aver cercato di entrare nella tomba di Mal, si abbandona a terra per lasciarsi morire, accovacciato in posizione fetale: Oa, come lo ha partorito, ora è pronta a riaccoglierlo come un figlio.

L’ultimo capitolo, con una chiusa imprevedibile degna de Il Signore delle Mosche, getta una nuova luce su quanto narrato nelle precedenti pagine. Abbandonando i panni di Lok, lo sguardo del lettore segue quello del narratore in una distanza che può cogliere l’orrore di una sconvolgente rivelazione. La dinamica cacciatore-preda viene infatti sgretolata mostrando l’amara verità che anche i Sapiens stanno fuggendo da un’altra tribù a cui Marlan aveva in precedenza sottratto una bellissima fanciulla. È l’estremo e disperato tentativo di allontanare da loro il male, di scappare dai peccati commessi e dai sensi di colpa che li perseguitano: «Liku! […] Quello è il nome del demone». Lontano, all’orizzonte, tutto ciò che rimane è un’inquietante linea d’ombra di cui non si scorge la fine.

In un delicato gioco di trame e riferimenti, di azioni e personaggi, Il destino degli eredi si sviluppa attorno all’asserzione di fondo che la crescita è diminuzione.

Inoltre, tra le righe, compaiono echi del Conrad di Cuore di tenebra, in particolare nella denuncia spietata di una pretesa superiorità dell’uomo nuovo. Parimenti le Baccanti di Euripide è una tragedia che offre allo scrittore inglese indicazioni preziose per narrare la sconfitta della società a partire dalla sconfitta della natura umana.

Ciononostante il libro che più fedelmente rispecchia la filosofia de Il destino degli eredi è forse I diavoli di Loudun di Aldous Huxley dove, in un passaggio, si sostiene: «Noi siamo nati con il peccato originale; ma siamo nati anche con la virtù originale, con una capacità di Grazia, […] una scintilla, un punto fine dell’anima, un frammento di coscienza non ancora caduto, che sopravvive dallo stato di primaria innocenza». Nella visione complessiva del romanzo di Golding, con netto margine rispetto alla prova precedente, il peccato – che si accompagna alla satira della moderna concezione del progresso – è trattato non come qualcosa di esclusivo e totalizzante, ma, al contrario, è possibile intravedere una traccia positiva simboleggiata da quel neonato che i Sapiens rapiscono e che, verosimilmente, cresceranno come un membro del loro gruppo. Golding non considera la condizione moderna senza speranza, ma nel puntare l’indice contro gli aspetti più nefasti e inquietanti dell’umanità lascia la porta aperta a una possibile via di fuga, quella salvezza che è mancata ai giovani naufraghi de Il Signore delle Mosche. Al di là della facile tentazione di interpretare il puer in un senso troppo marcatamente cristiano per la sensibilità dello scrittore inglese, più in generale simili considerazioni in relazione al processo evolutivo e alle possibilità a esso connesse mostrano punti di contatto con la teologia di Teilhard de Chardin.

Il destino degli eredi, paradossalmente, è dunque soprattutto un libro sulla speranza, una storia che, oltre il peccato, il male e la violenza di cui gli esseri umani sono capaci, coglie per primo quella riconciliazione degli opposti che diventò, almeno per i romanzi immediatamente successivi, il termine principale della ricerca narrativa di Golding. Oltre il buio che avvolge il mondo, forse una luce esiste.

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