Nel 1898, a causa di un articolo sprezzante pubblicato su L’Osservatore Cattolico nei confronti del governo liberale per le profonde ingiustizie sociali da questo provocate, il sacerdote e giornalista cattolico intransigente don Davide Albertario (1846 – 1902) fu incarcerato per oltre un anno come nemico dello Stato in quanto ritenuto colpevole di aver fomentato i moti di Milano. Don Albertario subirà una reclusione durissima da cui uscirà soltanto con un indulto nel maggio del 1899; la salute ne risultò compromessa a tal punto da causare il suo decesso due anni dopo.
Qui vi proponiamo una sua lettera che il sacerdote indirizzò, nell’Epifania del 1898, ai seminaristi e agli ex-compagni del Seminario Maggiore di Milano.
Con prosa ispirata e toccante, don Albertario confessa ai suoi vecchi amici le amarezze della prigione, sommate alle infamie che la stampa avversa diffonde nei suoi confronti.
Allo stesso tempo però, animato dalla consapevolezza di star combattendo per la santa causa del Vangelo, incoraggia pieno di zelo e commozione i giovani seminaristi di Milano che già lo vedono come un eroe della Fede e della causa cattolica in Italia, quale è senza dubbio stato.
Una lettura con cui ispirarsi in questo tempo di Natale.
A cura di Lorenzo Roselli
RECLUSORIO DI FINALBORGO (SV)
Lettera del detenuto politico Sacerdote Davide Albertario
Lì 6 gennaio 1898, Epifania.
REVERENDI SIGNORI E COMPAGNI DI SEMINARIO.
La vostra lettera del 27 dicembre, consegnatami il 30, mi è giunta in uno dei più tristi momenti di questa serie ininterrotta di afflizioni, aumentate ora ineffabilmente di intensità.
Mi dite: “sappiamo che ella ci ama; non possiamo esternarle tutto il nostro affetto; preghiamo per lei e partecipiamo alle sue pene” concludete: “oh, per Cristo si può ben passare il Natale in carcere!”
Il fatto di sentire voi in voi stessi che v’amo e di essermene grati, mi dà la misura dell’affetto vostro; la preghiera è dell’amicizia vostra la più ambita manifestazione; il giudizio che date delle mie angustie come di un’immolazione a Cristo, mi sublima e mi circonda l’anima di splendori giocondi e di sorrisi d’angeli.
Non potevate dunque, o carissimi, dirmi cose migliori; grande e cortese è il vostro affetto; chiara e benefica ne è la manifestazione; onorifica e consolante l’origine e la base; santo il termine, poiché voi mi confortate a rendermi degno di affetto e di stima col sostenere per la gloria del Salvatore l’aspra lotta.
Davvero, ottimi giovani; la convinzione che mi esprimente con le parole “per Cristo si può passare il Natale in carcere!” mi reca dolcissimo sollievo.
Che dovrebbe importare a me del giudizio degli uomini, quando sicura è la mia coscienza e mi è propizia la testimonianza del Capo della Chiesa e dei miei superiori più vicini?
Eppure gli avvilimenti ai quali sono stato sottoposto sono così gravi e deprimenti, da tenermi sveglio, incessante nell’animo il timore non forse alcuno, delle cose ignaro e credulo, mi addebiti colpe disonoranti in me l’uomo, il cittadino, il sacerdote.
Non tutti, come voi, si sentono liberi da certe ipocrisie che talvolta assumono le parvenze e le pose di profonda sagacia; e non in tutti vince il senso della cristiana carità e della giustizia, le quali non si lascino deviare da codarde riflessioni, ma dritte corrono allo sventurato che soffre e gli tendono la mano.
Grazie delle vostra generosa schiettezza; essa non muta attraversando le muraglie del carcere che mi rinchiudono immutato.
Al ringraziamento del cuore, egregi giovani, che cosa aggiungerò?
Possiate compiere libero il ministero divino al quale siete chiamati; sia mite il vostro cielo e siano imbalsamate e salubri le vostre aure; siano la vostra terra feconda e fiorita, e calmo il vostro mare; scorrano sereni e ricchi di virtù, di meriti, di gaudi, i vostri giorni.
Ma se Iddio, come dovete prevedere, permetterà che vi insegua la tribolazione, fate che vi raggiunga sulla via da Dio stesso tracciata e da Lui indicatavi, e sia il contrasto mondano all’opera di Dio e del Suo Vicario che coinvolga e colpisca voi ad essa fedeli, non il contrasto provocato dal capriccio vostro che coinvolga ed offenda l’opera di Cristo e del Suo Vicario.
Al dolcissimo sollievo che mi recate rispondo augurandovi che, poiché è inevitabile il soffrire, soffriate con Dio e per Cristo.
Certamente è duro il patire; sarebbe affermazione vanitosa e ridicola il negare che patire sia patire; io ne ho pianto e ne piango; le angustie fisiche non sono nulla, le morali incombono spaventevoli; però, quanti delicati compensi il Signore avvicina ai patimenti, a lenirli, a renderli tollerabili; a convertirli in gioia vera e intensa!
Gesù vuole che noi si possa dire che con Lui si soffre volentieri.
Non vi torni pertanto lugubre il mio augurio.
Nella pietà soda, nello studio serio, nel proposito di servir Dio com’egli li desidera e di giovare al prossimo nostro, noi eviteremo quelle pene che sole abbattono l’uomo, le pene provenienti dalla colpa (qui ci sono alcune parole censurate dalla Direzione del carcere).
Ho baciato le sbarre di ferro che mi contendono la libertà; tutta la vita nella desolazione del carcere innocente, anziché nel tripudio spensierato e delittuoso.
Pregate Dio per me, affinché questi sentimenti no mai mi si affievoliscano; nella mia cara cappelletta (don Davide Albertario celebrava nella sua stessa cella ogni giorno come dichiara in altre lettere e a questa si riferisce quando parla di “cappelletta”, ndr), romita, deserta, oasi divina in mezzo a questi claustri del dolore; io pregherò per voi, giovani carissimi.
Il saluto dell’ossequio ai vostri Superiori, il saluto dell’affetto e a voi e ai compagni vostri senza eccezioni.
Devotissimo
Prete DAVIDE ALBERTARIO
Tratto dal volume II di Un anno in carcere di Don Davide Albertario, Ufficio dell’Osservatore Cattolico, Milano, 1900, ristampato nel 2002 dal Comune di Filighera.