Presentiamo ai lettori, diviso nelle sue varie parti, il testo dell’intervento video Gerusalemme vista dal Monte degli Ulivi. Uno sguardo sul grande ordine e sul grande disordine tenuto da A. Giacobazzi per il canale “Media” della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Troverete di seguito informazioni più ampie (con fonti, riferimenti e approfondimenti) che per brevità non potevano stare nei filmati. Nel complesso, per la realizzazione del lavoro sono stati utilizzati e citati diversi libri stampati dalle Edizioni Radio Spada, ne elenchiamo di seguito alcuni:

Buona lettura!


VII.

Una delle tentate risposte a queste domande fu quella sionista: gli ebrei «dovevano avere una loro terra», anzi, come presto divenne chiaro, non «una» ma «la» loro terra, identificando con essa la Palestina (le altre opzioni furono progressivamente scartate). L’ipotesi dei sionisti fu accolta con diffidenza tanto dagli assimilati, quanto da ampi settori dell’ebraismo religioso, che vedeva nella ricostituzione della Patria ebraica una trasgressione ai principi che fondavano l’attesa messianica, ancora insoddisfatta.

Tutto questo poneva a lato un’ulteriore, rilevantissima, questione: ovvero quanto, per tornare a Thibon, il sionismo avrebbe dovuto fondarsi per i suoi progetti sull’accettazione dell’antisemitismo, in campo ideologico e pratico. L’idea dell’aliyah, del trasferimento in Eretz Israel, poteva – o addirittura doveva – avere sinergie con il progetto di un’Europa judenrein? Il punto era scottante e dilaniante, produsse una serie di situazioni storiche per cui i sionisti furono accusati di collaborazionismo col nemico dalle stesse comunità ebraiche, valga per tutti il caso dell’accordo di trasferimento dei sionisti tedeschi con la Germania nazionalsocialista, o – in scala minore – quello dei tentativi di dialogo militare della formazione sionista–estremista Lehi (di cui fece parte il futuro premier israeliano Shamir) con le forze dell’Asse, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il sionismo, lo si può ben comprendere alla luce del percorso svolto sin qui, è stato un tentativo di risposta in tempi moderni ad una vecchia domanda a cui l’ebraismo dei secoli precedenti continuava a non dare soluzione.

Vincenzo Pinto affronta il tema ricordando un intervento significativo: «Nel 1995 Anita Shapira, uno dei più noti studiosi israeliani appartenenti alla cosiddetta storiografia dell’establishment, ha posto lucidamente la vessata questione: in che misura il sionismo ha saputo puntellare la sua costruzione identitaria su di un principio negativo (come l’antisemitismo) rispetto a uno positivo (come la rinascita nazionale ebraica)? Paragonato ad altri responsi ebraici all’antisemitismo (l’umanesimo liberale, il bundismo, l’ebraismo riformato), “l’unicità del sionismo sta nell’aver accettato l’assunto basilare antisemita che gli ebrei costituissero un corpo estraneo nella fabbrica nazionale dei popoli europei – un corpo che non poteva mai assimilarsi”»[1].

Del resto alcuni esempi lampanti dell’assunzione e della conseguente manifestazione di elementi tipici della critica antiebraica da parte della cultura sionista sono stati evidenziati magistralmente nel documentario Defamation del regista israeliano Yoav Shamir[2]. In una delle prime scene, intervistando realmente sua nonna (un’ebrea russa la cui famiglia, di forti convinzioni sioniste, si stabilì in Palestina nel XIX secolo), dipinge un quadro chiaro nella sua più pura genuinità:

«“Dicono che è pieno di antisemiti lì fuori”, risposta dell’anziana signora: “Dove? All’estero? Allora perché non vengono qui [in Israele]? […] Stanno aspettando di essere uccisi?”. Domanda del regista: “Perché non vengono?”, risposta: “Beh loro amano i soldi, gli ebrei amano i soldi, gli ebrei sono mascalzoni (crooks) […]. Perché dovrebbero venire qui e lavorare per guadagnare soldi, se possono fare i soldi senza lavorare?”. Nuova domanda: “Non lavorano lì?”, risposta: “Non lavorano, è ciò che sto dicendo”. Yoav Shamir: “Come fanno ad avere soldi se non lavorano?”, “Con gli interessi, prestano soldi con interessi alti… vendono liquori, vino; gli ebrei conoscono questo lavoro discutibile (monkey business)[…]. Credimi io sono una vera ebrea, il denaro non mi acceca […]”. “Ma tu parli come un’antisemita, dicendo che gli ebrei non lavorano, ecc..”. Risposta: “No, niente affatto, se vogliono stare all’estero, stanno forse aspettando l’arrivo di un altro Hitler che li stermini”»[3].

Il tema «dell’antisemitismo nel sionismo», come accennato, non va separato dal resto e soprattutto non è il solo da valutare: c’è tutta la questione – distinta ma connessa – del messianismo incompiuto, un fatto scottante che ancora oggi mantiene su posizioni duramente anti–sioniste alcuni gruppi di ebrei religiosi. Il grande problema è sempre il medesimo, ovvero – dopo il rifiuto del vero Messia – in casa ebraica ogni aspettazione è difettosa: si tratti di quella più tradizionale, o magari di quella atea e progressista che ha portato tanti ebrei ad abbracciare il marxismo[4], in forma di messianismo ideologico, oppure di quella sionista, adattata alla nuova realtà storica.

Si noti: che il presunto Messia sia individuale o collettivo, che sfumi in un sogno strettamente politico o che assuma un orizzonte spirituale, che sia pacifico o violento, la soluzione proposta resta un surrogato, una fragile imitazione del vero Messia – etimologicamente: l’unto, Cristo – che è già venuto.

Nemmeno sarebbe corretto restringere la questione al solo ebraismo, o estenderla semplicemente al mondo islamico in relazione alla complessa figura del Mahdi. Il dilemma – lo si è chiarito fin dalle prime righe – riguarda un aspetto profondo della natura ferita di ogni creatura razionale. Le grandi infatuazioni ideologiche del XIX e XX secolo, del resto, sono per certi aspetti messianismi incompleti, sconclusionati, di ripiego, talvolta mortiferi. Il loro Uomo Nuovo è in realtà vecchissimo e spesso autodistruttivo, oscillante tra un idealismo che rigetta la realtà e la frenetica disponibilità, di fronte alla realtà stessa, a continue mutazioni di ordine tattico: è insomma instabile, nella maniera che Thibon ben descrive. Ciò che si pone fuori dal grande ordine tende in maniera implicita o esplicita al caos, certamente conservando elementi di verità e di bellezza – come abbiamo visto ad esempio per le tracce del dogma trinitario o dell’aspettazione messianica tra i pagani – ma in un contesto che snatura l’ordine sotteso: un ordine che si intravede appena. 

Pur senza correre a conclusioni semplicistiche, quanto descritto ci rende più comprensibile tanto il tutti contro tutti, quanto il tutti con tutti che si è visto nel Vicino Oriente nel corso del ‘900: dal citato accordo di trasferimento Terzo Reich – Federazione sionista tedesca fino al determinante aiuto sovietico alla nascita dello stato israeliano, dal saluto a braccio teso del Gran Mufti di Gerusalemme alle SS bosniache musulmane ai già menzionati tentativi infruttuosi dei sionisti del Lehi verso le potenze dell’Asse. E ci si potrebbe spingere oltre, arrivando a certe relazioni israelo–islamiche e alla vexata questio del ruolo di Tel Aviv nello sviluppo di Hamas, sollevata con la forza della sua testimonianza da Antonio Ferrari sul Corriere della Sera[5]. Un turbinìo politico schizofrenico e violento, che pare corrispondere a quello delle fazioni del clero neomodernista che, persa la bussola della Tradizione, non sa dove vuole andare ma vuole andarci subito.

Val la pena ripetere: «Quando vedo due fratelli snaturati farsi guerra, la mia tristezza non si ferma a quei miserabili, ma risale al Padre comune, che prima di battersi hanno dovuto rinnegare»[6]. Nel turbine dei fatti che legano l’Europa scristianizzata all’Oriente, una nota di fondo si coglie spesso: l’odio per ciò che rappresenta il nemico sembra sopravanzare l’amore per ciò che si difende. La lotta che Thibon denuncia contro l’Unità e contro Dio (l’Essere per sé stesso sussistente) è anche in maniera indiretta un pegno al nulla.

Il nichilismo è compagno quasi inseparabile del grande disordine e produttore di tanti piccoli disordini, nel cuore dei singoli e nelle società: basta un passo fuori dalla Via e già in maniera più o meno manifesta inizia il processo disgregativo. La storia lo mostra con abbondanza: la differenza che corre tra un terrorista salafita che si fa esplodere, da un lato, e gli antichi martiri cristiani, dall’altro, è tangibile. I secondi solo con la grazia di Dio hanno vinto con la morte secoli di persecuzioni.

Si potrà rispondere che tutta la vita su questa terra, in quanto svolta dagli uomini, ha intrinsecamente un componente di caos e una tendenza al compromesso. L’eventuale obiezione sarebbe corretta a condizione di non considerare la rilevanza, l’estensione e la profondità del disordine stesso e di distaccarlo dalle sue reali cause, dal suo contesto, insomma, da tutto quanto si è detto e ancora si potrebbe dire. Certo, le liaisons dangereuses da sole non provano abbastanza e a volte rischiano di provare troppo, ma se ricondotte al loro principio, certamente ci dicono qualcosa. Ovviamente in questo intervento abbiamo analizzato solo qualche sfaccettatura.

Vanno tuttavia evitati facili orgogli. Salvo l’eccezione di Maria Santissima (esente dalla colpa originale), e quelle dei santi che non conobbero peccato, ogni uomo è almeno lambito da questo abisso, a cominciare dal sottoscritto.

D’altro canto, nel trasferire il discorso dal singolo alla storia della politica risulta difficile non notare quanto – al netto delle cadute e delle miserie di questa o di quella persona, di questo o di quel gruppo – sia splendente la civiltà cristiana. Insomma: pare impossibile negare quanto quel grande ordine manifestato all’inizio, abbia mostrato i suoi frutti e di converso come, andando oltre situazioni accidentali, il grande disordine si sia manifestato nelle società che hanno rifiutato o non hanno conosciuto la svolta stessa della storia, ovvero l’Incarnazione di Cristo.


[1] A. Shapira, Anti-Semitism and Zionism, «Modern Judaism», XV, 3, 1995, p. 218, in: Vincenzo Pinto, La dialettica fra antisemitismo e sionismo nel pensiero e nell’opera di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, FreeEbrei, http://www.freeebrei.com/interventi/sionismo-e-antisemitismo-una-concordia-discors. Anche per note seguenti, cfr.: A. Giacobazzi, Anche se non sembra, Edizioni Radio Spada, 2014.

[2] La pellicola fu Best Documentary Feature Film nell’edizione 2009 dell’Asia Pacific Screen Awards.

[3] Le citazioni provengono dal documentario Defamation di Yoav Shamir. Le traduzioni sono di L. Caselli, gruppo LoSai.

[4] L. Copertino, Il confronto con la Gnosi spuria secondo Ennio Innocenti, Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, 2018, p. 57, 366, https://www.ilcovile.it/raccolte/Luigi_Copertino_LaGnosiSpuriaDiEnnioInnocenti.pdf : «Molti ebrei stufi di aspettare un “messia” che avrebbe dovuto condurre, sotto la guida divina, tutti i popoli nella “casa comune di preghiera” a Gerusalemme per inaugurarvi l’era della pace mondiale – messia la cui raffigurazione nel corso dei secoli, all’interno dell’ebraismo, è passata da quella della singola persona a quella del “popolo messianico”, ossia Israele, quale “messia collettivo” – finirono per aderire al comunismo il quale, in fondo, prometteva lo stesso “paradiso in terra”, di felicità universale, contemplato dall’ebraismo postbiblico».

[5] A. Ferrari, Le parole amare di Mubarak (e Rabin) su Hamas e Israele, Video Corriere, 23 maggio 2021 https://video.corriere.it/esteri/vicino-oriente/amara-verita-hamas-fu-creato-israele/d152e248-bb9e-11eb-822f-b2d049d46202#

[6] G. Thibon, Ritorno al reale – Prime e seconde diagnosi di fisiologia sociale, Effedieffe, Milano, 1998, p. 66, 67, 68.


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Immagine in evidenza: Hebron, Picture taken and uploaded by Justin McIntosh,, CC BY 2.0, attraverso Wikimedia Commons