In data odierna Francesco ha dichiarato “Dottore della Chiesa” sant’Ireno di Lione.
Non vogliamo considerare la valenza dell’atto, né intendiamo valutare il fatto in sé. Vogliamo solamente deplorare l’aberrante fine ecumenico dell’atto.
Infatti il grande campione della Chiesa contro le eresie del secolo II, nato a Smirne in Asia per poi esercitare l’episcopato a Lione, viene presentato come colui che, nella sua qualità di “ponte spirituale e teologico tra cristiani orientali e occidentali”, “esprime quella pace che viene dal Signore e che riconcilia, reintegrando nell’unità”.
Colui, la cui dottrina, si augura Bergoglio, “possa incoraggiare sempre più il cammino di tutti i discepoli del Signore verso la piena comunione”.
Ma di che “unità” si parla? Che “unità” è quella che si attribuisce al dottorato di Ireneo?
È quella nota, datale come perpetua da Gesù Cristo, onde “la vera Chiesa si dice Una, – come dice il Catechismo di San Pio X – perché i suoi figli, di qualunque tempo e luogo, sono uniti fra loro nella medesima fede, nel medesimo culto, nella medesima legge e nella partecipazione dei medesimi sacramenti, sotto un medesimo capo visibile, il Romano Pontefice”?
Ovviamente no! Quella di cui si ciancia e che si addebita in modo offensivo al grande Ireneo, è l’unità del documento conciliare “Unitatis redintegratio“, della “Ut unum sint” di Giovanni Paolo II. Un’unità che – è questo il caso della citata enciclica wojtyliana, si spinge fino a chiedere agli scismatici orientali sedicenti ortodossi di dare il loro apporto teologico per riformulare il primato romano (n. 95).
Un unità di là da venire; un unità sorta dall’unione dei “cattolici”, dei protestanti e dei (sedicenti) ortodossi in una comunione, in una “Chiesa” unica che evidentemente non è la Cattolica Apostolica Romana e che con eguale evidenza fu fulminata dalle condanne di tanti pontefici, in particolare Leone XIII e Pio XI.
È questa unità che predicava sant’Ireneo?
Voleva forse sant’Ireneo, come Wojtyla nel 1995, che si riformulasse la dottrina del primato del Vescovo di Roma per fare l’unione con gli orientali scismatici (i cristiani orientali del decreto odierno)?
Nient’affatto! Il grande Padre della Chiesa scriveva il contrario:
«Poiché sarebbe troppo lungo in quest’opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo. Mostrando la tradizione ricevuta dagli Apostoli e la fede annunziata agli uomini che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi confondiamo tutti coloro che in qualunque modo, o per infatuazione, o per vanagloria o per cecità e per errore di pensiero, si riuniscono oltre quello che è giusto. Infatti con questa Chiesa [Romana], in ragione della sua più forte principalità, deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte – essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la tradizione che viene dagli Apostoli» (Adversus haereses, III, 3, 1-2).
Parole che richiamano quelle di un Papa vissuto più di diciassette secoli dopo: “Orbene, in quest’unica Chiesa di Cristo nessuno si trova, nessuno vi resta senza riconoscere e accettare, con l’ubbidienza, la suprema autorità di Pietro e dei suoi legittimi successori. E al Vescovo Romano, come a Sommo Pastore delle anime, non ubbidirono forse gli antenati di coloro che sono annebbiati dagli errori di Fozio e dei riformatori? Purtroppo i figli abbandonarono la casa paterna, ma non per questo essa andò in rovina, sostenuta come era dal continuo aiuto di Dio. Ritornino dunque al Padre comune; e questi, dimenticando le ingiurie già scagliate contro la Sede Apostolica, li riceverà con tutto l’affetto del cuore”.
Sant’Ireneo predicava e predica certamente l’unità, ma l’unità della e nella vera Chiesa di Cristo “che è la Chiesa Santa, Cattolica, Apostolica, Romana” (Pio XII, Mystici Corporis, 29 giugno 1943), non quella di una “una falsa religione cristiana, assai lontana dall’unica Chiesa di Cristo” (Pio XI, Mortalium animos, 6 gennaio 1928), ma assai vicina a quella riconciliazione, a quella reintegrazione a quella piena comunione che sempre più si palesa come indifferentismo agnostico se non ateo.
Stiano dunque attenti tutti i tradizionalisti e i conservatori a non scambiare per gesto di devozione cattolica quello che è il solito sotterfugio modernista per far passare larvato l’errore ecumenico.

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