
di Massimo Micaletti
Vita da gamberi
Qualche tempo fa, parlavo delle amorevoli attenzioni che il nostro legislatore e diversi politici riservano agli animali mentre, simultaneamente, permettono che gli esseri umani concepiti siano fatti a pezzi con l’aborto o manipolati, prodotti, congelati e scartati con la fecondazione artificiale. Si parlava, in particolare, dei cani[1]. Ma ai cani, si sa, tutto è concesso e dovuto: sono pucciosi, gli manca solo la parola, sono il miglior amico dell’uomo e via così, fino al cappottino o alle mise da Babbo Natale. Gli embrioni umani e i feti, poverini, non sono così tenerini, magari attentano alla coscienza di chi per portare il pane a casa li distrugge o li produce e impianta: chissà, il problema è proprio quello, il problema è la pucciosità.
Me ne stavo convincendo, quando mi sono imbattuto in tre notizie che mi hanno costretto a rivedere le mie convinzioni: tre nuove categorie di animali privilegiati che però non sono tenerini ed espressivi come i cagnolini e i gatti[2].
Partiamo da quelli col tasso di pucciosità relativa più alto: i pulcini. I pulcini maschi, si sa, negli allevamenti fanno una pessima fine: bruciati, gassati, triturati, insomma eliminati senza troppi complimenti perché non redditizi rispetto alle femmine. Dato che non è stato ancora provato che esistano pulcini maschi che si percepiscono femmine (questo risolverebbe tutto, no?), il nostro legislatore ha pensato bene di vietare la soppressione dei pulcini maschi dal 2027[3], seguendo le orme di Francia e Germania. Cosa dovranno fare gli allevatori di questi pulcini – che andranno nutriti e curati fino all’età adulta – è un mistero ma non è per nulla difficile immaginare quello che accade quando si costringe un imprenditore a mantenere una risorsa inefficiente.
A metà di questa piccola classifica per tenerosità si collocano i mordaci visoni: come è noto, trattasi di animali da pelliccia e prelevarne il manto è operazione molto violenta e sanguinaria. In Italia, come del resto d’Europa, gli allevamenti di animali da pelliccia sono stati vietati dal dicembre 2021[4] e quelli esistenti, già bloccati dal covid, devono essere smantellati a fronte dell’erogazione di ristori e indennizzi.
Infine, pucciosità solo per animalisti estremi: gamberi, polpi e assimilati. La cottura di questi animali deve avvenire mediante immersione in acqua bollente dell’esemplare ancora vivo, pena il deterioramento della pregiata polpa: anche questo è noto. Forse però non è noto a tutti che in Svizzera e, presto, nel Regno Unito[5] questa tecnica è vietata per non infliggere sofferenze all’animale.
Ora, tutto bellissimo o meno: nessuno gode della sofferenza degli animali, pucciosi o meno che siano; nessuno gode, del pari, della distruzione o penalizzazione di settori produttivi che danno il pane a centinaia di famiglie. Non è questo, però, il punto.
Il punto è che, ancora una volta, si deve constatare che il più piccolo e indifeso degli esseri umani non vale nulla, vale meno di un polpo o di un pulcino. Bollire viva un’aragosta o triturare un pulcino è crudeltà che ripugna alle coscienze della subcultura in cui siamo immersi, mentre per quella stessa subcultura fare a pezzi un essere umano nel grembo di sua madre è una conquista, un diritto, un segno di potere sul proprio destino.
Pronta l’obiezione: “Ma i pulcini, i visoni, i cincillà e i gamberi soffrono!”: perché, il feto no?
Due righe su questo punto. Va premesso che la capacità di provare dolore non è il criterio cardine per ascrivere dignità a un essere vivente, men che meno all’essere umano: ragionando diversamente, si dovrebbe concludere che una persona in anestesia generale non è una persona perché non ha alcuna percezione, tantomeno dolorosa, di quel che le viene fatto onde potrebbe subire qualsiasi trattamento. Ciò detto, va considerato un dato oggettivo: il feto soffre eccome! E’ assodato che con la ventiquattresima settimana la corteccia cerebrale assuma piena funzionalità, onde la capacità di provare dolore c’è tutta[6], fatto salvo un dettaglio: a differenza del bambino, il feto soffre con tutto il corpo simultaneamente. Come per il neonato, infatti, il concepito non ha ancora la capacità di localizzare il dolore, sicché patisce con tutto se stesso. Inoltre, egli non ha i meccanismi di inibizione del dolore, che i bambini acquisiscono diversi anni dopo la nascita: sicché la sua sofferenza è elevatissima, ben superiore a quella che potremmo mai sperimentare noi adulti perché, appunto, il nostro cervello interviene affinché il dolore, pur molto forte, resti sotto soglie sostenibili per il sistema nervoso. E prima delle ventiquattro settimane? Diversi studi situano con certezza l’inizio della possibilità di soffrire del concepito alla quindicesima settimana, nel momento in cui si completa la formazione delle strutture mesodiencefaliche[7]. Gli stessi studi sottolineano: “The pain inhibition mechanisms are not sufficiently developed during intrauterine development, which is another factor leading to increased intensity of pain in the fetus. All this points to the fact that the fetus is extremely sensitive to painful stimuli, and that this fact should be taken into account when performing invasive medical procedures on the fetus. It is necessary to apply adequate analgesia to prevent the suffering of the fetus”. Figurarsi quel che avviene con lo smembramento proprio della procedura abortiva. Ora, se gli scienziati spaccano il capello in quattro in termini di struttura cerebrale restando in dubbio se vi sia sofferenza prima della completa formazione della corteccia cerebrale umana, possiamo solo immaginare quale possa essere la conclusione se si considerano i centri nervosi di un gambero o di un pulcino in termini di complessità. Il solo fatto che un animale risponda a stimoli dolorosi, infatti, non ci dice se e in che misura e in qual modo avverta dolore: si tratta di un’esperienza che non può essere indagata negli stessi termini in cui si indaga la sofferenza umana, per il semplice fatto che si tratta di strutture cerebrali del tutto differenti. Questo, se si vuol restare sugli aspetti biologici del problema, solo a scansare, in due righe, l’obiezione per cui il concepito non soffrirebbe o che gli animali soffrirebbero quanto e come le persone.
Tuttavia, il vero piano su cui affrontare la questione non è il valore della dignità in base alla sofferenza, bensì il valore della sofferenza in base alla dignità: se poniamo persone e animali sullo stesso piano, sarà ben difficile graduare tra il dolore di un feto o di un bambino e quello di un gatto o di un polpo. La dignità dell’essere umano, però, resta non solo superiore bensì pure differente rispetto a ciò che è prerogativa degli animali, pucciosi o meno che siano. Ciò non comporta la tirannia sulle altre creature e sul creato, comporta anzi una precisa assunzione di responsabilità dell’Uomo verso di loro ma, in primis, verso i proprio simili. L’attenzione a gamberi, pulcini e gattini senza considerare i milioni di esseri umani distrutti “a norma di legge” dimostra quanto poco la nostra civiltà si senta responsabile della protezione dei più deboli perché non sa e non vuole riconoscerli. Questa civiltà si è condannata a un’eterna fuga dalla sofferenza perché le ha negato ogni valore, sicché ha un bisogno quasi espiatorio di rimuoverla dall’orizzonte salvando polpi e pulcini o, coerentemente, distruggendo gli esseri umani più indifesi dietro una porta sterile e ben chiusa.
[1] https://www.radiospada.org/2021/11/v-cani/
[2] https://www.radiospada.org/2013/12/prendete-un-gattino/
[3] https://www.greenme.it/informarsi/animali/dal-2026-vietata-uccisione-pulcini/
[4] https://ilmanifesto.it/il-visone-non-e-piu-di-moda-stop-a-tutti-gli-allevamenti-di-animali-da-pelliccia/
[5] https://ilfattoalimentare.it/polpi-aragoste-crostacei-cefalopodi-benessere.html
[6] https://jme.bmj.com/content/46/1/3
[7] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5115678/