di Luca Fumagalli

Continua con questo articolo l’approfondimento sulla vita e le opere dello scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), tra gli autori più interessanti e originali del panorama letterario cattolico del Novecento.

Per i contributi precedenti:

Per chi fosse interessato ad approfondire la figura di G. M. Brown e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.

George Mackay Brown è stato uno degli scrittori scozzesi più autorevoli del secondo Novecento. Nel corso della sua lunga carriera diede alle stampe svariate raccolte di poesie e racconti, nonché romanzi, testi teatrali e saggi di singolare raffinatezza. Nella sua penna scorreva come inchiostro quel cattolicesimo a cui si era convertito nel 1962, poco più che quarantenne, e le Orcadi, dove trascorse tutta la sua vita, furono per lui una costante fonte di ispirazione e lo sfondo di tutte le sue opere.

Alle amate isole Brown dedicò diversi libri, a partire da An Orkney Tapestry (1969), un imprevedibile quanto brillante impasto di storia, letteratura e fede che, tra l’altro, ebbe il merito non secondario di far decollare definitivamente la sua carriera.

Meno noto ma altrettanto interessante è l’agile Portrait of Orkney, pubblicato nel 1981 per i tipi della Hogarth Press, dedicato allo scrittore Edwin Muir e a sua moglie Willa. Qualche anno dopo, più precisamente nel 1988, ne venne approntata una seconda edizione, targata John Murray, che aggiungeva, oltre a una breve carrellata degli artisti e dei poeti migliori delle Orcadi, un capitolo dedicato all’infanzia – il più bello dell’intero volume, in cui un giovanissimo Brown osserva dall’uscio di casa il tran tran quotidiano di Stromness – e sostituiva quello intitolato “Culture” con un altro, “Song and Sing”, più profondo e accattivante.

La prima edizione del volume

Come scrivono Rowena e Brian Murray nel loro Interrogation of Silence, «a differenza di An Orkney Tapestry che prendeva una chiara posizione a favore “dei poeti”, significando con ciò che Brown era maggiormente interessato alla poesia degli avvenimenti piuttosto che ai “fatti”, Portrait of Orkney è più un libro da tavolino, con tutto ciò che questo implica in termini di presentazione e contenuti». Un ruolo fondamentale è infatti svolto anche dal ricco apparato iconografico che comprende le fotografie in bianco e nero di Gunnie Moberg – a sostituzione di quelle di Warner Forman – e i disegni di Erlend Brown, nipote dell’autore.

Per quanto concerne il testo, prosa e poesia si alternano senza soluzione di continuità offrendo a chi legge uno sguardo a tutto tondo sulle isole, sulla loro storia, sul territorio, sul folklore, sugli abitanti, sulla cultura locale e sui principali centri. Alle descrizioni più asciutte e oggettive seguono brani letterari di grande freschezza, spesso rielaborazioni di vicende già narrate altrove da Brown, come la storia del martirio di San Magnus. I versi, invece, riescono efficacemente a condensare in una manciata di parole concetti che altrimenti avrebbero occupato troppo spazio per essere discussi (non va dimenticato che il progetto prevedeva sin dall’inizio un numero limitato di pagine).

Sebbene Maggie Fergusson scriva che il libro non abbia nulla del piglio critico di An Orkney Tapestry – anche se «l’amore di Brown per ciò che lo circonda rimane intatto» –, non sono pochi i passaggi in cui i toni del “bardo di Stromness” si fanno polemici. Ancora una volta, più che il protestantesimo, il bersaglio prediletto è la modernità tout court, intesta non solo come un’eccessiva facilità che toglie il gusto alle cose, ma anche e soprattutto come una forza omologante che tende a riempire di feticci consumistici una vita fondamentalmente vuota, ormai priva di valori e riferimenti stabili.

L’edizione del 1988

Ad esempio, quando si parla della meccanizzazione dell’agricoltura, l’autore non può resistere alla tentazione di soppesarne i pro e i contro: «Dal punto di vista materiale gli abitanti delle Orcadi oggi stanno meglio di quanto lo siano mai stati, sono in buona salute e solitamente vivono a lungo; ma, insieme alla fatica che spacca la schiena, è svanito molto del mistero e della soddisfazione della vita agricola»; più avanti prosegue: «La rivoluzione agricola delle Orcadi è iniziata circa due secoli fa e ha completamente alterato l’aspetto delle isole e la loro prosperità; e forse anche la natura stessa delle persone». Ancora, a proposito delle festività tradizionali: «Abbiamo dovuto abdicare alla gran parte del ricco cerimoniale per giungere al nostro attuale stato di sicurezza e ricchezza. Chi, oggi, rinuncerebbe alla sua macchina, alla sua tv a colori, alle sue vacanze sotto il sole per danzare intorno al fuoco alla viglia di mezza estate o per salutare gli animali alla mattina di Natale con quella lanterna chiamata “luce che scaturisce della morte”?». Pure il linguaggio non sembra immune dallo spirito distruttore moderno – «Tendiamo sempre di più a parlare e a scrivere come computer piuttosto come esseri dotati di immaginazione» – così come fondamentale rimane l’arte di qualità: «Un racconto, una statua o una canzone non sono cose fatte per regalare un momento di fugace piacere alle menti culturalmente superiori; sono assolutamente necessarie per il bene e la salute di una comunità. Senza la buona arte – la visione – un popolo muore».

Ecco perché Portrait of Orkney, pur trattando di un luogo specifico, riesce a trasformarsi in un invito universale a tornare a quel reale fatto di praticità ma anche di ideali, di progresso materiale ma anche di tradizioni, di individui ma anche di collettività: «Noi siamo tutti legati l’uno all’altro e alla totalità dell’umanità, compresi i morti e i non nati, dall’inizio sino a un’imprevedibile fine. Nessun uomo è un’isola». Simili riflessioni non sono frutto di un vago nostalgismo, quanto della consapevolezza, fortemente radicata in Brown, che terra e cielo non siano altro che due piani di una medesima realtà. Perderlo di vista significa condannarsi a un’esistenza di noia e di insoddisfazione.

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Fonte immagine: https://artuk.org/discover/artworks/george-mackay-brown-19211996-94230