Ecco il secondo articolo su Giordano Bruno che, tratto dal quaderno del 4 giugno 1888 de La Civiltà Cattolica, offriamo ai nostri Lettori.
QUI il primo articolo.
Se dall’incostanza d’animo, di propositi e di vita passiamo a quella delle dottrine, tosto apparirà quanto sia stata grande nell’apostata di Nola la sua caratteristica di rivoluzionario per eccellenza. È noto, infatti, com’egli che menava vanto di essere venuto al mondo per combattere la filosofia scolastica, e quasi predestinato a sfatare l’autorità di Aristotele, ebbe la temerità di affermare innanzi al tribunale inquisitorio di Venezia: «Le opere di S. Tommaso ho sempre tenuto appresso di me, lette e studiate e riputatele, e al presente le ho e le tengo molto care … S. Tommaso … ho sempre stimato e amato come l’anima mia». Buffone! E chi non sa che l’Aquinate fu l’ordinatore sommo della scolastica, il gran dottore che col suo peregrino ingegno raccolse e spiegò, con la massima perspicuità, le dottrine del Peripato; insomma colui che le teorie dello Stagirita accettò, modificò, perfezionò come potea fare il principe dei filosofi cristiani? Ci parlano dell’incrollabile fermezza di questo povero sfratato, il quale, per non parlare dei continui plagi fatti a Senofane, a Parmenide e a Democrito, che egli non conobbe per averli studiati, ma per vederli citati da quei grandi pensatori cristiani che con mano poderosa atterrarono tutti gli errori della filosofia pagana, volse tutto il suo ingegno a contraddirsi sfacciatamente, a cambiar di sistemi, colla facilità onde cambiava soggiorno, a mutar idee, pensamenti e dottrine, colla stessa voltabilità con la quale mutava e rimutava di propositi! Laonde tu il vedi ora distinguere Dio dal creato, ed ora immedesimarlo con esso, e ciò a distanza di poche pagine; ora accozzare spropositi, ed ora ripudiarli; ora negar l’ immortalità dell’anima ed ora affermar l’esistenza di una vita futura; ora argomentare in favore della spiritualità dell’anima ed ora con comica gravità dimostrare ch’essa non differisce punto dall’asinina. Bisogna o non aver mai letto o non aver capito le dottrine filosofiche del Nolano, per avere l’impudenza di chiamarlo il massimo e il più sfolgorante dei pensatori, il primo e più grande dei filosofi italiani. Il Bruno pensatore sfolgorante e massimo tra i filosofi ! Egli che insegnò: «la terra, gli astri, i pianeti, e tutte le altre cose naturali hanno anima propria, sono animali, ed hanno un’anima sensitiva, ed anche intellettiva come la nostra e forse più»; egli che ammetteva l’infinità dei corpi e dell’universo»; che asseriva: «molti animali possono avere più ingegno e molto «maggior lume d’intelletto che l’uomo»; che sosteneva che «il corpo dell’uomo non si differenzia punto da quello delle cose stimate senza anima e che nondimeno hanno anima»; che proclamava: « l’anima dell’uomo, in sostanza specifica e generica, non differisce da quella dell’asino, delle mosche, delle «ostriche marine, delle piante, dell’aragna, dei serpenti»; che altrove diceva: «l’anima umana passa nel corpo delle bestie « cavalline, porcine, aquiline, asinine, bovine». Per questi ed altri innumerevoli paradossi egli manifestossi panteista, ateista, materialista, sensista, spiritualista, trasformista, cioè tale, che nella sua intelligenza fermentavano le peggiori dottrine che mai al mondo venissero insegnate, e da lui espresse in un linguaggio altrettanto improprio e scorretto quanto plateale e volgare. Chi leggerà infatti le sue opere, se pure n’avrà il coraggio, s’imbatterà di continuo con asini, cavalli, porci, serpenti, mosche, buoi e simili.
Ben più coraggioso sarebbe chi avesse lo stomaco di leggere le sfacciataggini che s’incontrano in alcune delle sue opere, per mo’ di esempio nel Candelaio, nello Spaccio della bestia trionfante e negli Eroici furori. Viene infatti il rossore, ti si sveglia in cuore una tale indignazione che è impossibile frenarla. I più svergognati pornografi del cinquecento e dell’ottocento, dall’Aretino al Casti, i più lubrici veristi della scuola del Carducci e del Guerrini non dissero mai cose cosi laide, brutali, oscene, come quelle che sgorgarono dalla penna del Nolano. Osiamo anche dire che, sotto alcuni rispetti, non ha avuto ancora chi l’abbia superato, se non forse il Zola in Francia coll’ ultimo de’ suoi romanzi, e il Mantegazza in Italia con qualcuno de’ più lubrici suoi libri. D’altra parte la sua filosofia morale fu tanto lercia, quanto detestabile la sua filosofia speculativa. Insegnava che «per le malattie sono efficaccissimi i numeri cabalistici, i segni negromantici, le ossa dei morti, gl’incantesimi e la magia». Ammetteva che «non vi sono colpe interiori ed oggettive»; che il male e il bene è solo «relativo e si deduce dagli oggetti esterni»; che «Dio si compiace cosi del bene come del male». Professava, strana professione in vero! che il «libero amore e i diritti del senso sullo spirito sono da seguirsi in tutto; che «l’intelletto e la ragione non devono dar legge al senso»; che bisogna «godere della vita presente senza preoccuparsi della futura ed incerta»; che «l’onore non può essere oggettivo»; e che «delle proprie azioni non si deve render conto a Dio». Per ultimo propugnava come cosa onesta e legittima la poligamia; e accanto alle grandi virtù civili e morali poneva il tirannicidio, la magia, la divinazione e gl’incantesimi. Cotalché il Maffei indignato non poté astenersi di accusarlo «d’infamie scellerate» e il Riccoboni «d’insegnamenti che mettono orrore agli uomini onesti»; e prima di loro lo Schopp proclamavalo maestro d’orrende e del tutto orrendissime cose.
Che della rivoluzione avesse il Bruno lo spirito della menzogna, è cosa tanto notoria, che i suoi stessi panegiristi si sono astenuti di purgarnelo. Mentiva come un demonio e per sola voluttà di mentire. Mentì sulla sua condizione sociale, dandosi per discendente di nobile e ricco casato, non essendo che figlio di un povero soldato, da un pio e caritatevole sacerdote suo parente mandato e sovvenuto in Napoli per attendervi agli studii. Mentì affermando esser lui fuggito dal chiostro, per sottrarsi ai mali trattamenti ricevuti dai suoi confratelli ed alle minacce dei suoi superiori; mentre è noto quanta longanimità avessero avuto per lui gli uni, e quanta carità gli altri, che pure del suo ingegno bislacco, del suo carattere fantastico e versipelle e dei suoi modi insolenti ed alteri aveano ragione di essere stanchi e scandolezzati. Mentì coi suoi amici, coi suoi ospiti, e fin con coloro che gli largirono favori da lui non meritati. E agli uni prometteva resipiscenza, agli altri fedeltà e riconoscenza, a tutti poi nascondeva i suoi pravi divisamenti, le sue male opere, le sue furberie. Menti nel suo processo di Venezia; tutto quel processo anzi non fu che un tessuto di menzogne, che da lui oggi inventate, erano da lui stesso smentite il domani. In quest’arte, diabolica se altra fu mai, si può dire che egli sopravvanzasse i più abili avventurieri e Cagliostri che ricordi la storia. Imperocché a forza di menzogne venne a capo di cattivarsi la protezione e i favori di principi, di ministri, di personaggi rispettabilissimi ed anche di ecclesiastici. Ben è vero che l’inganno dei suoi protettori era sempre di breve durata, che la menzogna ha le gambe corte; ma all’esser egli discoperto non badava punto, bastandogli il buon giuoco che gli faceano le menzogne, fosse pure per un giorno o due. Inventava nomi, casi, date, opere, aneddoti, circostanze, che non aveano avuto mai essere, fuorché nel suo ingegno balzano. Falsò per fino documenti, dedicò libri a personaggi chimerici, si fece accreditare da uomini che non l’avevano mai veduto, o non gli aveano mai parlato; prestava loro intenzioni e propositi, detti e sentenze, dottrine e principii che non aveano mai sognati. Ma li sognava egli, e sapevali di tal vernice colorire, che molti vi rimasero ingannati e non pochi riuscirono ad esserne truffati. Quel dabbenuomo di Giovanni Mocenigo, che in Venezia l’ebbe ospite in sua casa, mancò poco non si vedesse involto ancor egli in un processo per le fallacie dell’apostata. Menti finalmente ai suoi giudici in Venezia, dove finse chiedere perdono dei suoi errori, quando, come si vide in Roma, né ritrattar si volle, né pentirsi. Il demone della menzogna, che avealo sino allora ispirato, manifestossi anche a Roma in tutta la sua deformità; perocché anche allora in sua difesa invocò la menzogna, negando sfacciatamente quello che con irrefragabili prove era confermato dalle sue parole, dai suoi scritti e da testimonii, sopra cui non cadeva sospetto che si fossero ingannati o avessero avuta l’intenzion d’ingannare. E vedi sorte riserbata a questo grande operatore di menzogne! Anche oggi la retorica dei suoi panegiristi mostra di avere scelta l’arme della menzogna, per difenderne la memoria, e raccolte tutte le menzogne di tre secoli per fargliene un monumento: Mendacium viro insensato!
Nessuno ci negherà che uno dei caratteri più spiccati della nostra rivoluzione, come di qualunque altra rivoluzione informata dai cosi detti principii dell’89, sia la slealtà: absque foedere, che vuol dire senza fede ai patti giurati. La qual verità non abbisogna di essere con ragionamenti provata, che tutta la storia contemporanea non è che un tessuto di perfidie, di fellonie e di slealtà degne dei secoli barbari e di popoli incivili. Ed uomo sleale fu appunto questo preteso precursore del libero pensiero. Gli uomini che inventarono Poerio, come scrisse Petruccelli della Gattina, che delle geste di un Garibaldi fecero una leggenda, insolentiti dalle loro facili vittorie, hanno creduto di far ora altrettanto con circondare la fronte dell’apostata di Nola coll’aureola della probità! Ma con qual pudore chiamar probo ed onesto chi venne meno agl’impegni giurati a Dio, alla Chiesa e al suo Ordine, per nessun altro motivo che quello di scapestrare più pazzamente pei sentieri del vizio e dell’errore? O che i nomi cambiarono il loro valore, che debbasi tenere per forza di animo e per virtù quella che tutti i secoli chiamarono apostasia? E l’apostasia che altro significa se non defezione, slealtà, mentita fede? Ne ci si dica che a questa defezione egli sia stato tratto dall’amore per la scienza; quest’amore non fu che una chimera, inventata da lui per mascherare un’apostasia al tutto mostruosa, giacché egli era stato raccolto nel convento a mangiare il pane della religione, in servizio della Chiesa e non già per diventarne, come Lutero, lo scandalo e la rovina. E come fu spergiuro con Dio e col suo Ordine, lo fu ugualmente anche coi suoi amici e benefattori, che tutti ricambiò di slealtà, d’infedeltà e di perfidia. Ben sel seppero e Filippo Sidney, e Galeazzo Caracciolo, marchese del Visco, e il Castelnuovo, e il Mocenigo, e lo stesso tribunale di Venezia, al quale avea impegnato la sua parola, che non sarebbe più tornato ad insegnare le ree dottrine che avea disdette, sconfessate e ritrattate, chiamando anche di questo in testimonio Dio e giurando sugli Evangeli. Adulatore egli fu, e dei più smaccati, come la rivoluzione. Questa, e chi nol sa?, per quel vile ed abbietto istinto che ha avuto sempre, mentre spregia i deboli e gl’insulta, è poi tutta adulazioni, lezii e piacenterie verso i potenti e i soperchianti. Quanto incenso non fu bruciato a Napoleone III, allorché questi era ancora all’auge della sua grandezza? Quanto al gran Cancelliere di Germania? Quanto a certi personaggi, pei quali non è ancora venuto il giudizio della posterità? Ma insieme quante villanie, insulti e dispregi non si sono detti in Parlamento e nei giornali contro Pio IX di s. m., e Leone XIII, due delle più nobili e grandi figure del secolo XIX? Ne l’adulazione dei nostri rivoluzionarii ha avuto solo per oggetto imperatori, principi ed uomini di Stato, ma si è estesa ben anco ai piccoli regoli della politica, ai lerci dittatori del pensiero, agli avventurieri del disordine, e a quanti hanno avuto l’audacia di rinnegare il loro battesimo. Or bene, fu anche questo uno dei titoli che resero tanto benemerito della rivoluzione l’apostata di Nola. Si odano le stemperate lodi a Lutero, quando strisciandoglisi ai piedi lo proclama: «Grande sopra tutti gli altri, unico al mondo, massimo dei grandi; redentore della terra corrotta; nuovo Ercole maggiore dell’antico … eroe sfolgorante di luce, chiamato dallo spirito divino, salito al cielo ricoperto e carico di spoglie vittoriose». Leggansi le stomachevoli adulazioni da lui profuse a quel Nerone in gonnella, che fu Elisabetta Tudor: «Non è donna, ma ninfa, diva di sostanza celeste, nume della terra, singolare e rarissima, che a tutto il terrestre globo rendeva chiaro lume. Agli altri scettrati per saggezza e governo, cognizioni di arti, scienze e lingue, superiore. È grande Anfitrite per generosissimo ingegno, meritevole di reggere con intera monarchia, non solo questo, ma tutti gli altri mondi». Di Enrico III Valois, re di Francia, principe d’animo debole, di carattere tentennante e leggiero, di costumi scandalosi, scrisse che era «magnanimo, grande, potente, di generosissimo petto nell’Europa; che con la voce della sua fama, faceva rintronare gli estremi cardini della terra; quando irato fremea, come leone dall’alta spelonca, donava spaventi ed orrori mortali agli altri potenti; scaldava l’orsa gelata, dissolveva il rigore dell’artico deserto, che si aggira sotto la custodia dell’artico Boote!». Come contrapposto alle gravi ingiurie che egli stampò contro il popolo inglese, e alla mordace caricatura dei dottori d’Oxford, ricorderemo qui la lusinghiera dipintura dei cavalieri di Londra. Li dice: «uomini franchi, leali, di bei modi, versati nei buoni studii e tali da stare al paro per gentilezza, col fiore degli Italiani», che secondo lui erano i Napoletani «allevati sotto mitissimo cielo, e in mezzo alla più ridente e ricca natura del mondo». E sapete perché tanto scialo di elogi e di piacenterie? Pei pranzi succulenti imbanditigli da questi. Tralasciamo, per non istancar la pazienza dei nostri lettori, le smaccate lodi profuse a un Walsingham, a un Cecil, a un Dudley, istigatori ed esecutori dei fieri bandi della Semiramide inglese; e tacciamo pure dell’elogio funebre del Duca di Helmstaedt, dove profuse tante e si scempiate adulazioni, da far credere che egli nel dettarle non avesse a segno la testa. Quel che però non puossi tacere è che l’adulazione giunse in lui al punto da parere una mania. Citeremo tra tanti un solo esempio. Che cosa infatti non ci lasciò detto ad encomio di un certo Fabrizio Mordente, salernitano, ed autore di un libro intitolato Compasso o riga? Nella sua bocca il Mordente divenne, nientemeno che «un genio straordinario, un quasi prodigio, uno scrittore da riporre nel numero degli uomini mercuriali, che Dio di tempo in tempo e quando piace a lui manda di lassù per francare i mortali dall’errore e dal vizio, e per dimostrare che la catena dei sommi non è interrotta». Difatti, il Salernitano, a detta di lui, «era il ristauratore delle arti meccaniche cadute, il perfezionatore delle mutile ed imperfette, l’autore di trovati divini, un uomo di quelli che gli Dei comandano sia encomiato e celebrato in tutto il mondo, che i futuri geometri avrebbero levato sino alle stelle, e la casa del quale, non che Salerno sua patria, verrebbero in maggiore nominanza del curioso Egitto, della magniloquente Grecia, dell’operosa Persia, e della sottile Arabia». Tant’olio per un cavolo! O rivoluzionarii italiani, come non vi accorgete che adulando il Nolano diventate ben più ridicoli di lui?
QUI altri articoli su Giordano Bruno.
Seguite Radio Spada su:
- Telegram: https://t.me/Radiospada;
- Gloria.tv: https://gloria.tv/Radio%20Spada;
- Instagram: https://instagram.com/radiospada;
- Twitter: https://twitter.com/RadioSpada;
- YouTube: https://youtube.com/user/radiospada;
- Facebook: https://facebook.com/radiospadasocial;
- VK: https://vk.com/radiospada.