Ecco l’ultima parte degli articoli di Civiltà Cattolica (del 6 giugno 1888!) sulla “brunomania” un fenomeno iniziato nell’Ottocento e che ancora attossica l’aria con una caterva di menzogne su un mostro di brutture spacciato per mostro di scienza.

La rivoluzione, lasciò scritto quel profondo pensatore che fu il De Maistre, è satanica; e Satana è il demone della distruzione. Essa somiglia al cavallo di Attila; dovunque passa fa il deserto. Questo maligno istinto di distruggere le è cosi insito, la caratterizza e distingue per forma, che a volerla tradurre in marmo le si dovrebbe armare la destra di un martello. Di fatto, in un quarto di secolo, quante rovine non ha saputo accumulare in Italia ? quante istituzioni non ha demolite! quanto vuoto non ha lasciato per tutto? Che cosa invece ha saputo edificare? Le opere per essa distrutte, da quali altre opere sono state sostituite? Ci domandiamo spesso: e quando smetterà di demolire? quando avrà demolito sé stessa! Cosiffatto fu l’istinto di Giordano Bruno, vero inventore e disinventore del nulla. Coloro dunque che lo acclamano un eroe del pensiero, un araldo della nuova filosofia, il fondatore di un nuovo ordine di cose, mentiscono impudentemente. Lasciando stare che egli non fece nulla di grande, che nulla inventò di nuovo, che non diede alcun impulso al suo secolo, che non iscoprì alcun nuovo orizzonte all’umano pensiero; quel poco stesso che egli scrisse, che insegnò, che strombetto ai quattro venti, dà mostra di una tal qualità sovversiva, dissolvente, deleteria, che è impossibile credere aver lui avuto in mente l’idea che gli si attribuisce, di creare una nuova filosofia, ovvero un corpo di dottrina che avesse l’aria di serio ragionamento. L’orgoglio che dominavalo e gli facea credere di essere un nuovo Diogene, autore di dottrine divine, chiamato dagli Dei a trionfare dell’universale ignoranza, trascinavalo a cadere in continui falli di logica, in paralogismi, ed in assurdi e paradossi impossibili a dirsi. Tutta la sua dottrina, ammesso che debba cosi chiamarsi, il suo tentativo di abbattere l’aristotelismo, non è che un ammasso di opinioni pazze, e di bestemmie atroci. L’opinione ateistica da lui proclamata come il non plus ultra della filosofia, sorpassa il cumulo di tutte le stravaganze, è la più mostruosa ipotesi che uomo possa immaginare, la più assurda e diametralmente opposta alle nozioni più evidenti dello spirito umano. Quell’infinità della natura e quella coincidenza dei contrarii nell’uno, che cosa sono? Due assurdi. V’è fondamento di credere che il senso delle sue dottrine neppure da lui stesso era inteso. Laonde non dissero cosa lontana dal vero coloro i quali, come il Tiraboschi, l’Andres, il Mazzuchelli, il Barbieri, il Comploy, il Cantù, il Lolli e cent’altri chiamaronlo «ateo deciso ed ardito, apostolo di dottrine « orrende ed assurdissime; fantastico e stravagante come un isterico; nei suoi ragionamenti ostinatissimo seguace di eresie, bestemmie, stravaganze inintelligibili e temerità scandalose agli stessi protestanti; uomo, che andò sgarrando in dogmi e speculazioni per l’audace immaginazione e pel suo sistema dell’assoluta unità e del panteismo obbiettivo più smaccato, e sostenne tutte le abominazioni, che mai ponessero innanzi i falsi sofi del paganesimo e gli eretici antichi e moderni: e dissennato professò una filosofia che è la negazione d’ogni filosofia. » Sommato tutto, il Bruno non fu che un demolitore. Fortunatamente la sua opera di demolizione non ebbe né efficacia, né durata. E sotto questo rispetto si mostrò infinitamente da meno di tutti i demolitori che da 18 secoli rammenti la storia.

E ve n’ebbero in gran numero nel Cristianesimo, e chi transfuga dal Santuario e chi disertore dal Chiostro, pochi venuti fuori dal laicato, come il Voltaire e i suoi seguaci nel secolo andato, e i socialisti nel nostro. Grandi e formidabili demolitori furono costoro, che usurparono il nome di riformatori, per meglio nascondere il loro bieco intendimento d’innovare e distruggere. E l’uno che chiamossi Ario, diede una si terribile scossa al Cristianesimo che sarebbe crollato, se non fosse stato opera di un Dio: poté però ottener questo, l’eresiarca, che per un momento il mondo cristiano parve converso alla sua dottrina. Il Bruno invece non converti un solo alle dottrine di cui si fece banditore. Suscitò contradditori, destò dispute interminabili, si attirò persecuzioni ben meritate; mise in iscompiglio scuole, università, accademie, ma per non raccoglierne altro frutto che disistima, odii e dispregi. Chi oserebbe oggidì, in tanto fanatismo bruniano, paragonare l’apostata di Nola coll’apostata di Wittemberg? Che cosa diventa il Bruno messo alla stregua di Lutero? Costui almeno venne a capo di accendere in Europa quel vasto incendio che dura ancora e di dare il suo nome ad una rivoluzione religiosa, dal seno della quale venne fuori quel doppio sovvertimento morale e politico che è il carattere vero della Riforma. Il Nolano sebbene per istinto, sovvertitore del bello, del vero e del buono, non approdò che a lasciare il tempo che avea trovato. Fra Martino trovò una formola in cui sintetizzò la sua guerra al Cristianesimo Cattolico, e fu quella del giudizio privato e della Bibbia come regole di fede. Ma qual è la formola che riassume i concetti e le dottrine di Fra Giordano? E quando dico dottrine, è per forma di dire; ché dottrine propriamente sue, frutto del suo cervello, portato dei suoi studii, non ne esistono. Ridicolo nel credersi superiore a tutti i filosofi, non fece che copiarli meschinamente. Gli mancava per altro, come si disse in principio, quella sostanza che è necessaria per dare stabilità ai proprii pensamenti. Il suo stesso metodo di ragionare era strampalato e paradossastico, aggressivo, provocante il tumulto. Chi gli tien dietro non dura fatica a scorgere in lui un uomo che procede a sbalzi, che va alla scapestrata, che salta di palo in frasca, che sparpaglia le sue forze, e non viene mai a capo di dimostrare il suo assunto. Paragoniamolo al Voltaire, senza del quale la rivoluzione dell’89 o sarebbe stata ritardata di un secolo, o non sarebbe mai accaduta. I suoi lazzi, i suoi frizzi, e l’audacia delle sue bestemmie gli acquistarono una riputazione così scellerata e un si formidabile potere, da far tremare anche i despoti del suo tempo. Ebbene, lazzi, frizzi, ironie, ingiurie, villanie, parole da trivio e da chiasso ne lanciò anche il Bruno in tanta copia contro i suoi avversarii, da poterne riempire un volume; ma eran frecce spuntate, e per lo più si mal dirette, da provocare le risa dei suoi uditori, e farlo credere un matto.

I sicofanti degli atenei italiani, dal Marselli in quel di Torino allo Schiattarelli in quel di Palermo, han voluto gabellarcelo come un grande filosofo. Sfidiamo tutti questi signori a volerci dire qual fu la specie della filosofia brunoniana. Il Nolano fu panteista, fu ateista, fu deista, fu sensista, fu materialista, fu spiritualista? A rigor di termini, non fu nulla di tutto questo, e fu tutto questo; vo’ dire che professò tutte codeste insanie, ma per modo che non saprebbesi indovinare a quale di esse tenesse più, a quale meno. La sua dottrina filosofica è un centone, un guazzabuglio, un vero caos, ove gl’informi concetti fanno a cozzi tra loro è non riescono a costituirsi in un tutto omogeneo. Quanti e prima di lui e dopo di lui ripudiarono le nobili e grandi tradizioni della filosofia cristiana, per metter su una nuova filosofia, cercarono almeno di dare alle lor novità filosofiche, una base, una formola, un centro; crearono sistemi, metodi, scuole. E il Bacone venne fuori collo sperimentalismo, il Locke col sensismo, il Kant col razionalismo, il Reid col senso comune, il Malebranche colla visione in Dio, il Lamennais col tradizionalismo, il Compte col positivismo. Qual è il sistema che caratterizza la filosofia di Giordano Bruno? Un bravo di cuore a chi ce lo saprà dire. Il Cartesio almeno inventò la formola somigliante a un bisticcio, dell’Io penso, dunque io sono; il Gioberti, l’ente crea l’esistente, e cosi via via. Ci siamo torturati l’ingegno a scoprire, negli scritti filosofici del Nolano, una formola, un detto in cui s’impernino le sue disquisizioni filosofiche e non abbiamo trovato nulla di nulla, o, per essere più giusti, vi abbiamo rinvenuto le tracce di tutti gli errori più grossolani insegnati dai filosofi di Grecia e di Alessandria, e qualche vestigio del neoplatonismo del rinascimento: e Questo è tutto. Se qualche barlume di verità scopri qua e colà nei suoi libri, è da attribuirsi a questo, che nella sua mente sopravvivevano ancora le reminiscenze degl’insegnamenti ricevuti da Vincenzo Colle da Sarno e da Teofilo da Varrano, suoi primi maestri in Napoli; né erano andate del tutto spente quelle di S. Domenico Maggiore, ove alla Scuola del Convento i maestri dell’Ordine domenicano gli aveano messo sotto gli occhi i tesori di quella mente angelica, che fu Tommaso d’Aquino. Ciò spiega, perché in alcuni punti, sebbene rarissimi, l’apostata si trovi in contraddizione con sé stesso e ti lasci incerto se egli sia un ateo o un credente, un tomista ovvero un discepolo di Democrito e di Epicuro!

Fin qui la sua omogeneità colla rivoluzione ci spiega abbastanza tutto questo sì gran tramestio e rimescolamento di maestri e scolari, di politicanti moderati e di politicanti demagoghi attorno al suo nome, sino a pochi anni addietro obliterato e dimentico. In tanta sterilità presente di pensatori patriottici nel senso massonico, v’era bisogno evocarne uno del passato, e si gittarono gli occhi sopra Giordano Bruno. Ma se mai fuvvi scelta fatta senza criterio è appunto codesta; perché considerato bene l’uomo dal lato dell’interesse italiano, comunque inteso, niuno demeritò tanto della sua patria, quanto lui. Un illustre storico contemporaneo ha fatto osservare non ritrovarsi nelle memorie e negli scritti dell’apostata di Nola né prova né traccia alcuna di amore e di stima per l’Italia e per gl’Italiani. Per la qual cosa il Bruno, non che lode, o almeno benigna dimenticanza, merita invece acerba ed eterna ignominia da coloro segnatamente, i quali ora menano continuo vanto d’amor per l’Italia, di premura affettuosa pel popolo, d’animo nobilmente forte dinanzi ai potenti. Cosa incredibile se non fosse vera! Il Bruno, pel quale i patriotti più sviscerati hanno tanto incenso bruciato, quanta non si è apprestata polvere per vendicare l’eccidio di Dogali, non solo non si diè mai pensiero degl’Italiani, non solo non disse mai verbo per difenderli, quando ne avrebbe avuto l’occasione e il dovere; ma l’Italia non ricordò nei suoi scritti che per sentirne dispetto e per farle oltraggio. Omettiamo che procurò di nuocere alla sua patria, col trapiantare presso noi gli errori di eretici stranieri, di oscurare così le somme glorie nostre, e di soggettare gli animi dei suoi concittadini ad anglicani e tedeschi; ma noi sfidiamo tutt’i suoi apologisti e tutta la turba di scioli imberbi che fanno tanto chiasso perché gli sia eretto un monumento, a trovarci nei suoi scritti una lode minima che sia per la patria nostra. Per converso, contro la gloria che alla nostra Italia invidiano tutte le nazioni, il Papato, ecco come inveisce, cercando di ricoprirla di vitupero, dinanzi ai professori di Wittemberga: «Esso (cioè il Papa) è vicario del tiranno dell’inferno; volpe e leone, armato di schiavi e di spade, di astuzie e di forza, di scaltrezza e di « violenza, d’ipocrisia e di crudeltà; uomo che infetta l’universo di un culto superstizioso, di brutale ignoranza; vorace « belva; mostro più potente e pericoloso degli antichi; cerbero « da tre teste, ossia dal triregno, tratto dalle tenebre dell’orco « a vomitare il suo veleno; e nemico spaventevole de’ grandi e dei re». Lutero non eruttò dall’infame sua bocca parole di queste più sagrileghe e scellerate; e Lutero era un tedesco, il Bruno un italiano! Ё uopo confessare che il patriottismo dei suoi encomiasti dev’essere di ben facile contentatura. E come no? Giordano Bruno, che essi chiamano l’araldo del pensiero moderno non fu quegli che cercò d’impicciolire la gloria di Cristoforo Colombo? Non fu egli che nella scoperta del nuovo mondo, fatta da quel grande italiano, non vide altro che la confusione «di quello che la provvida natura distinse?». Non fu egli che chiamò perturbatori della pace altrui, violatori dei patrii genii delle nazioni, i grandi scopritori marittimi; e che, cattivo interprete di Orazio, il quale come poeta, non guardava alla giustezza dei giudizii e ingrandiva con istupenda poesia i mali temuti, senza punto badare ai beni immensi che dalle scoperte marittime son derivati, lanciò contro di essi l’accusa di oppressori, di corruttori, di sanguinarii tiranni ecc. ecc.? Si oda quello che questo pazzo da catena lasciò scritto nella Cena delle ceneri contro lo scoprimento del nuovo mondo i progressi delle scienze, e tutte le grandi invenzioni: «Per il commercio raddoppiarono i difetti e giunsero vizii a vizii de l’una e l’altra generazione, con violenza propagarono nuove follie e piantarono le inaudite pazzie ove non erano, conchiudendosi al fin più saggio quel che è più forte, mostrarono nuovi studii, istrumenti ed arti di tirannizzare ed assassinare l’un l’altro, per mercé dei quali gesti tempo verrà che, avendone quelli a sue male spese imparato, per forza delle vicissitudini delle cose, sapranno o potranno renderci simili e peggior frutti di si perniziose invenzioni».

O ipocriti cortigiani del popolo Sovrano, sentite ora come questo, per antifrasi, grande italiano voleva fosse trattato il popolo, egli che in fondo non era che un figlio del popolo. Nel discorso di commiato tenuto alla presenza dei dottori di Wittemberga, esorta i nobili a schiacciare quei cani e quelle bestie feroci di contadini, i quali contro loro osavano alzar la faccia. Nel suo Spaccio della Bestia trionfante ricambia il popolo della Germania con ogni sorta di villanie; asserisce che «nell’alta e nella bassa Alemagna la gola è esaltata, magnificata, celebrata; glorificata tra le virtù eroiche, e l’ebrietà enumerata tra gli attributi divini». Ed era il popolo, col quale oggi l’Italia ufficiale ha stretto alleanze. Amaro disinganno! Non parliamo dell’italiano che egli chiama «popolo irrispettabile, incivile, rozzo, rustico, selvatico, male allevato, da non cedere ad altra plebe che la terra possa posare nel suo seno». Per mancia alla derrata aggiunge che è «siffatta sentina che, se non fosse bene soppressa dagli altri, manderebbe tal puzzo e si mal fumo, che varrebbe ad offuscare il nome di tutta la plebe intera».

Ma è tempo di venire alla fine; giacché né a noi regge l’animo di rimestare tanto fango, lanciato in viso al popolo italiano, né ai lettori può piacere il linguaggio di un uomo che non conobbe temperanza e misura in nulla, e la cui rabbia canina era si traboccante che non sapresti qual cosa in lui facesse più difetto, se la ragione o il cuore. Una dimanda però, prima di conchiudere. La Brunomania, della quale è oggi invasa non l’Italia, che per due buoni terzi non sa chi sia Giordano Bruno, ma quella parte della gioventù italiana sulla quale sono fondate le migliori speranze della patria, questa brunomania è un fenomeno passeggero, ovvero un sintomo che accenna ad uno stato di cose, per cui siano da temere per l’avvenire mali peggiori dei presenti? Chi lo sa? Una cosa però è per noi evidente, e sfidiamo chi si sia a dimostrarci che c’inganniamo; ed è che la Brunomania è la prova più palpabile della decadenza intellettuale e morale della nostra gioventù studiosa. Come no? Se questa gioventù infatti non fosse tanto intellettualmente e moralmente scaduta, non si vedrebbe lo spettacolo, finora veduto, di professori che hanno dalle pubbliche cattedre dei nostri atenei pronunciati discorsi nei quali il buon senso, la logica. la verità storica, e cosa orribile a dirsi, anche la grammatica è stata manomessa, deturpata, avvilita. E n’ebbero applausi dai loro discepoli, ed applausi tanto più frenetici, quanto furono più madornali gli spropositi di questi oratori, più palese la loro ignoranza e malafede, più sfacciata l’audacia delle loro bestemmie. Non è un sintomo codesto di decadimento intellettuale? Gloria eterna alla gioventù ateniese, della quale leggiamo che fischiava, tutte le volte che un retore o un sofista montava in bigoncia a parlare. La gioventù italiana, invece, plaude e batte le mani a retori che, per accattare popolarità, spropositano orrendamente dalle cattedre di quelle università, donde altra volta partivano ad illuminare l’Europa insegnamenti ed esempii d’ogni civile sapienza. Diciamo inoltre che il decadimento morale della gioventù corre di pari passo col decadimento intellettuale. Di vero, una gioventù che si lascia menare da un pugno di retori o da mestatori che hanno interesse a sviarla dallo studio e da occupazioni più serie, che non sia un monumento ad un apostata, o una bandiera da farla sventolare in qualche solenne ricevimento; questa gioventù che, se non è studiosa, è plebe destinata ad essere il trastullo di tutti gli avventurieri, rincresce il dirlo, dimostra o di avere perduto il senso morale, e però la coscienza dei proprii doveri, o di non capire che la bandiera brunoniana che gli speculatori politici le han messo in mano, è una bandiera indegna di un italiano. Nell’uno o nell’altro caso, chi ci vieta di dire a questa gioventù ingannata e tradita, quel che Dionigi d’Alicarnasso dicea della gioventù dei suoi tempi, chiamandola Dedecus et detrimentum reipublicae?

Un’ultima parola.

Non ci fosse altro, basterebbe la statua scolpita da Ettore Ferrari, per innalzarla in campo di Fiori, a qualificare tutta questa agitazione bruniana, come una vera monomania. Che! Scolpire in cocolla da frate chi più volte ripudiò questa cocolla, e più volte rindossolla per far la commedia, quando gli tornava utile che il mondo credesse lui, proprio lui, sozzo di vizii e maestro di errori, un buon religioso! Ahimè! anche l’arte s’è fatta complice della massoneria, ma per trarne emolumenti e favori, non già per attingerne ispirazioni; che dove la massoneria regna e governa, l’ispirazione cede il posto all’adulazione, ed essa che dal grande Alighieri fu chiamata nipote di Dio, diventa ancella avvilita di tenebrosa setta!

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