Volentieri offriamo ai lettori questo estratto dal IV volume della Storia universale della Chiesa scritta dal Card. Hergenröther (La Chiesa educatrice nella società medievale e l’Impero carolingio).
Gl’iconoclasti, alla maniera dei vandali, distrussero i più splendidi capolavori dell’arte, perseguitarono vescovi e preti fedeli e segnatamente i monaci, che molto si occupavano nella pittura[i].
Papa Gregorio II, da cui l’imperatore aveva sollecitato la conferma del suo editto, respinse tale proposta e scrisse a lui (circa al 727) una lettera nobilissima, biasimandolo d’avere tacciato d’idolatria il culto delle immagini, spregiato i consigli di Germano, e per contrario dato orecchio a uomini empi, ingeritosi nelle questioni di fede e temerariamente valicato i confini della podestà temporale. Indi si doleva che Leone, contrariamente alle prime sue lettere, avesse levato le ordinazioni dei padri, a fedeli e infedeli dato cagione di scandalo e turbata la pace della Chiesa, secondo il modo dei barbari.
«I dogmi della Chiesa, egli scrive, non sono affare degl’imperatori, ma dei vescovi; e da questi si hanno a stabilire con sicurezza. E in quella guisa che i vescovi, conforme alla loro missione, si astengono dai negozi dello Stato, così devono gl’imperatori astenersi dai negozi della Chiesa». Il concilio universale poi, richiesto da Leone, essere superfluo, anzi nelle presenti condizioni d’Oriente, pericoloso: rendesse Leone solamente la pace, e la pace tornerebbe a fiorire. Alle minacce dell’imperatore che avrebbe in Roma fatto a pezzi l’immagine di s. Pietro e trascinato prigione il Papa nella capitale, egli replicava: «Tu devi sapere come i vescovi di Roma sono per la pace quasi mediatori tra l’Oriente e l’Occidente e la pace devono essi proclamare e difendere; e che se i precedenti imperatori impegnarono lotte, ciò fu per assicurare la pace. Se tu, conforme alle tue parole, mi vieni a dar la caccia, io non ho bisogno di combattere con te. Solo che il vescovo di Roma si allontani un ventiquattro stadii verso la Campania, e tu già non puoi più correre dietro che al vento». Dopo ciò il Papa rammemora la mala fine che fece l’imperatore Costantino, persecutore di Papa Martino, laddove Martino è ora venerato fra i santi. «E così alla sorte di Martino, continua egli, potessi io aver parte, benché per bene del popolo io desideri vita più lunga, da che tutto l’Occidente tiene a me rivolto lo sguardo e dimostra la massima confidenza in s. Pietro». Né il Papa dissimula quali sentimenti i popoli d’Occidente già mostrino contro la tirannia imperiale, e quali espressioni di dolore sollevi lo scorgere che, dove i barbari si fanno civili e costumati, l’imperatore cristiano, chiamato ad essere antesignano dell’incivilimento, calpestata ogni umanità e civiltà, traligna alla più rozza barbarie. Così liberamente insorgeva il Papa contro l’orgoglioso tiranno, sapendo bene di quale gravissima questione si trattava, cioè del principio medesimo della indipendenza della Chiesa e dell’autorità tutta quanta della tradizione cristiana, la quale, giusta gli iconoclasti, se n’era andata lontano dal vero. E con ciò il Papa antivedeva che un tale errore, logicamente applicato, recherebbe seco la rovina di tutto il Cristianesimo[ii].
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[i] German. l. c. 1. Patr. epist. (Migne, Patr. gr. XCVIII, 156 s.). Theophan. l. c. p. 621-629. Nicephor., De rebus post. Maur. gestis, ed. Bonnae p. 64. Georg. Hamart. l. c. p. 632, 633, n. 10-12. Cedren. l. c. I, 797 s. Vita s. Stephani iun. Opp. Damasc. p. 532, ed. Par. 1577.
[ii] Gregor. II, Ep. 1 ad Leon. Jaffè l. c. n. 2180
Immagine (tagliata): Jean-Pierre Dalbéra, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons